Alcuni
pesanti interrogativi chiamano in causa il sistema educativo
- Perché la nostra classe dirigente, a cominciare
dai politici, non appare all'altezza di quella che trasformò
il Paese nel dopoguerra? - Perché lo spirito vincente
che permise il boom economico pare sepolto nel passato?
Fra
gli anni Cinquanta e i primi Sessanta del secolo scorso,
l'Italia fece passi da gigante. Il Paese povero e rurale
sul quale si era accanita la guerra più distruttiva
della storia divenne un moderno Paese industriale. In uno
di quegli anni la lira, la piccola lira risorta dalle ceneri,
fu accreditata fra le più stabili monete del mondo,
mentre il prodotto lordo cresceva a ritmi accelerati. Era
il tempo in cui in pochi anni si realizzavano opere come
l'autostrada del sole, almeno il tratto Milano-Napoli, in
cui l'Italia era il terzo Paese, dopo Unione Sovietica e
Stati Uniti, nella nascente esplorazione spaziale, in cui
l'ENI dettava legge nel mondo degli approvvigionamenti energetici,
almeno fino a quando un incidente aereo che nessuno può
credere fortuito lo privò del suo innovativo presidente.
Che
cosa è rimasto di quel tempo insieme vicino e lontano?
Come mai una società così dinamica non ha
saputo perpetuarsi, per esempio continuando ad esprimere,
come faceva allora, una classe politica degna delle sfide
che era chiamata ad affrontare? Si direbbe che gli italiani
di allora fossero in grado di fare tante cose ma non la
cosa essenziale, garantirsi una successione adeguata. Gli
artefici del boom avevano alle spalle la dittatura e la
guerra, certamente desideravano che ai loro figli fossero
risparmiate quelle esperienze devastanti. Dunque è
questo il punto? Forse questa legittima preoccupazione portò
a eliminare la dura prova della gavetta, a ignorare le contraddizioni
provocate da quell'impetuoso sviluppo, a indebolire il principio
di autorità e la prassi della disciplina. E così
la generazione successiva a quella del boom non seppe approfittare,
per dirne una, della grande occasione rappresentata dall'introduzione
della scuola media unificata, che finalmente provava a correggere
lo storico divario fra la classe di chi comanda e quella
di chi esegue.
Come
si vede, quando si parla di qualità sociali il discorso
tocca inevitabilmente il sistema educativo. Rispetto agli
anni della ricostruzione, la scuola italiana di oggi è
indubbiamente più egualitaria, anche se il superamento
delle ineguaglianze è tutt'altro che completo. Ma
al tempo stesso si è fatta più remissiva,
più condiscendente, meno autorevole. Che sia questa
la radice del declino nazionale? Forse è una delle
concause, ma bisogna considerare che la scuola in fondo
è lo specchio delle società che la esprime,
così come la classe politica non è che quella
scelta dai cittadini attraverso i meccanismi elettorali.
Abbiamo insomma una scuola che riproduce i connotati sociali,
e abbiamo i politici che ci meritiamo, visto che li scegliamo
noi.
Recentemente
un editorialista, commentando certi brutali episodi di violenza
giovanile riportati dalle cronache, parlava di fallimento
della scuola. Se ne parla, del resto, non necessariamente
in riferimento alla violenza: se ne parla anche per spiegare
la diffusa afasia dei nostri giovani, il loro disincanto,
la loro voglia di fuga. Colpa della scuola? O non piuttosto
del fatto che dopo la formazione si trovano proiettati in
una società che non sa offrire lavoro, che avvolge
in loro futuro in una nube d'incertezza? Di qui il fenomeno
della “fuga dei cervelli”, che mortifica doppiamente
le speranze di riscatto del Paese: perché ci priva
dei migliori talenti giovanili e perché vanifica
gli sforzi organizzativi e finanziari per la loro educazione.
C'è poi un altro percorso, quello che una volta portava
all'Italia il contributo umano e finanziario proveniente
dal vasto mondo. Quel contributo si è assottigliato,
non solo, ma contro l'arrivo ormai sporadico di quei capitali
stranieri che una volta erano i benvenuti, e che pure si
mostrano disposti ad affrontare i lacci e i laccioli della
nostra burocrazia e del nostro sistema fiscale, ecco formarsi
un'opinione ostile, che strepita in nome del sovranismo
e di un dissimulato nazionalismo.
Come
uscire da questa condizione? Possiamo cullarci nella speranza
che la scuola possa esercitare una funzione salvifica? É
possibile assolverla per insufficienza di prove dall'accusa
di avere determinato il declino di questo Paese, ma deve
contribuire ad arrestarlo, quel declino, e ad invertire
la tendenza. La spettacolare ricostruzione degli anni Cinquanta
e Sessanta fu resa possibile dal trauma della guerra? Ebbene
se proprio serve un'esperienza traumatica ecco la pandemia
da coronavirus: vediamo un po' se l'Italia, a cominciare
dal suo sistema educativo finalmente riconosciuto come elemento
prioritario, riuscirà a usare questo travaglio per
ripetere il colpo di reni di allora. Si tratta, né
più né meno, di preparare per i nostri ragazzi
un futuro degno di essere vissuto.
a.
v.
|