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Interventi al Forum>Dott.ssa Maura Gelati Intervento del febbraio 2002 Dott.ssa Maura Gelati dell'Università di Lecce, dove insegna Pedagogia Speciale e Didattica Speciale.
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(Presentiamo questo intervento per gentile concessione
della rivista Ricerche Pedagogiche, che l'ha pubblicato
nel numero 140-141 del 2001 all'interno di un articolato dossier sulla
dispersione scolastica)
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Dispersione e integrazione scolastica Maura Gelati In
presenza di soggetti con
bisogni educativi speciali - siano essi handicappati,
svantaggiati socioculturali o bambini, ragazzi, giovani che vivono in
modo problematico la relazione interpersonale- la marginalità
scolastica, connotata dai fenomeni di insuccesso e di dispersione,
rientra nella problematica più vasta della marginalità sociale. Sono
numerosi gli studi e le ricerche che hanno dimostrato che esiste un legame
tra questi due tipi di marginalità: la cattiva riuscita scolastica e
il prematuro abbandono della scuola incidono negativamente sui
destini professionali e personali dei soggetti che vivono queste
esperienze, soprattutto se ciò avviene in relazione alla scuola
dell’obbligo. Scriveva al proposito, quasi vent’anni fa, Elena
Bisozzi: "I dropout
della scuola dell’obbligo sono…, per la quasi totalità, del tutto
convenzionali, con vissuti di fallimento e destinati a svolgere
mansioni subalterne o a inserirsi con estrema difficoltà nel
mercato del lavoro"[1].
Il
problema non cambia molto quando si va a studiare la situazione degli
abbandoni delle prime classi della scuola secondaria, tanto che in
una ricerca degli anni ’90, condotta in Lombardia sulla dispersione
scolastica negli istituti professionali per conto dell’IReR
(Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia) si legge: "Si
tratterebbe in generale della dimensione classista dell’istituzione
scolastica e della sua implicita funzione di selezione sociale"[2]
che colpisce pesantemente gli appartenenti a contesti
socio-famigliari disadattati e, soprattutto, con gravi carenze sul
piano culturale: è alto infatti il loro rischio d’incontrare
serie difficoltà in ambito scolastico[3].
Parlare
del fenomeno della dispersione scolastica, infatti, non significa
solamente far riferimento ai casi di abbandono, di ripetenza, di
evasione dell’obbligo, ma di tutti gli aspetti d’insuccesso
scolastico che lo studente può sperimentare e che nelle nostre scuole
va ben oltre gli altri eventi sopra segnalati. Troppo spesso le cause
d’insuccesso scolastico sono tutte assegnate allo studente e alle
sue situazioni, dimenticando che all’insuccesso dell’alunno
corrisponde sempre quello dell’istituzione scolastica nel suo
insieme, quindi anche dei suoi docenti perché: "il successo
scolastico è una variabile dell’atto formativo e non
della capacità e del grado di adattamento dello studente alla
proposta formativa. Per ottenere migliori e più numerosi risultati
formativi è necessario che i docenti utilizzino le proprie
competenze (tecniche, professionali, relazionali) per adattare la
proposta formativa allo studente, e non viceversa"[4]
In
genere il problema dell’abbandono scolastico, per quanto riguarda i
disabili, non si verifica concretamente, ma si manifesta con la
dispersione scolastica, soprattutto come insuccesso scolastico, in
particolar modo dopo la scuola dell'obbligo. Dopo
la Sentenza della Corte Costituzionale n. 215/1987 e dopo la
legislazione scolastica che ne è seguita e, ancora più, dopo la
Legge - quadro sull’integrazione degli handicappati (n. 104/1992),
molti soggetti in situazione di handicap si sono iscritti alla scuola
secondaria di secondo grado - ben prima che questo diventasse un
obbligo - e, la maggior parte di essi, lo ha fatto in scuole
professionali, con la possibilità di concludere un percorso in
breve tempo (due o tre anni). Molte
sono state le situazioni scolastiche di disabili connotate per
dispersione e questo ci obbliga a ritenere che sia venuto meno un
importante anello nella catena della scolarità: quello dell’orientamento
o, almeno, che continui a mancare, negli organismi che sono chiamati
a fare orientamento,
una corretta e matura gestione di questa risorsa. Non è
sufficiente, né per i ragazzi che non presentano bisogni particolari,
né per gli handicappati, un superficiale contatto con i servizi
preposti all’orientamento dell’ultimo anno della scuola
dell’obbligo; sarà invece indispensabile un orientamento
a 360° che metta in relazione la conoscenza
del soggetto e la conoscenza
delle risorse del territorio in cui questi vive o
desidera trasferirsi. Una
recente ricerca, svolta a Palermo tra gli allievi in uscita o appena
usciti dalle scuole medie uniche di alcuni quartieri socialmente
svantaggiati - all’interno del Progetto Youthstart
"I giovani e l’artigianato: una via per l’Europa"-
evidenzia che "nel processo di orientamento un ruolo fondamentale
lo svolgono i genitori che sono considerati dai figli la principale
fonte di informazione per la loro scelta dopo la scuola media"[5].
