Una
pratica che funziona come rifugio per chi crede di non
avere altre possibilità di “agire” - É difficile per
i bambini definire la realtà e distinguerla da quella
fittizia che comunemente chiamiamo “virtuale” e che si
vive davanti a un monitor – E così i valori sono
sopraffatti dalle immagini - Se vogliamo chiamare le cose
con il loro nome, siamo di fronte al fenomeno
dell'alienazione – E poi c'è il problema della
violenza, dell'emulazione...
“Quando
gioco mi trovo in un mondo bello, ideale, che mi fa sentire
bene”; “Sono il protagonista e mi sento importante,
posso agire come un eroe forte”; “Mi aiuta a scaricarmi,
a sfogarmi, poi sto meglio”.
Queste
le risposte che ragazzini che usufruiscono quotidianamente
di videogames, e che sono abituati a farlo da anni, danno
generalmente appena superata la prima fase di stupore dovuto
all'argomento della domanda. Parole che danno molto da
riflettere, se contestualizzate nel graduale processo di
paralizzazione della società e di indifferenza del
cittadino medio giovane alle problematiche politiche,
ecologiche, sociali, a tutto ciò che esuli cioè dalla mera
quotidianità individuale. Si tratta tuttavia di
un'indifferenza non priva di interesse, resa possibile da
una forma invalidante di sfiducia nella reale possibilità
di agire, con delle conseguenze, nella realtà.
La
realtà stessa è un concetto ormai svuotato di significato
e di quei riferimenti empirici che rendano questa parola una
parola evocativa e quindi in grado di determinare pensiero o
azione. Cos'è la realtà per un bambino? Usa strumenti
tecnologici di cui non conosce il meccanismo e la storia,
che gli parlano e raccontano quello che succede nel mondo,
nozioni che non può che acquisire come dati di fatto,
immutabili e legati da un meccanismo di senso
che, seppur non compreso, si staglia con la forza del
dogma. La realtà sono i risultati dei sondaggi, la realtà
è una realtà che si vive davanti allo schermo di un
computer più volentieri che in una piazza.
Le
immagini con cui si è cercato di vendere i concetti hanno
finito con il soppiantare gli ideali e sono in grado di
affamare e sfamare e poi riaffamare l'immaginazione delle
persone, e trascinarle in un vagare senza direzione la cui
energia si esaurisce senza problemi nella pacifica
conduzione di una quotidianità che, non bastando ma dando
per scontato di non poter essere altrimenti, basta a se
stessa (con gravi conseguenze sul sistema nervoso).
Suonano
allarmanti, in questa cornice, le parole con le quali i
bambini spiegano il loro piacere nel giocare. Che il bisogno
di azione possa esaurirsi nella bella e decorata realtà
artificiale dei videogames, che nella quotidianità di un
bambino che trascorre sei ore seduto ai banchi di scuola e
altre due a fare i compiti lo “sfogo” sia costituito da
lotte e corse viste su uno schermo, seppur non “subite”
come alla televisione ma condotte attivamente con scelte
esercitate tramite degli impulsi elettrici. Viene naturale
individuare un pericoloso collegamento tra la
“sensazione” (piuttosto che visione) della realtà come
immutabile ed estranea e questi passatempi che, visti così,
non appaiono altro che palliativi.
La
questione è principalmente una questione di alienazione nel
senso più letterale e spettrale del termine, ma c'è chi si
concentra sull'altrettanto delicata questione della violenza
alla quale certi videogames istigherebbero. Alcuni studi
hanno dimostrato che gli adolescenti che giocano con un
gioco violento per periodi prolungati di tempo tendono ad
essere più aggressivi, sono più inclini allo scontro con i
professori, vedono abbassarsi la media scolastica ed è più
facile che provochino risse tra i compagni. Questo
accadrebbe, tra l'altro, perché nei giochi in questione le
azioni violente sono da ripetersi continuamente, e questo
della ripetizione è uno dei più efficaci metodi di
apprendimento. (Gentile, D. A. & Anderson, C. A. 2003. Violent
video games: The newest media violence hazard.)
C'è anche chi sostiene che questi giochi abbiano
effetti positivi, quali, ad esempio, lo sviluppo di alcune
capacità, come quella di coordinazione e quella di
elaborazione strategica (cose che tuttavia è possibile
sviluppare anche in altri contesti), o quella di
incoraggiare l'apprendimento di certi ambiti culturali
specifici che possono fare da contesto al gioco.
- Laura
Venturi
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