FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2013

 
 

A partire dalla vecchia Inghilterra, dove l'idioma di Shakespeare è nato, sono cinquantatré i paesi nei quali lo si impara fin dalla culla – É dunque normale che non ci siano particolari motivazioni ad apprendere lingue straniere – Eppure il British Council lancia l'allarme: se i cittadini britannici non si decideranno a migliorare le loro conoscenze linguistiche, dedicandosi allo studio di almeno una seconda lingua, il loro futuro sarà inevitabilmente più difficile

 

                        

Chi me lo fa fare di studiare altre lingue quando la mia si parla in tutto il mondo? É questo il pensiero, più o meno manifestato, che è all'origine di una realtà statistica ormai consolidata: nei cinquantatré paesi che hanno l'inglese come madrelingua la propensione ad allargare le conoscenze linguistiche è significativamente ridotta. A cominciare dagli Stati Uniti d'America, dove soltanto una persona su dieci fra quante non appartengono a comunità di recente immigrazione parla una lingua straniera, e dallo stesso Regno Unito, dove soltanto un quarto dei cittadini è in grado di esprimersi con un idioma diverso da quello di Shakespeare.

Per quanto comprensibile, questo difetto di motivazione a studiare lingue straniere rappresenta un limite. É lo stesso British Council, che contribuisce potentemente alla diffusione della lingua inglese, a lanciare l'allarme, invitando i sudditi di sua maestà a rivedere i loro piani di studio, allargandoli fino ad acquisire la conoscenza di almeno una fra le dieci “lingue per il futuro”: francese, spagnolo, tedesco, italiano, arabo, cinese, portoghese, russo, turco, giapponese. Poiché queste lingue, ovviamente assieme all'inglese, sono da considerarsi essenziali per stabilire nel modo più corretto quella fitta rete di contatti internazionali dalla quale dipende il futuro di noi tutti, conoscerne almeno una sarà estremamente importante, fa notare il British Council, per “la prosperità, la sicurezza e l'influenza a livello globale” della società britannica.

Al momento la realtà è ben lontana dall'essere incoraggiante. Secondo un'indagine statistica dello stesso BC, soltanto quindici inglesi su cento sono in grado di parlare francese, sei su cento sanno esprimersi in tedesco, quattro in spagnolo, due in italiano, percentuali infinitesime nelle altre sei “lingue per il futuro”. Una tendenza che va prontamente invertita per evitare conseguenze negative non soltanto sul piano culturale ma anche su quello economico. Il BC fa l'esempio dell'arabo, che si parla in sei paesi nei quali il Regno Unito esporta merci e servizi per una dozzina di miliardi di sterline all'anno. Si fa notare che i cinesi, che pure hanno a disposizione un idioma parlato, esattamente come l'inglese, da un miliardo di persone, frequentano in massa i corsi di lingue straniere.

Anche in Gran Bretagna, del resto, qualcosa si muove. Parallelamente alla pubblicazione dello studio del British Council, le autorità scolastiche annunciano che a partire dall'anno prossimo lo studio di una lingua straniera sarà reso obbligatorio nelle classi fino ai quindici anni. Ma l'appello dell'istituzione britannica non è rivolto soltanto alla scuola, coinvolge anche al mondo dell'economia produttiva. Le imprese, in particolare quelle che lavorano prevalentemente per l'esportazione, sono invitate a pretendere conoscenze linguistiche nei curricula di coloro che intendono assumere nei loro organici.

                                                        l. v. 
                                         

  


                                                  

 
 

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