FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2007

 
 

Uno studio del centro di ricerca europeo Lisbon Council pone l’accento sulle conseguenze disastrose cui alcuni paesi, come la Germania e l’Italia, andranno incontro se non interverrà un deciso cambio di tendenza in materia d’investimento nelle capacità individuali – La prospettiva per la prossima generazione potrebbe essere un netto peggioramento del tenore di vita – É necessario assegnare più risorse all’istruzione e alla formazione, ma non solo

 

 

Si parla di capitale umano e l’espressione può anche infastidire, poiché sembra ridurre la persona al suo solo potenziale produttivo. In realtà non è così: puntare su questo elemento, e collocarlo al primo posto nella gerarchia dei valori da tutelare e difendere, significa esaltare nelle capacità individuali, e nella loro attenta promozione, il motore di qualsiasi progresso. Dunque non soltanto della crescita economica ma anche di quella sociale, civile, umana. Per questo vanno prese molto sul serio le conclusioni di una ricerca condotta da Peer Ederer, che s’intitola significativamente L’innovazione all’opera. Condotta per conto del Lisbon Council, un centro studi basato a Bruxelles che analizza le grandi tendenze della società europea, la ricerca è parte di un progetto che Ederer sta portando avanti per conto di due istituzioni tedesche di alto profilo: il gruppo di lavoro Deutschland Denken! e l’università Zeppelin di Friedrichshafen. Obiettivo fondamentale di questo sforzo interdisciplinare: definire il ruolo del capitale umano nello sviluppo economico.

Lo studioso parte dall’osservazione statistica della realtà. Prendendo in considerazione le grandezze demografiche e i costi dell’istruzione formale e informale in tredici paesi dell’Unione Europea, traccia una graduatoria che vede ai primi posti i paesi scandinavi, l’Olanda il Regno Unito e l’Austria, agli ultimi quelli mediterranei e la Germania. Le ragioni del fenomeno sono essenzialmente due: la tendenza demografica che incide direttamente sulla quota di popolazione in età produttiva e la quantità di risorse che vengono investite nell’istruzione. Per esempio la Svezia spende per la scuola il doppio di quanto fanno la Spagna o l’Italia (si tratta ovviamente di dati relativi, rapportati cioè al numero di abitanti). Ma il discorso non riguarda soltanto l’istruzione formale, quella impartita dalle istituzioni scolastiche. D’importanza non trascurabile è la cosiddetta educazione parentale, che i ricercatori del Lisbon Council cercano di analizzare attraverso la misurazione del tempo dedicato in famiglia ai bambini. Ne risulta, correggendo un radicato luogo comune, che i genitori scandinavi passano con i loro figli molte più ore di quanto non facciano le madri e i padri mediterranei.

Il capitale umano va non soltanto creato, ma anche utilizzato e attentamente coltivato. Ederer pone l’accento sull’inaccettabile spreco di questa risorsa fondamentale che è rappresentato dai troppi giovani inoperosi, a volte qualificati da lunghi anni di studio. Inoltre del capitale umano va costantemente migliorata la produttività, attraverso un ricorso sistematico agli aggiornamenti e alla formazione permanente. È chiaro che l’alta disoccupazione soprattutto giovanile, che particolarmente affligge l’Italia e la Germania, non soltanto priva le persone del lavoro cui hanno diritto, ma impedisce loro di arricchire il proprio capitale umano attraverso l’indispensabile esperienza professionale: tende dunque ad aggravare il problema in progressione geometrica. Il concomitare di tutti questi fattori: demografia insufficiente a garantire il ricambio della popolazione, scarsi investimenti nell’istruzione e nella formazione, gente in età produttiva tagliata fuori dal lavoro, spinge inesorabilmente verso la stagnazione economica.

Nello studio del Lisbon Council si calcola che se la Germania e l’Italia non riusciranno a correggere la tendenza, si ritroveranno nel 2030 con un prodotto interno lordo pro capite inferiore fino al 50 per cento a quello medio dei paesi scandinavi. C’è un aspetto assai interessante in tutto questo, che Ederer non manca di sottolineare come merita: questa divaricazione di risultati concreti fra diverse parti dell’Unione Europea sembra smentire il principale fra gli obiettivi che a suo tempo furono assegnati al processo d’integrazione continentale. Quello cioè di garantire a tutti i paesi e a tutte le parti d’Europa un tenore di vita convergente verso l’alto. Dopo l’esito negativo dei referendum francese e olandese sul progetto di costituzione europea, del resto, la stessa redistribuzione solidaristica di risorse dalle aree più ricche alle più povere potrebbe essere a rischio. Mentre l’evoluzione del capitale umano prefigura nettamente un’Europa a due velocità.

Che fare dunque per prevenire disastrosi scenari di crisi? Ederer suggerisce di ispirarsi al modello che ha permesso ad alcuni paesi di progredire così brillantemente nella promozione e nell’esaltazione delle capacità individuali. Si tratta dunque di destinare più risorse all’istruzione. Di incoraggiare investimenti anche privati nel capitale umano. Di utilizzarlo appieno e di aumentarne la produttività. Di mantenere aperta la porta all’immigrazione, soprattutto qualificata: suggerimento questo che vale soprattutto per i paesi come l’Italia, che hanno tassi di natalità drammaticamente insufficienti. Perché la più assurda fra le tante contraddizioni contemporanee è proprio quella che pure è riflessa da vaste fasce di opinione pubblica: mettere al mondo un numero insufficiente di figli e al tempo stesso sbarrare la strada a un’immigrazione ponderata e regolata. Difendendo così una nazione abbarbicata al discutibile valore della compattezza etnica, ma sempre più vecchia e declinante.

                                                               a. v. 

 

   


                                                  

 
 

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