C'era
l'impegno a raggiungere nel 2010 il dodici e mezzo per
cento di adulti impegnati nella formazione permanente,
siamo invece poco sopra il cinque - Intanto l'asticella
europea è stata alzata al quindici per cento – Per
recuperare lo svantaggio, i passi che si vanno facendo
appaiono del tutto inadeguati – Si vorrebbe risolvere il
problema senza oneri aggiuntivi per i pubblici bilanci, e
senza formare specificamente i docenti
Il
1° settembre 2011 avrebbe dovuto prendere avvio la riforma del sistema di educazione degli adulti attraverso la
“trasformazione” dei CTP (Centri Territoriali
Permanenti) e dei Corsi serali per adulti nei nuovi Centri
Provinciali per l’Istruzione degli Adulti (CPIA). Alla
resa dei conti, invece, questa riforma è ancora una bozza
di regolamento ed eventuali modifiche significative
dell’attuale impianto sono rimandate al 2013. La mancata
applicazione del provvedimento – che ovviamente ha già
suscitato diverse reazioni fra gli addetti ai lavori –
rimane tuttavia un’occasione per fare il punto della
situazione sulla formazione in età adulta nel nostro paese.
Che
l’argomento meriti la dovuta attenzione lo rivelano già
alcuni dati estremamente significativi: la “Strategia di
Lisbona” fissava al 2010 la deadline
entro cui raggiungere la soglia del 12,5% di popolazione
adulta (dai 25 ai 64 anni) impegnata in attività di
formazione ed educazione permanente. Questo obiettivo, già
alla portata di alcuni paesi dell’Unione Europea ben prima
della scadenza concordata, rimane invece molto lontano per
l’Italia, i cui ultimi dati riferiscono di una percentuale
poco superiore alla situazione di partenza del 2001 (il
5,1%). Pur volendo concedere al nostro Paese tutte le
attenuanti del caso (dalle discutibili modalità di
rilevazione alle drammatiche conseguenze prodotte, anche in
campo formativo, dalla crisi economica del 2008, che da noi
si è fatta sentire più che altrove), la valutazione
complessiva sul nostro sistema di educazione degli adulti è
impietosa, specie se affiancata ad altre indagini sulle
competenze linguistiche (valga a titolo di esempio la SIALS,
Second International
Adult Literacy Survey, promosso dall’OCSE) o sui
livelli di istruzione secondaria superiore e universitaria,
che puntualmente ci collocano alle ultime posizioni delle
graduatorie europee. Si aggiunga, come ultima
considerazione, che la prossima strategia dell’UE
(2010-2020), relativamente alla percentuale di popolazione
adulta inserita in programmi di formazione permanente, ha già
alzato l’asticella al 15%, ragione per cui la rincorsa che
da tempo ci vede impegnati è ancora lunga e faticosa.
Posta
in questi termini la questione potrebbe immediatamente
condurre alla bocciatura dell’attuale sistema e a
considerare l’imminente riforma come necessaria e urgente.
Su quest’ultimo punto si può convenire senza troppe
riserve, anche perché la trasformazione delle scuole e dei
centri di formazione in centri locali di apprendimento
polifunzionali e accessibili a tutti è un altro degli
obiettivi dettati dalla Strategia di Lisbona e che risulta
pertanto vincolante. Ciò che lascia perplessi, tuttavia, è
il nuovo impianto concepito dalla bozza di regolamento che,
se confermato, risulterebbe non soltanto inadeguato alla
soluzione delle emergenze sopra richiamate, ma rischierebbe
addirittura di aprire nuovi fronti problematici
dell’educazione degli adulti in Italia. Proviamo qui a
proporre alcune valutazioni di fondo, sia pure in maniera
estremamente sintetica.
