Quanto
l'analfabetismo è "soltanto" funzionale - Secondo un sondaggio
recente del Centro europeo dell'educazione, due terzi
degli italiani hanno con la lettura un rapporto conflittuale
- Caso limite: persino l'8,5 per cento dei laureati può
contare su un patrimonio alfabetico limitato: il che significa
saper leggere ma troppo spesso senza capire
Come
la Gallia ai tempi di Giulio Cesare, l'Italia si divide
"in partes tres" più o meno equivalenti: abbiamo un terzo
degli italiani che se la cava con disinvoltura di fronte
a un testo scritto (ma solo il nove per cento della popolazione
è del tutto libero da ogni problema di comprensione), un
altro terzo in grado di capire solo messaggi semplici, un
terzo infine, o poco meno, siamo al 31 per cento, in serie
difficoltà di fronte alla ricezione o alla trasmissione
di un messaggio scritto. Fra questi ultimi si contano poi
due milioni di analfabeti totali. Dunque, per riassumere,
due italiani su tre hanno problemi più o meno gravi con
la lettura e la scrittura. Si chiama analfabetismo funzionale,
quello di chi sa leggere ma… Un dato impressionante, quello
scaturito dall'indagine del Centro europeo dell'educazione.
Un dato che spiega molte cose: per esempio perché mai gli
italiani si collocano fra gli ultimi posti nelle statistiche
internazionali quanto a consumo di libri o lettura di giornali.
L'indagine
rivela dettagli incredibili, per esempio che la scarsa alfabetizzazione
è sì in rapporto inverso con il grado di istruzione, ma
questo non toglie che più del dieci per cento dei diplomati
e persino l'8,5 per cento dei laureati faccia parte della
fascia estrema, siano cioè fra coloro che incontrano gravi
difficoltà nel ricevere o nel trasmettere un messaggio scritto.
Un solo dato consolante: la tendenza al miglioramento che
risulta dalla distribuzione del fenomeno fra le varie classi
di età: analfabetismo e semianalfabetismo sono infatti più
diffusi fra gli anziani, i giovani se la cavano un pochino
meglio. Il futuro è dunque relativamente più roseo. Non
a caso nella comparazione internazionale l'Italia, fra gli
ultimi paesi secondo la classifica globale, guadagna alcune
posizioni se si riduce il confronto alle classi più giovani.
Ma non per questo la situazione cessa di essere insoddisfacente.
Ricorda
il ministro della pubblica istruzione Tullio De Mauro che
negli anni Cinquanta avevamo il trenta per cento di analfabeti
totali: c'è dunque un progresso, ma si tratta evidentemente
un progresso relativo, visto che quel terzo di analfabeti
totali si è trasformato in un terzo di italiani che è comunque
a disagio di fronte alla parola scritta. Il prolungamento
dell'obbligo scolastico e la media unica hanno portato a
una maggiore scolarizzazione, ma a quanto pare con effetti
piuttosto deludenti sulla formazione culturale di massa.
Quanto al fenomeno di tutti quei diplomati e laureati incapaci
di servirsi senza problemi della lettura e della scrittura,
è chiaro che chiama in causa gravissime responsabilità dell'organizzazione
scolastica.
Gli
stessi giovani, certo se la cavano mediamente meglio dei
loro padri e soprattutto dei loro nonni, ma la scuola li
ha educati e invogliati talmente poco alla lettura che vivono
praticamente in un mondo non di parole ma di immagini. Le
sole parole con cui hanno familiarità sono quelle pubblicitarie,
gli slogan, e la stessa politica ormai è fatta soprattutto
di slogan. I programmi televisivi sono proprio indirizzati
verso questo genere di utenza, mentre la capacità di penetrazione
del più diffuso fra i mezzi di comunicazione potrebbe aiutare
la gente ad avere maggiore familiarità con la parola, con
la cultura. Qualche speranza si può riporre nelle nuove
tecnologie informatiche, che da un lato attraggono irresistibilmente
i giovani (se non altro attraverso il richiamo dei giochi
elettronici) mentre dall'altro restituiscono un ruolo alla
parola scritta.
Bisogna
infine considerare il delicato rapporto fra analfabetismo,
funzionale o no, e democrazia. Alcune settimane fa gli elettori
italiani sono stati chiamati a votare su sette referendum.
Ora, secondo i dati del Centro europeo dell'educazione soltanto
un terzo degli elettori era in grado di cavarsela con quelle
sette schede. Contenevano infatti le complesse formulazioni
delle norme di cui si è proposta l'abrogazione, scritte
fra l'altro con un linguaggio che non aiuta certo la comprensione.
Forse la massiccia diserzione degli elettori deve qualcosa,
oltre che agli espliciti inviti all'astensionismo formulati
da diverse parti politiche, anche a una riluttanza naturale,
nel paese diviso "in partes tres", rispetto a quel rito
politico per iniziati che è il referendum.
Del
resto non si tratta di problema soltanto italiano. Anche
in Svizzera per esempio, dove queste consultazioni popolari
sono all'ordine del giorno, si pone un problema di comprensione
da parte degli elettori. Recentemente un giornale di Lugano
si è fatto portavoce di un dubbio sempre più diffuso nella
Confederazione: se cioè di fronte a domande sempre più dense
e complesse la democrazia diretta non stia perdendo gran
parte della sua credibilità. Questo in Svizzera, figuriamoci
in Italia, dove un terzo della popolazione è impotente o
quasi davanti al mistero della scrittura, mentre un altro
terzo arranca di fronte a testi difficili, quali sono certamente
i quesiti referendari.
a.v.
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