FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO 2005

 
 

C’è un singolare contrasto fra l’accordo pressoché unanime sulla necessità di conservare il ricordo dell’Olocausto e la scarsa fortuna di cui gode nei nostri ordinamenti scolastici l’insegnamento della storia – Historia magistra vitae, si diceva un tempo: molti secoli più tardi Vico parlerà di corsi e ricorsi, gli idealisti di perenne contemporaneità della storia – Comunque la si voglia interpretare, è certo che la memoria collettiva dell’umanità va coltivata con la massima cura

 

Il 27 gennaio del 1945 i primi soldati dell’Armata Rossa arrivarono ai reticolati di Auschwitz. A quanto pare non sapevano nulla del campo, né del mostruoso sterminio che vi era stato praticato per anni: certo dovette sorprenderli non poco la vista di quei gruppi di prigionieri, con le tetre uniformi a righe svolazzanti sui corpi scheletriti, le braccia scosse dai brividi di un freddo glaciale che tentavano gesti di saluto, i sorrisi spettrali su quelle facce incavate che avevano visto la morte e adesso contemplavano la fine dell’incubo. Da qualche anno il 27 gennaio è stato consacrato in tutto il mondo quale giornata della memoria, in particolare dedicata a quella comunità ebraica che più di tutti i perseguitati dal nazismo – comunisti, zingari, omosessuali, testimoni di Geova, disabili – subì la feroce aggressione hitleriana. Al di là delle retoriche celebrative, l’idea di istituire una giornata della memoria è nata da una constatazione molto semplice: il tempo si sta lentamente portando via i superstiti dell’orrore, arriverà presto o tardi il giorno in cui non ce ne saranno più. E anche quello in cui non ci saranno più i loro figli, i nipoti, quelli che hanno ascoltato dalla loro viva voce le testimonianze della vita e della morte nei campi di concentramento e in quelli di sterminio.

Si attribuisce giustamente grande importanza al fatto che non per questo l’umanità perda il ricordo vivo di quanto accadde, attorno alla metà del ventesimo secolo, nel cuore dell’Europa evoluta. Perché l’orrore non abbia a ripetersi, è stato detto più volte, è necessario non dimenticarlo. In particolare è necessario che non si perda traccia dell’Olocausto, la Shoah, il massacro scaturito dall’infernale disegno di cancellare dalla faccia della terra una comunità religiosa e culturale qualificata come “razza” e bollata come “inferiore”. Quel disegno fu in larga misura realizzato: nella primavera del 1945, quando finalmente la sconfitta militare del nazismo pose fine alla strage, soltanto un terzo dei quasi dieci milioni di ebrei d’Europa era ancora in vita. Il termine genocidio derivava così dai fatti una spaventosa concretezza. Ricordare, dunque, perché più non accada: quest’anno, con il sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz che dava alla ricorrenza un significato ancora più alto, è stato proprio questo il motivo dominante delle celebrazioni.

Certo, a coltivare la memoria restano per sempre testimonianze letterarie, basti pensare ai libri di Primo Levi, o al Diario di Anne Frank, o ricostruzioni cinematografiche, come Schindler’s List o La vita è bella, o Il pianista. Ma senza la familiarità consapevole con il dramma, la memoria appunto, quelle opere potrebbero perdere il loro valore di denuncia e restare soltanto bei libri, bei film. Superare la linea sottile fra il documento e la creazione artistica. Occorre coltivare la memoria dunque, e del resto su questo sono tutti d’accordo, o quasi. Sono d’accordo persino i cosiddetti revisionisti, il cui scopo è precisamente quello di intervenire sulla memoria alterandone i contenuti, ma non di mandarla in soffitta. A questo punto è difficile non contrapporre questa convinzione comune della necessità di ricordare l’Olocausto al sostanziale disinteresse che in Italia, ma anche in altri paesi, accompagna le tematiche dell’insegnamento della storia. Se si ritiene non solo opportuno ma indispensabile  non perdere memoria della Shoah, è così difficile fare un passo avanti e sostenere che tutta la storia, nella sua interezza, nel suo drammatico oscillare fra bene e male, fra progresso e regressione, deve essere ben conservata nel nostro ricordo, deve essere parte essenziale della nostra cultura di base?

Dalla nostra cultura di base, la storia è quasi assente. Basta seguire uno dei tanti programmi televisivi di quiz. L’ignoranza dei fatti storici, anche dei più significativi e persino dei più attuali, è diffusissima, accettata con noncurante indulgenza, e del resto seconda soltanto a quella della geografia. Siamo un popolo serenamente convinto che l’Iran sia un paese arabo, gli albanesi una nazione slava, e che il Messico si trovi in Sudamerica. Siamo del resto in buona compagnia, se è vero che il presidente degli Stati Uniti in carica non aveva nessuna idea di dove diavolo si trovasse il Caucaso, e che uno dei vicepresidenti che lo hanno preceduto credeva che in America Latina si parlasse latino. È vero che il motto antico historia magistra vitae è forse ottimistico quanto semplificatore, ma è proprio così azzardato ipotizzare che certe gaffes politiche internazionali, certi irreparabili errori di valutazione strategica siano nati proprio da queste lacune? E che l’ignoranza della storia possa contribuire a spiegare i corsi e i ricorsi di cui parlava Vico? Una società che dimentica la sua storia è come una persona che ha smarrito la memoria: non è in grado di andare avanti. L’ignoranza del passato ostacola il suo presente e compromette il suo futuro.

Ci piacerebbe che la nostra scuola, riconoscendo il valore profondo della memoria collettiva nazionale, di quella europea, di quella dell’umanità nel suo insieme, attribuisse ben altro ruolo all’insegnamento della storia. Certo, è una disciplina che va coltivata con cura, che deve aprirsi a ogni libertà interpretativa, a ogni confronto di visioni e punti di vista. Non può ridursi a aridi elenchi di fatti e date, non può essere limitata alla tradizionale histoire-bataille così giustamente castigata dalla scuola storiografica francese delle Annales. Deve guardarsi dal rischio della soggettività, o per meglio dire della soggettività accettata come dato oggettivo: la storia è sempre contemporanea, dicevano gli idealisti, ma non bisogna rassegnarsi a questo limite. Deve semplicemente preoccuparsi di fissare le nostre coordinate nel tempo, così come alla geografia tocca il compito di fissare le coordinate nello spazio. Un minimo di coordinate essenziali per i piccoli della primaria, una rete più fittamente articolata per i ragazzi della secondaria. In modo che dalla scuola possano uscire persone in grado di orientarsi nel fluire delle idee, nel percorso esistenziale del genere umano, capaci al tempo stesso di applicare alle singole tappe di quel percorso una propria intelligenza interpretativa. Persone libere e coscienti che sappiano guardare in faccia la Shoah, e anche tutto il resto.

                                             Alfredo Venturi
                                         

                                                                                                 

 

 
 

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