Interessante vedere le prevalenti fonti cui attingono per orientarsi
questi soggetti: "la madre (63,9%), il padre (58,8%), gli
insegnanti (41,6), i fratelli o gli altri parenti (40,3%)"[6].
Ai Centri di orientamento fa riferimento non più di un 20%. Risultati
di questo tipo dimostrano chiaramente l’inefficacia degli organi
istituzionalmente preposti all’orientamento e sottolineano ancora
una volta, se ve ne fosse bisogno, lo stretto legame tra appartenenza
socioculturale e scelte formativo/ professionali, con tutti i
problemi connessi al successo e all’insuccesso scolastico. Se per
ogni giovane, la conoscenza del soggetto e la conoscenza delle risorse
esistenti nel territorio debbono essere messe in interazione per
produrre un orientamento efficace, davanti alla necessità di
orientare un giovane handicappato gli elementi da considerare si
moltiplicano. Si dovrà cioè puntare su una conoscenza dell’alunno
con bisogni educativi speciali che ne contempli gli aspetti
cognitivi, relazionali e il tipo di disabilità che lo connota, ma
anche le sue aspettative, i comportamenti compensatori che mette in
atto, gli interessi che mostra, le capacità relazionali, le
aspettative della sua famiglia, le motivazioni del soggetto a un certo
tipo di scelta piuttosto che ad un'altra, la sua autonomia, ecc. Una
conoscenza così specifica richiederà ripetute occasioni di osservazione
del soggetto e comporterà colloqui, sia con lui, sia con gli adulti
che gli sono vicini, ma anche occasioni in cui il disabile possa
sperimentare i contesti verso i quali si ipotizza di indirizzarlo. In
realtà, un proficuo orientamento formativo professionale sarà solo
quello che, contribuendo a far compiere al soggetto una sintesi tra il
desiderio di soddisfare le inclinazioni personali e le
opportunità del sistema socio-ambientale, lo aiuterà a formarsi
un'adeguata immagine del proprio sé, capace di fargli superare gli
ostacoli che possono condurlo sino all’insuccesso scolastico e alla
conseguente dispersione. Considerando
poi una categoria di disabili, ad esempio quelli motori gravi, si vede
che essi, molto spesso, hanno dei problemi oggettivi di cui devono
tener conto quando devono decidere quale scuola secondaria superiore
intraprendere, in quanto possono presentare dei problemi di postura,
quindi aver difficoltà a stare molte ore seduti a studiare, oppure
possono avere dei problemi di vista, che li mettono in condizione di
affaticamento eccessivo a causa dello studio dei testi scolastici, ma
possono anche presentare problemi di linguaggio (come nei casi di
tetraparesi spastica) che, limitandone la comunicazione, li
condizionano dal punto di vista relazionale. Problemi
come quelli sopra enunciati sono oggettivi e fanno sì che, tante
volte, genitori, insegnanti e operatori sociali indirizzino il diversamente
abile[7]
ad una scuola che viene, preventivamente, considerata di
scarso impegno, idonea, dunque, a conciliare il
proseguimento degli studi dopo la scuola dell'obbligo, con i problemi
di disabilità e di handicap del ragazzo[8]. Ma
la scuola che sembra
presentare minori difficoltà, vuoi per brevità, vuoi per il tipo di
discipline previste nel suo curriculum,
può non rispondere ai bisogni,
di un disabile motorio molto grave che, forse ancora più dei così
detti normodotati,
ha bisogno di un’eccellente formazione, sia culturale,
sia per quanto attiene la personalità, che gli consenta di sopperire
ai suoi handicap fisici, per poter così accedere ad attività
lavorative in grado di valorizzare le sue capacità. Eppure tutto ciò
non si verifica che eccezionalmente: spesso gli studenti disabili sono
vittime di insuccessi scolastici, che non permetteranno loro di
raggiungere le competenze necessarie e il livello culturale che può
renderli competitivi nel contesto lavorativo. Come
se tutto ciò non bastasse, spesso l’alunno disabile, non riuscendo
ad adeguarsi alle richieste del sistema scolastico, fornisce
