FOGLIO LAPIS - GIUGNO 2000

 
 

 

Quanto l'analfabetismo è "soltanto" funzionale - Secondo un sondaggio recente del Centro europeo dell'educazione, due terzi degli italiani hanno con la lettura un rapporto conflittuale - Caso limite: persino l'8,5 per cento dei laureati può contare su un patrimonio alfabetico limitato: il che significa saper leggere ma troppo spesso senza capire

 

Come la Gallia ai tempi di Giulio Cesare, l'Italia si divide "in partes tres" più o meno equivalenti: abbiamo un terzo degli italiani che se la cava con disinvoltura di fronte a un testo scritto (ma solo il nove per cento della popolazione è del tutto libero da ogni problema di comprensione), un altro terzo in grado di capire solo messaggi semplici, un terzo infine, o poco meno, siamo al 31 per cento, in serie difficoltà di fronte alla ricezione o alla trasmissione di un messaggio scritto. Fra questi ultimi si contano poi due milioni di analfabeti totali. Dunque, per riassumere, due italiani su tre hanno problemi più o meno gravi con la lettura e la scrittura. Si chiama analfabetismo funzionale, quello di chi sa leggere ma… Un dato impressionante, quello scaturito dall'indagine del Centro europeo dell'educazione. Un dato che spiega molte cose: per esempio perché mai gli italiani si collocano fra gli ultimi posti nelle statistiche internazionali quanto a consumo di libri o lettura di giornali.

L'indagine rivela dettagli incredibili, per esempio che la scarsa alfabetizzazione è sì in rapporto inverso con il grado di istruzione, ma questo non toglie che più del dieci per cento dei diplomati e persino l'8,5 per cento dei laureati faccia parte della fascia estrema, siano cioè fra coloro che incontrano gravi difficoltà nel ricevere o nel trasmettere un messaggio scritto. Un solo dato consolante: la tendenza al miglioramento che risulta dalla distribuzione del fenomeno fra le varie classi di età: analfabetismo e semianalfabetismo sono infatti più diffusi fra gli anziani, i giovani se la cavano un pochino meglio. Il futuro è dunque relativamente più roseo. Non a caso nella comparazione internazionale l'Italia, fra gli ultimi paesi secondo la classifica globale, guadagna alcune posizioni se si riduce il confronto alle classi più giovani. Ma non per questo la situazione cessa di essere insoddisfacente.

Ricorda il ministro della pubblica istruzione Tullio De Mauro che negli anni Cinquanta avevamo il trenta per cento di analfabeti totali: c'è dunque un progresso, ma si tratta evidentemente un progresso relativo, visto che quel terzo di analfabeti totali si è trasformato in un terzo di italiani che è comunque a disagio di fronte alla parola scritta. Il prolungamento dell'obbligo scolastico e la media unica hanno portato a una maggiore scolarizzazione, ma a quanto pare con effetti piuttosto deludenti sulla formazione culturale di massa. Quanto al fenomeno di tutti quei diplomati e laureati incapaci di servirsi senza problemi della lettura e della scrittura, è chiaro che chiama in causa gravissime responsabilità dell'organizzazione scolastica.

Gli stessi giovani, certo se la cavano mediamente meglio dei loro padri e soprattutto dei loro nonni, ma la scuola li ha educati e invogliati talmente poco alla lettura che vivono praticamente in un mondo non di parole ma di immagini. Le sole parole con cui hanno familiarità sono quelle pubblicitarie, gli slogan, e la stessa politica ormai è fatta soprattutto di slogan. I programmi televisivi sono proprio indirizzati verso questo genere di utenza, mentre la capacità di penetrazione del più diffuso fra i mezzi di comunicazione potrebbe aiutare la gente ad avere maggiore familiarità con la parola, con la cultura. Qualche speranza si può riporre nelle nuove tecnologie informatiche, che da un lato attraggono irresistibilmente i giovani (se non altro attraverso il richiamo dei giochi elettronici) mentre dall'altro restituiscono un ruolo alla parola scritta.

Bisogna infine considerare il delicato rapporto fra analfabetismo, funzionale o no, e democrazia. Alcune settimane fa gli elettori italiani sono stati chiamati a votare su sette referendum. Ora, secondo i dati del Centro europeo dell'educazione soltanto un terzo degli elettori era in grado di cavarsela con quelle sette schede. Contenevano infatti le complesse formulazioni delle norme di cui si è proposta l'abrogazione, scritte fra l'altro con un linguaggio che non aiuta certo la comprensione. Forse la massiccia diserzione degli elettori deve qualcosa, oltre che agli espliciti inviti all'astensionismo formulati da diverse parti politiche, anche a una riluttanza naturale, nel paese diviso "in partes tres", rispetto a quel rito politico per iniziati che è il referendum.

Del resto non si tratta di problema soltanto italiano. Anche in Svizzera per esempio, dove queste consultazioni popolari sono all'ordine del giorno, si pone un problema di comprensione da parte degli elettori. Recentemente un giornale di Lugano si è fatto portavoce di un dubbio sempre più diffuso nella Confederazione: se cioè di fronte a domande sempre più dense e complesse la democrazia diretta non stia perdendo gran parte della sua credibilità. Questo in Svizzera, figuriamoci in Italia, dove un terzo della popolazione è impotente o quasi davanti al mistero della scrittura, mentre un altro terzo arranca di fronte a testi difficili, quali sono certamente i quesiti referendari.

a.v.

 
 

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