Ricordate
Elena Mirra, la ragazza che nel numero scorso raccontava
la sua avventura sanitaria, il suo incontro con l’incubo
della malattia, l’alienazione ospedaliera e l’umanità
dei medici? – Ecco le stesse tematiche considerate
dall’altra parte della barricata - Il dottor A.P., un
affermato professionista con trent’anni di esperienza,
ci spiega il tormento di essere identificato con la
malattia del paziente, che pretende da lui la perfezione
umana e scientifica
Cara Elena Mirra,
ho letto la tua
lettera sul Foglio Lapis e, correndo il mio trentesimo
anniversario di laurea in medicina, ho pensato di scrivere
a te ma, in fondo, scrivo anche ai miei trent’anni di
laurea.
Devo fare una premessa che ti aiuterà a capirmi
meglio.
Io ho fatto il militare nell’Infermeria di una
Caserma. Dalle finestre dell’Infermeria si vedeva il
piazzale. Una mattina, durante l’adunata di tutti i
soldati nel piazzale, era in Infermeria un giovane
ufficiale di carriera. Guardando dalla finestra, disse :
“Sai, di tutti quelli che sono nel piazzale solo una
ridicola minoranza è contenta di essere qui, tutti gli
altri vorrebbero essere altrove”.
Non risposi, era chiaro che non c’era risposta.
Quanto meno io, anche in seguito, non ne ho trovata una.
Così, spesso, quando vado in Ospedale penso a quella
frase.
Una persona ha la sua indole, le sue idee, il suo
carattere, insomma recita un suo copione. Il problema è
che quando è malata, quando si mette di fronte al Medico,
cioè alla sua malattia, la persona cambia profondamente.
Ecco le prime due cose: spessissimo identifichiamo la
nostra malattia con il Medico, con l’Ospedale, insomma
con le strutture sanitarie ed i relativi operatori. Noi
Medici, facciamo parte della malattia dei Pazienti!
Inoltre, di fronte alla malattia, si hanno
comportamenti anomali, reazioni strane, dove la paura fa
da leit motiv. Dr. Jekyll… E io Medico devo fare i conti
non con Elena Mirra ragazza giovane sana, allegra e
spensierata, ma con la Paziente Elena Mirra, impaurita,
ansiosa, disorientata, incredula.
Non abbiamo ammortizzatori, noi Medici, né scusanti.
Ma ti dirò di più.
Da trent’anni, ogni persona che si è rivolta a me
lo ha fatto pretendendo
l’infallibilità. Nessuno mi ha mai concesso
margini: perfetto sul piano umano, perfetto su quello
organizzativo, perfetto su quello scientifico.
“Con me, dottore, non deve sbagliare”.
Cioè: non devo sbagliare mai.
Io ho sempre sentito questo peso della necessità
assoluta di non sbagliare mai, è stato il peso peggiore,
quello più grave da portare. Te lo immagini? Non puoi
sbagliare, tutti pretendono da te la perfezione e
l’infallibilità!
E se poi sbagli…
Da una parte c’è il Paziente che soffre di più a
causa tua, poi il tuo rimorso, terribile, poi i Colleghi
che non sempre, eufemisticamente parlando, ti aiutano. E
la Struttura ti condanna, e il giudice ti condanna. E i
giornali ti condannano.
Perché? Solo perché non sei stato perfetto: hai
sbagliato, e che diamine, come ti permetti di sbagliare?
La TV ha avuto il Dr. Kildare una volta ed il Dr.
House oggi: perfetti, fenomenali! E i giornali? Parlano di
una scienza che risolve tutto, assolutamente tutto.
Ingenerano la convinzione che tutte le malattie siano
guaribili, non solo curabili, capisci, guaribili!
Sicché, se non
ce la fai è perché sei un somaro.
Conclusione: io Medico ho a che fare con te Paziente,
che non vorresti avere a che fare con me, che vorresti
essere da un’altra parte, che mi identifichi con la tua
malattia, anche.
Io Medico ho a che fare con te che mi pretendi
perfetto, umano, colto, preparato, fenomenale e, se
possibile, sempre giovane, se non anche bello! Ma,
comunque, PERFETTO.
Io Medico ho a che fare con te Paziente che hai il
fucile spianato e non ti importa se in trent’anni non ho
mai sbagliato, non ti importa, tu vuoi, anzi pretendi,
visto che la Televisione… visto che i giornali… allora
sei tu che non….
Come portare questo peso?
Come non vedere in ogni Paziente un nemico?
Io, nella mia vita,
ho incontrato Gesù Cristo e da questo incontro ho
capito che avevo anche io un Cireneo, un
“ammortizzatore”, uno che mi amava anche quando
sbagliavo (forse, in quel momento, di più… ho avuto più
di una volta questo sospetto).
Ecco, ti ho detto una cosa sulla mia professione.
E oggi, a trent’anni di distanza dal giorno della
laurea, ti posso dire in tutta franchezza che, sì,
rifarei il Medico, perché la considero la professione più
bella del mondo, alla luce di un Vangelo che ti insegna a
amare là dove i tuoi limiti umani te lo impedirebbero. Il
mio segreto, se così si può dire, è stato questo. Si,
lo rifarei, a patto di ritrovare, sulla mia strada quel
Cireneo.
A.
P.
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