scolasticamente risposte inadeguate alle aspettative degli adulti;
tende ad attribuire a sé la causa del proprio insuccesso e/o
abbandono scolastico; non riesce a costruire una corretta autostima,
anzi rafforza sempre più l'immagine negativa che ha di se stesso,
quindi contribuisce pesantemente ad aumentare la propria
situazione di marginalità sociale. Molto
spesso è anche difficile il dialogo del ragazzo disabile con i suoi
insegnanti e con i compagni di classe, non solo per motivi di
"deficit strumentali" - intendendo con ciò condizioni
determinate da problemi di linguaggio, come dislalie[9],
disartrie[10]
ecc. - ma anche problemi psicologici, emotivi, relazionali, affettivi,
che possono indurlo a non comunicare all’interno dell’istituzione
i propri bisogni, le difficoltà che incontra, le incertezze che
sperimenta, ma anche i progetti che vorrebbe realizzare, i sogni che
rincorre, i valori che persegue. A questo punto l'alunno diventa estraneo
alla propria scuola e fra lui e gli insegnanti si
instaura una dinamica di forte disagio, che aumenta le probabilità di
dispersione scolastica del giovane. Nella
scolarizzazione dell’alunno disabile si può verificare un’altra
situazione: per un atteggiamento di errato pietismo, al soggetto in
situazione di handicap non si pongono quelle richieste di impegno, di
lavoro, di sforzo che sono necessarie per apprendere
e per apprendere
ad apprendere, favorendone il passaggio alle classi successive,
ma non aiutandolo a prepararsi alla vita, né da un punto di vista di
formazione di personalità, né per quanto può attenere il piano
culturale e di competenze. Su
questo aspetto, alcuni anni fa, ad un convegno sull’integrazione
scolastica, sono stata colpita dall’intervento che un responsabile
nazionale dell’associazione ciechi faceva sul livello di
competenze con le quali gli studenti ciechi uscivano dalla scuola
secondaria di secondo grado. Diceva che era diminuito il numero di
coloro che di iscrivevano all’Università, ma che, soprattutto, i
soggetti con diploma di scuola secondaria di secondo grado
dimostravano di non possedere gli strumenti culturali che tali corsi
di studio avrebbero dovuto garantire loro. In quella sede il
responsabile dell’associazione ciechi muoveva critiche
all’integrazione scolastica, che giudicava non idonea a dare, sin
dagli ordini inferiori di scolarizzazione, agli handicappati mezzi
adeguati - leggere, scrivere, far di conto-, per permettere loro, poi,
un'efficace scolarizzazione negli ordini scolastici superiori. Egli
invocava perciò la riapertura delle scuole speciali - cosa non
condivisibile- ma un’analisi corretta invece la faceva a proposito
del fatto che, spesso, agli studenti in situazione di handicap i
docenti tendono a porre richieste culturalmente meno impegnative
di quelle proposte ai coetanei, non rendendosi conto che una cattiva
preparazione, anche in presenza di un titolo di studio, può poi
significare un fallimento successivo del disabile in rapporto
all’inserimento nel mondo del lavoro, oltre ad un danno psicologico
immediato. L’alunno
in situazione di handicap, infatti, può interiorizzare il messaggio
che tutto
gli è dovuto, compresa la promozione nel corso degli studi
senza un suo serio impegno, quasi a compensarlo della disgrazia
di essere stato colpito da disabilità. Questo atteggiamento può
negativamente influenzare la sua personalità, creargli problemi di
socializzazione e farne perciò un emarginato sia nella scuola, sia
nella vita adulta. Glaser sostiene che gli allievi riescono a
sviluppare la loro identità quando possono soddisfare,
nell'interazione scolastica, i bisogni di accettazione e di stima[11]:
questo va certamente esteso anche al caso del disabile, per il quale
lo sviluppo dell’identità comporta, innanzi tutto, accettazione
dei propri limiti connessi alla propria disabilità, senza la quale
non sarà possibile che il soggetto raggiunga un adeguato livello di
autonomia[12].
