FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2007

 
 

Uno studente romano scrive a un giornale britannico: che ne pensate del fatto di dover studiare latino? Non sarebbe meglio imparare il mandarino? – Il quotidiano gli dà ragione, ma un lettore insorge in difesa degli studi classici – Del resto la lingua di Roma antica dà qualche segno di ripresa: non c’è forse una radio in Finlandia che trasmette in latino? E non vi è stato tradotto persino Harry Potter? – Il controverso concetto dell’utilità pratica  

 

 

Dei casi, delle perifrastiche e degli ablativi assoluti Andrea Rocchetto doveva averne proprio abbastanza. Dopo avere invano tentato di sollevare il problema sulla stampa italiana, in tutt’altre faccende affaccendata, questo liceale romano di 15 anni ha scritto a un quotidiano di Londra, l’autorevole Financial Times. “Ho un grosso problema con la mia scuola…”. Il latino, appunto.  Mi dicono che va studiato perché è la lingua degli avi, e perché migliora le capacità logiche. Ma non sarebbe meglio studiare il cinese? È vero che non è la lingua degli avi, ma un aiuto alla logica può darlo lo stesso, e in più può anche servire a qualcosa…

Nell’austera redazione del Financial Times lo sfogo di Andrea non passa inosservato. Probabilmente sedotta dal fatto che la questione viene sollevata proprio a Roma, culla e centro d’irradiazione della latinità, la direzione pubblica la lettera, con tanto di risposta, il 6 gennaio. Ma sì caro ragazzo, hai proprio ragione. Non pare che studiare il latino porti dei benefici pratici, se non a una ristretta cerchia di insegnanti. Conoscere il cinese, invece, può costituire un esercizio mentale analogo, con il “vantaggio supplementare di poter parlare non soltanto al papa”.

Fin qui la risposta del quotidiano londinese. Ma non è che l’inizio di un dibattito che più inglese non si potrebbe. Il 19 gennaio interviene l’editorialista Matthew Engel. Siamo forse di fronte a una rinascita del latino?, si chiede. Apparentemente sì, argomenta, visto che in quella lingua è stato tradotto persino Harry Potter, mentre in Finlandia c’è una radio che trasmette nell’idioma antico di Roma, in rete si trovano numerosi siti in latino e uno dei bestellers britannici di questa stagione s’intitola Amo, Amas, Amat and All That, opera di Harry Mount. Ma è solo apparenza, dice Engel: infatti gli studi classici erano caduti così in basso che ogni piccolo fremito di vita sembra una rinascita.

Piccoli fremiti di vita? Ma proprio in Inghilterra è sorta l’iniziativa di Lorna Robinson di cui abbiamo parlato la scorsa estate su questo giornale (http://www.fogliolapis.it/giugno2006-2.htm). La Robinson è una latinista formata a Oxford che ha deciso di lasciare una comoda cattedra in un college esclusivo per dedicarsi a corsi integrativi di greco e di latino nella scuola pubblica. La sua motivazione è duplice: superare l’iniquità che riserva gli studi classici ai soli ragazzi le cui famiglie possono pagare le costosissime rette degli istituti privati, diffondere in tutti gli strati sociali, sulla base della libera scelta, una base culturale utile a padroneggiare meglio la stessa lingua inglese.

Per chi, come noi, trova quanto meno fastidioso che si valuti un insegnamento sulla sola base di immediate utilità pratiche, l’alternativa latino-cinese è del tutto priva di senso. Di questo stesso parere è William Wakefield, un lettore del Financial Times che scrive da San Francisco. La sua lettera è stata pubblicata il 27 gennaio. Wakefield trova “piuttosto cinica” la risposta data al liceale di Roma e spiega pazientemente: si può studiare una lingua, o qualsiasi altra cosa, in vista di vantaggi commerciali, e lo si può fare invece per mettersi in grado di leggere e apprezzare la corrispondente letteratura. In fondo, aggiunge, non si vive di solo pane.

Grazie, signor Wakefield. E grazie anche a quei ragazzi tedeschi che osano portare in scena Plauto nella sua lingua originale, e riescono persino a trovare un pubblico (ne abbiamo parlato un anno fa: http://www.fogliolapis.it/febbraio2006-5.htm). Del resto c’è chi sogna addirittura di fare della lingua di Virgilio (paulo maiora canamus…) l’idioma ufficiale dell’Unione Europea. Sarebbe un bel colpo, per la torre di Babele delle istituzioni di Bruxelles. Ma no, in quel caso il latino perderebbe il fascino della sua splendida inutilità.

                                                               r. f. l. 

 

   


                                                  

 
 

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