FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2007

 
 

Ricordate Elena Mirra, la ragazza che nel numero scorso raccontava la sua avventura sanitaria, il suo incontro con l’incubo della malattia, l’alienazione ospedaliera e l’umanità dei medici? – Ecco le stesse tematiche considerate dall’altra parte della barricata - Il dottor A.P., un affermato professionista con trent’anni di esperienza, ci spiega il tormento di essere identificato con la malattia del paziente, che pretende da lui la perfezione umana e scientifica  

 

 

Cara Elena Mirra,

ho letto la tua lettera sul Foglio Lapis e, correndo il mio trentesimo anniversario di laurea in medicina, ho pensato di scrivere a te ma, in fondo, scrivo anche ai miei trent’anni di laurea.

Devo fare una premessa che ti aiuterà a capirmi meglio.

Io ho fatto il militare nell’Infermeria di una Caserma. Dalle finestre dell’Infermeria si vedeva il piazzale. Una mattina, durante l’adunata di tutti i soldati nel piazzale, era in Infermeria un giovane ufficiale di carriera. Guardando dalla finestra, disse :

Sai, di tutti quelli che sono nel piazzale solo una ridicola minoranza è contenta di essere qui, tutti gli altri vorrebbero essere altrove”.

Non risposi, era chiaro che non c’era risposta. Quanto meno io, anche in seguito, non ne ho trovata una.

Così, spesso, quando vado in Ospedale penso a quella frase.

Una persona ha la sua indole, le sue idee, il suo carattere, insomma recita un suo copione. Il problema è che quando è malata, quando si mette di fronte al Medico, cioè alla sua malattia, la persona cambia profondamente.

Ecco le prime due cose: spessissimo identifichiamo la nostra malattia con il Medico, con l’Ospedale, insomma con le strutture sanitarie ed i relativi operatori. Noi Medici, facciamo parte della malattia dei Pazienti!

Inoltre, di fronte alla malattia, si hanno comportamenti anomali, reazioni strane, dove la paura fa da leit motiv. Dr. Jekyll… E io Medico devo fare i conti non con Elena Mirra ragazza giovane sana, allegra e spensierata, ma con la Paziente Elena Mirra, impaurita, ansiosa, disorientata, incredula.

Non abbiamo ammortizzatori, noi Medici, né scusanti.

Ma ti dirò di più.

Da trent’anni, ogni persona che si è rivolta a me lo ha fatto pretendendo  l’infallibilità. Nessuno mi ha mai concesso margini: perfetto sul piano umano, perfetto su quello organizzativo, perfetto su quello scientifico.

Con me, dottore, non deve sbagliare”.

Cioè: non devo sbagliare mai.

Io ho sempre sentito questo peso della necessità assoluta di non sbagliare mai, è stato il peso peggiore, quello più grave da portare. Te lo immagini? Non puoi sbagliare, tutti pretendono da te la perfezione e l’infallibilità!

E se poi sbagli…

Da una parte c’è il Paziente che soffre di più a causa tua, poi il tuo rimorso, terribile, poi i Colleghi che non sempre, eufemisticamente parlando, ti aiutano. E la Struttura ti condanna, e il giudice ti condanna. E i giornali ti condannano.

Perché? Solo perché non sei stato perfetto: hai sbagliato, e che diamine, come ti permetti di sbagliare?

La TV ha avuto il Dr. Kildare una volta ed il Dr. House oggi: perfetti, fenomenali! E i giornali? Parlano di una scienza che risolve tutto, assolutamente tutto. Ingenerano la convinzione che tutte le malattie siano guaribili, non solo curabili, capisci, guaribili!

Sicché, se  non ce la fai è perché sei un somaro.

Conclusione: io Medico ho a che fare con te Paziente, che non vorresti avere a che fare con me, che vorresti essere da un’altra parte, che mi identifichi con la tua malattia, anche.

Io Medico ho a che fare con te che mi pretendi perfetto, umano, colto, preparato, fenomenale e, se possibile, sempre giovane, se non anche bello! Ma, comunque, PERFETTO.

Io Medico ho a che fare con te Paziente che hai il fucile spianato e non ti importa se in trent’anni non ho mai sbagliato, non ti importa, tu vuoi, anzi pretendi, visto che la Televisione… visto che i giornali… allora sei tu che non….

Come portare questo peso?

Come non vedere in ogni Paziente un nemico?

Io, nella mia vita,  ho incontrato Gesù Cristo e da questo incontro ho capito che avevo anche io un Cireneo, un “ammortizzatore”, uno che mi amava anche quando sbagliavo (forse, in quel momento, di più… ho avuto più di una volta questo sospetto).

Ecco, ti ho detto una cosa sulla mia professione.

E oggi, a trent’anni di distanza dal giorno della laurea, ti posso dire in tutta franchezza che, sì, rifarei il Medico, perché la considero la professione più bella del mondo, alla luce di un Vangelo che ti insegna a amare là dove i tuoi limiti umani te lo impedirebbero. Il mio segreto, se così si può dire, è stato questo. Si, lo rifarei, a patto di ritrovare, sulla mia strada quel Cireneo.

                                                               A. P. 

 

   


                                                  

 
 

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