Per ogni giovane, il raggiungimento dell'identità è il punto di
partenza per un corretto processo di costruzione dell'autonomia che,
se vede la famiglia impegnata in prima fila, richiede all'ambiente
scolastico tutto, ma in particolare ai docenti, il massimo sforzo per
aiutare l'allievo in situazione di handicap a maturare uno stato
mentale che gli permetta di sentirsi persona autonoma. Troppo
spesso, ancora oggi la scuola, salvo lodevoli eccezioni, limitandosi
all'inserimento del disabile o mettendo in atto nei suoi confronti
più forme di pietismo che di educazione, non integrandolo perciò
realmente, non è ancora riuscita a diventare per lui vera agenzia
di socializzazione e ad essere il punto dal quale egli
possa partire per costruire la propria autonomia. Molte
sono le cose che la scuola non spiega ai propri utenti più deboli,
quelli che appartengono a un contesto socio-economico-culturale
deprivato, o quelli che appartengono alla grande famiglia
connotata dalla diversità.
Al proposito è interessante riflettere su questo episodio
riportato nel volume curato da M. V. Masoni. In esso si riferisce il
racconto di Katja, alunna con una storia di scolarizzazione
problematica, senza presentare né disabilità, né handicap, la
quale, in una scuola che non l’aiuta a decodificare il linguaggio
che usa, s’inventa
significati che le sembrano sensati ad espressioni che le sono ignote.
Dice Katja: "Ricordo quando una volta alla scuola media mi
avvisarono che un certo giorno ci sarebbe stato un compito in classe,
io credetti che per quell’occasione non si dovessero fare i compiti
a casa e che ci avrebbe aiutato in classe l’insegnante, magari
spiegandoci ciò che non avevamo capito. Invece era esattamente il
contrario... In quell’occasione io mi aspettavo che gli insegnanti
mi insegnassero proprio le cose…, speravo di essere guidata in
classe nello svolgimento di un compito che fosse il prototipo del fare
i compiti"[13].
Forse
a troppi bambini, ragazzi e giovani, abili o disabili, la scuola non
parla con un linguaggio comprensibile, non ascolta sufficientemente i
loro interrogativi, ma anche le loro paure ed incertezze, non ne
favorisce la costruzione dell’autostima, anzi si comporta in modo
che al soggetto in difficoltà scolastiche possa venire un’idea
simile a quella che denuncia Katja, quando sostiene. "[la scuola
mi ha tolto] tutto, ma prima di tutto la fiducia in me stessa… Tutte
le volte che sento "hai sbagliato", per me ancora
significa "sei sbagliata tu"[14].
Se ci limitassimo a pensare che la dispersione scolastica è un
fenomeno dipendente solamente dagli elementi sino ad ora considerati
commetteremmo un errore: la difficoltà di tracciare un quadro
esaustivo delle cause di dispersione scolastica nasce dal fatto che il
fenomeno è complesso per la presenza di problematiche che si incrociano,
potenziandosi reciprocamente, sino a produrre l’uscita dalla scuola
del soggetto. Vi sono cause strutturali e dinamiche che si
intrecciano, per cui ad ambienti famigliari culturalmente ed
educativamente deprivati si aggiungono i limiti di un certo sistema
scolastico nel quale prevale il principio d’istruzione
su quello di educazione,
con tutta una serie di rigidità metodologico- didattiche
che favoriscono la dispersione scolastica. Se a tutto ciò, poi, si
aggiungono fattori soggettivi, tipo le aspirazioni sociali, il
basso livello di valori, la demotivazione all’apprendimento,
l’influenza del gruppo dei pari[15],
si capisce quale rischio di dispersione scolastica vivano alcuni
studenti, anche quando non si abbia un abbandono precoce della scuola,
ma discontinuità del percorso formativo. Recentemente
è uscito il resoconto di una ricerca-intervento sulla qualità dei risultati
di un modello, proposto per contenere la dispersione scolastica, il
"Progetto Mentoring", nato negli Stati Uniti alla metà
degli anni ’80 e presente da alcuni anni anche in Italia con 21
programmi e il coinvolgimento di circa 400 ragazzi a rischio di
dispersione scolastica[16].
