Uno
studio del centro di ricerca europeo Lisbon Council pone
l’accento sulle conseguenze disastrose cui alcuni paesi,
come la Germania e l’Italia, andranno incontro se non
interverrà un deciso cambio di tendenza in materia
d’investimento nelle capacità individuali – La
prospettiva per la prossima generazione potrebbe essere un
netto peggioramento del tenore di vita – É necessario
assegnare più risorse all’istruzione e alla formazione,
ma non solo
Si parla di capitale umano e l’espressione può
anche infastidire, poiché sembra ridurre la persona al suo
solo potenziale produttivo. In realtà non è così: puntare
su questo elemento, e collocarlo al primo posto nella
gerarchia dei valori da tutelare e difendere, significa
esaltare nelle capacità individuali, e nella loro attenta
promozione, il motore di qualsiasi progresso. Dunque non
soltanto della crescita economica ma anche di quella
sociale, civile, umana. Per questo vanno prese molto sul
serio le conclusioni di una ricerca condotta da Peer Ederer,
che s’intitola significativamente L’innovazione
all’opera. Condotta per conto del Lisbon Council, un
centro studi basato a Bruxelles che analizza le grandi
tendenze della società europea, la ricerca è parte di un
progetto che Ederer sta portando avanti per conto di due
istituzioni tedesche di alto profilo: il gruppo di lavoro
Deutschland Denken! e l’università Zeppelin di
Friedrichshafen. Obiettivo fondamentale di questo sforzo
interdisciplinare: definire il ruolo del capitale umano
nello sviluppo economico.
Lo studioso parte dall’osservazione statistica della
realtà. Prendendo in considerazione le grandezze
demografiche e i costi dell’istruzione formale e informale
in tredici paesi dell’Unione Europea, traccia una
graduatoria che vede ai primi posti i paesi scandinavi,
l’Olanda il Regno Unito e l’Austria, agli ultimi quelli
mediterranei e la Germania. Le ragioni del fenomeno sono
essenzialmente due: la tendenza demografica che incide
direttamente sulla quota di popolazione in età produttiva e
la quantità di risorse che vengono investite
nell’istruzione. Per esempio la Svezia spende per la
scuola il doppio di quanto fanno la Spagna o l’Italia (si
tratta ovviamente di dati relativi, rapportati cioè al
numero di abitanti). Ma il discorso non riguarda soltanto
l’istruzione formale, quella impartita dalle istituzioni
scolastiche. D’importanza non trascurabile è la
cosiddetta educazione parentale, che i ricercatori del
Lisbon Council cercano di analizzare attraverso la
misurazione del tempo dedicato in famiglia ai bambini. Ne
risulta, correggendo un radicato luogo comune, che i
genitori scandinavi passano con i loro figli molte più ore
di quanto non facciano le madri e i padri mediterranei.
Il capitale umano va non soltanto creato, ma anche
utilizzato e attentamente coltivato. Ederer pone l’accento
sull’inaccettabile spreco di questa risorsa fondamentale
che è rappresentato dai troppi giovani inoperosi, a volte
qualificati da lunghi anni di studio. Inoltre del capitale
umano va costantemente migliorata la produttività,
attraverso un ricorso sistematico agli aggiornamenti e alla
formazione permanente. È chiaro che l’alta disoccupazione
soprattutto giovanile, che particolarmente affligge
l’Italia e la Germania, non soltanto priva le persone del
lavoro cui hanno diritto, ma impedisce loro di arricchire il
proprio capitale umano attraverso l’indispensabile
esperienza professionale: tende dunque ad aggravare il
problema in progressione geometrica. Il concomitare di tutti
questi fattori: demografia insufficiente a garantire il
ricambio della popolazione, scarsi investimenti
nell’istruzione e nella formazione, gente in età
produttiva tagliata fuori dal lavoro, spinge inesorabilmente
verso la stagnazione economica.
Nello studio del Lisbon Council si calcola che se la
Germania e l’Italia non riusciranno a correggere la
tendenza, si ritroveranno nel 2030 con un prodotto interno
lordo pro capite inferiore fino al 50 per cento a quello
medio dei paesi scandinavi. C’è un aspetto assai
interessante in tutto questo, che Ederer non manca di
sottolineare come merita: questa divaricazione di risultati
concreti fra diverse parti dell’Unione Europea sembra
smentire il principale fra gli obiettivi che a suo tempo
furono assegnati al processo d’integrazione continentale.
Quello cioè di garantire a tutti i paesi e a tutte le parti
d’Europa un tenore di vita convergente verso l’alto.
Dopo l’esito negativo dei referendum francese e olandese
sul progetto di costituzione europea, del resto, la stessa
redistribuzione solidaristica di risorse dalle aree più
ricche alle più povere potrebbe essere a rischio. Mentre
l’evoluzione del capitale umano prefigura nettamente
un’Europa a due velocità.
Che fare dunque per prevenire disastrosi scenari di
crisi? Ederer suggerisce di ispirarsi al modello che ha
permesso ad alcuni paesi di progredire così brillantemente
nella promozione e nell’esaltazione delle capacità
individuali. Si tratta dunque di destinare più risorse
all’istruzione. Di incoraggiare investimenti anche privati
nel capitale umano. Di utilizzarlo appieno e di aumentarne
la produttività. Di mantenere aperta la porta
all’immigrazione, soprattutto qualificata: suggerimento
questo che vale soprattutto per i paesi come l’Italia, che
hanno tassi di natalità drammaticamente insufficienti.
Perché la più assurda fra le tante contraddizioni
contemporanee è proprio quella che pure è riflessa da
vaste fasce di opinione pubblica: mettere al mondo un numero
insufficiente di figli e al tempo stesso sbarrare la strada
a un’immigrazione ponderata e regolata. Difendendo così
una nazione abbarbicata al discutibile valore della
compattezza etnica, ma sempre più vecchia e declinante.
a.
v.
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