FOGLIO LAPIS - APRILE - 2012

 
 

Una pratica che funziona come rifugio per chi crede di non avere altre possibilità di “agire” - É difficile per i bambini definire la realtà e distinguerla da quella fittizia che comunemente chiamiamo “virtuale” e che si vive davanti a un monitor – E così i valori sono sopraffatti dalle immagini - Se vogliamo chiamare le cose con il loro nome, siamo di fronte al fenomeno dell'alienazione – E poi c'è il problema della violenza, dell'emulazione...

 

Quando gioco mi trovo in un mondo bello, ideale, che mi fa sentire bene”; “Sono il protagonista e mi sento importante, posso agire come un eroe forte”; “Mi aiuta a scaricarmi, a sfogarmi, poi sto meglio”.

Queste le risposte che ragazzini che usufruiscono quotidianamente di videogames, e che sono abituati a farlo da anni, danno generalmente appena superata la prima fase di stupore dovuto all'argomento della domanda. Parole che danno molto da riflettere, se contestualizzate nel graduale processo di paralizzazione della società e di indifferenza del cittadino medio giovane alle problematiche politiche, ecologiche, sociali, a tutto ciò che esuli cioè dalla mera quotidianità individuale. Si tratta tuttavia di un'indifferenza non priva di interesse, resa possibile da una forma invalidante di sfiducia nella reale possibilità di agire, con delle conseguenze, nella realtà.

La realtà stessa è un concetto ormai svuotato di significato e di quei riferimenti empirici che rendano questa parola una parola evocativa e quindi in grado di determinare pensiero o azione. Cos'è la realtà per un bambino? Usa strumenti tecnologici di cui non conosce il meccanismo e la storia, che gli parlano e raccontano quello che succede nel mondo, nozioni che non può che acquisire come dati di fatto, immutabili e legati da un meccanismo di senso che, seppur non compreso, si staglia con la forza del dogma. La realtà sono i risultati dei sondaggi, la realtà è una realtà che si vive davanti allo schermo di un computer più volentieri che in una piazza.

Le immagini con cui si è cercato di vendere i concetti hanno finito con il soppiantare gli ideali e sono in grado di affamare e sfamare e poi riaffamare l'immaginazione delle persone, e trascinarle in un vagare senza direzione la cui energia si esaurisce senza problemi nella pacifica conduzione di una quotidianità che, non bastando ma dando per scontato di non poter essere altrimenti, basta a se stessa (con gravi conseguenze sul sistema nervoso).

Suonano allarmanti, in questa cornice, le parole con le quali i bambini spiegano il loro piacere nel giocare. Che il bisogno di azione possa esaurirsi nella bella e decorata realtà artificiale dei videogames, che nella quotidianità di un bambino che trascorre sei ore seduto ai banchi di scuola e altre due a fare i compiti lo “sfogo” sia costituito da lotte e corse viste su uno schermo, seppur non “subite” come alla televisione ma condotte attivamente con scelte esercitate tramite degli impulsi elettrici. Viene naturale individuare un pericoloso collegamento tra la “sensazione” (piuttosto che visione) della realtà come immutabile ed estranea e questi passatempi che, visti così, non appaiono altro che palliativi.

La questione è principalmente una questione di alienazione nel senso più letterale e spettrale del termine, ma c'è chi si concentra sull'altrettanto delicata questione della violenza alla quale certi videogames istigherebbero. Alcuni studi hanno dimostrato che gli adolescenti che giocano con un gioco violento per periodi prolungati di tempo tendono ad essere più aggressivi, sono più inclini allo scontro con i professori, vedono abbassarsi la media scolastica ed è più facile che provochino risse tra i compagni. Questo accadrebbe, tra l'altro, perché nei giochi in questione le azioni violente sono da ripetersi continuamente, e questo della ripetizione è uno dei più efficaci metodi di apprendimento. (Gentile, D. A. & Anderson, C. A. 2003. Violent video games: The newest media violence hazard.)

C'è anche chi sostiene che questi giochi abbiano effetti positivi, quali, ad esempio, lo sviluppo di alcune capacità, come quella di coordinazione e quella di elaborazione strategica (cose che tuttavia è possibile sviluppare anche in altri contesti), o quella di incoraggiare l'apprendimento di certi ambiti culturali specifici che possono fare da contesto al gioco.

                                         Laura Venturi

    


                                                  

 
 

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