FOGLIO LAPIS - APRILE - 2019

 
 

Illusione e inganno: quale la differenza? - Il filosofo A. M. Iacono analizza il rapporto fra la capacità di cedere alla finzione e il sostituire ciò che si vede con ciò che suggerisce l'immaginazione – Si tratta di un meccanismo che è parte costitutiva della nostra esperienza cognitiva ed emotiva – Sono categorie tradizionalmente legate al gioco, al teatro, al cinema

 

Nell’Enrico V di Shakespeare, il coro invita gli spettatori a vedere nell’angusta “O di legno” della scena i campi estesi di Francia, a prendere per nutrite schiere di soldati i pochi attori lì presenti e ad immaginare cavalli scalpitanti quando questi vengono semplicemente nominati.

Nella scena emerge il legame tra la possibilità dell’illusione (dell’abbandonarsi alla finzione) e un’altra operazione richiesta allo spettatore attivo: l’operazione di sostituzione che consiste nell’integrare ciò che si vede e si sente con la “forza dell’immaginazione”. Sulla scena c’è posto soltanto per pochi attori, ma le loro parole e i loro gesti devono aiutarmi a vedere, immaginando nutrite schiere di soldati e cavalli scalpitanti. C’è allora una qualche differenza tra l’illudersi e il fenomeno apparentemente affine dell’ingannarsi?

Il filosofo Alfonso Maurizio Iacono (L’illusione e il sostituto, Milano, Mondadori 2010) analizza la questione prendendo spunto dall’hobby horse, il giocattolo di legno costituto da un bastone con la testa di cavallo, o semplicemente da un manico di scopa con cui il bambino può giocare facendo finta di cavalcare: l’attività del bambino diventa così un caso di studio esemplare per approfondire come l’illusione (il far finta, il prendere qualcosa per qualcos’altro) sia costitutiva dell’esperienza cognitiva ed emotiva umana. Non è peraltro cosa scontata definire il rapporto tra il manico di scopa e il cavallo che dovrebbe esserne il referente. Cosa significa vedere il manico di scopa come cavallo? Che rapporto c’è fra i due? Quando un bambino agisce facendo finta di cavalcare un bastone che non somiglia a un cavallo, il riferimento al cavallo è del tutto assente? Iacono osserva che prendendo il bastone per il cavallo, il bambino che sa fare finta entra in un mondo intermedio: “È così che sorgono i mondi intermedi, mondi che imitano quelli che già esistono, che imitandoli li sostituiscono e che sostituendoli continuano a farvi riferimento”.

Il gioco, il teatro e il cinema sono casi esemplari dell’esperienza cognitiva ed emotiva dell’illusione: essa nasce quando il credere e il non credere stanno insieme, mentre l’inganno sorge quando si perde consapevolezza della finzione e della cornice.

Ora se pensiamo al contesto educativo che ruolo ha l’illusione? Per Platone, che mira a un sapere che riproduca la stabilità e l’oggettività delle idee questo ruolo non può essere che negativo: l’arte, dominio dell’illusione, è imitazione e inganno perché riproducendo la realtà e stimolando le emozioni non fornisce conoscenza, ma un fuorviante invito a indugiare in questo mondo. Per Aristotele invece l’illusione non comporta inganno, al contrario è uno strumento conoscitivo: l’uomo imita per imparare, e la finzione non è passività ma produzione creativa che dice il vero. Perché? Perché il discorso narrativo, o drammaturgico ha a che fare con “l’eikos” (il verosimile): un paradosso si potrebbe dire, ma il paradosso svanisce nel momento in cui si comprende che la traduzione moderna non restituisce il significato originario del termine greco. Eikos per Aristotele non è ciò che sembra vero ma non lo è, ma ciò che sappiamo essere generalmente vero (ad esempio che due fratelli si amino, o che una madre ami suo figlio).

Raccontare qualcosa di eikos, di abituale, che avviene per lo più, ha per Aristotele una valenza veritativa forte e per questo lui suggeriva di costruire le narrazioni aderendo alla conoscenza della realtà che noi abbiamo. Questo di riflesso dice anche qualcosa di importante sul valore di conoscenza della realtà che ci danno i racconti di finzione: il romanzo pur essendo finzione può dire qualcosa di profondamente vero su quello che avviene alla maggior parte di noi.  Nella nostra epoca, malata di realismo, questo può apparire velleitario. Occorre però comprendere che ad essere contraddittori sono i termini realtà e falsità, non i termini realtà e finzione. La finzione non è un modo del falso, perché non pretende di formulare asserzioni su dati di fatto controllabili: ecco perché rimane uno strumento chiave per rendere ragione della nostra esperienza e dei fatti della vita.

 

                                          Marco Cappuccini  

    


                                                  

 
 

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