Per la ricerca, che ha avuto finanziamenti dal CNR e il sostegno di
importanti realtà economiche, sono state scelte come città-pilota
Lecce e Palermo, ambiti in cui il problema della dispersione è
stato ed è una pesante realtà. Le conclusioni dei ricercatori
sulla validità del "Progetto Mentoring", pur sottolineando
che "ancora molto può essere fatto per una migliore efficacia
dell’intervento", sono che grazie ad esso si ha la
"valorizzazione della risposta uomo in tutte le fasi del suo
sviluppo, conducendo i più giovani verso un percorso di maturazione
del proprio potenziale e di arricchimento interiore". Non sarà
certo un singolo modello, per quanto interessante, che sarà determinante
per la soluzione di un problema così complesso come quello della
dispersione scolastica, ma, ancora una volta, questo potrà essere
stimolo e risorsa per nuovi interventi e seri impegni di tutta la
società a favore di una migliore
qualità di scuola per abili
e diversamente
abili.
[1].
E. Besozzi, Differenziazione
culturale e socializzazione scolastica, Milano, Vita e
Pensiero, 1983, p. 274.
[3].
Cfr. E. Besozzi, R. Ribolzi, Gli
esiti della marginalità scolastica, in M. Ampola (a cura
di), Dalla
marginalità all'emarginazione,
Milano, Vita e Pensiero, 1986;
M. Ambrosini, A. De Bernardis, Ai
bordi del campo, Roma,
Edizioni Lavoro, 1988; D. Mucco, P. Reggio (a cura di),
Fuori
dal gioco, Milano, Angeli, 1988.
[4].
C. M. Gentile, Successo
formativo e prevenzione del disagio socio-educativo. Un modello di
intervento globale e dinamico, in M. V.Masoni
(a cura di), La
dispersione scolastica. Come una città può promuovere l’agio e
i successi formativi, Milano, Unicopli, 1998.
[5].
G. Zanniello (a cura
di), Formazione
e lavoro dopo l’obbligo scolastico, Palermo, Palombo,
2001, p. 55.
[7].
Il termine è utilizzare all’interno delle associazioni dei
disabili che rifiutano la formula negativa costituita dal prefisso
"dis" nel termine "disabile" e preferiscono una
locuzione positiva, che individua nella "diversità" la
possibile "abilità".
[8].
Scrive un giovane disabile: "A volte consigliare un scuola
professionale ad un disabile grave può essere un buon metodo per
risolvere o agevolare i suoi problemi oggettivi contingenti;
rischia però di non tener conto delle sue capacità o potenzialità
intellettive che vanno stimolate e accresciute se si vuole dargli
un futuro lavorativo, se si crede veramente che la scuola sia un
momento formativo utile per l'attività futura che svolgerà nell’età
adulta, se non si vive la scuola superiore solamente come un luogo
protetto dove poter parcheggiare il disabile per alcuni anni"
(A. Riminucci, Autonomia
e handicap motorio congenito grave, Tesi di Laurea discussa
all’Università di Parma, Fac. di Magistero, Relatore M.
Gelati, a. a. 1996-97, p.27).
[12].
Sul problema dell’autonomia cfr. M. Gelati,
Disabilità
e situazione di handicap verso il mondo del lavoro, in
"Ricerche Pedagogiche", n. 134, 2000.
[13].
M. V. Masoni (a cura
di), La
dispersione scolastica, cit., p. 121. Il riporto è preso
da Ines Testoni, Genitori
e insegnanti quasi perfetti, Milano,
Giuffrè, 1995.
[15].
Cfr. D. Francescano, A. Putton, G. Curzi, L’abbandono
scolastico durante la scuola media inferiore in una zona a rischio
di Roma, in C. Arcidiacono, B.R. Gelli, A. Putton, F.
Signani (a cura di), Psicologia
di comunità oggi, Napoli,
Magma, 1996
[16].
Sul progetto italiano si veda: B. R. Gelli, T. Mannarini, Il
mentoring. Uno strumento contro la dispersione scolastica.,
Roma, Carocci, 1999.
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