La
prima considerazione non può che riguardare gli aspetti
finanziari, anche perché è proprio la Commissione Europea,
al di là di ogni facile retorica, a raccomandare agli stati
membri investimenti adeguati nel campo dell’istruzione e
della formazione. La bozza di regolamento, al contrario, si
segnala anzitutto per i ripetuti riferimenti alla
“razionalizzazione” e precisa che l’applicazione dello
stesso regolamento dovrà avvenire senza “nuovi o maggiori
oneri a carico della finanza pubblica”. Non va
dimenticato, a questo proposito, che il provvedimento in
questione nasce all’interno della L. 133/2008, ovvero la
legge finanziaria che ha già coinvolto il sistema
scolastico e universitario, secondo gli stessi principi di
razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica.
Stiamo insomma parlando dell’ennesima riforma a “costo
zero”.
La
seconda questione riguarda gli organici. Dal momento che i
CPIA saranno equiparati a tutti gli effetti alle istituzioni
scolastiche autonome, la loro dotazione organica avrà
carattere “funzionale”. Fino a qui nulla da obiettare,
se non fosse che il funzionamento di una “scuola per
adulti”, presumibilmente con una massiccia presenza di
utenti stranieri, presuppone una specifica flessibilità. Le
esperienze pregresse, assai composite, di chi frequenta i
corsi, assieme alla necessità di poter contare su mediatori
linguistici e culturali, esperti in tecnologie
dell’istruzione e formazione a distanza, professionisti
provenienti dal mondo del lavoro e delle imprese,
richiederebbero una dotazione di organico funzionale secondo
criteri diversi da quelli concepiti per le scuole
“normali”. A questo si aggiunga che la formazione degli
insegnanti che lavoreranno nei CPIA dovrebbe essere
specifica o, quantomeno, comprensiva di approfondimenti
sulla didattica per competenze e sulle modalità di
apprendimento in età adulta. Da questo punto di vista,
invece, la bozza di regolamento non soltanto non dispone
nulla, ma appare un’occasione mancata per rivedere un
limite che anche gli attuali CTP e Corsi serali presentano.
E’ bene ricordare, a tale proposito, che da più parti –
sindacati compresi – si auspica da tempo il riconoscimento
di un particolare status giuridico per il docente di
istruzione degli adulti, che ne inquadri le specificità sul
piano contrattuale e delle competenze.
La
terza e ultima questione che qui poniamo riguarda infine
l’organizzazione dei percorsi prevista dalla bozza di
regolamento. Il principio della flessibilità dovrebbe
applicarsi anche in questo caso, proprio perché un’utenza
adulta è portatrice di esperienze umane e professionali
pregresse, presuppone conoscenze e competenze di partenza
assai diverse (anche dal punto di vista linguistico) ha
l’esigenza di conciliare attività lavorativa e familiare
con lo studio. Lo schema orario illustrato nella bozza, con
la divisione piuttosto rigida e già dettagliata in periodi,
che fissa anche il monte ore obbligatorio da rispettare, mal
si concilia con quanto appena ricordato. Sarebbe stato
opportuno, forse, ragionare anche in termini di
certificazioni parziali in considerazione del fatto che i
tempi di apprendimento di un adulto possono variare di molto
e sono influenzati da numerosi fattori “esterni”
all’esperienza scolastica.
Alle questioni fin qui poste, come detto, se ne
potrebbero affiancare molte altre, a dimostrazione della
ricchezza del dibattito che ormai da tempo accompagna
l’iter della riforma. Ciò che qui preme sottolineare,
tuttavia, è una considerazione circa la collocazione
complessiva dell’EdA in Italia. Se è vero che
l’educazione degli adulti è un tutt’uno con
l’educazione e il sapere che la riguarda è un tutt’uno
con la Scienza dell’educazione, allora è necessario che
qualsiasi riforma riferita all’EdA sia inserita in una
visione ampia e coerente del sistema educativo tout court, e
non risulti piuttosto un provvedimento separato e a sé
stante. La sensazione maturata, invece, è che le riforme
del sistema di istruzione discusse negli ultimi anni nel
nostro paese non siano partite da una chiara concezione
pedagogica della formazione e dei suoi destinatari, ma siano
piuttosto il risultato di valutazioni di altra natura, il più
delle volte contabile e finanziaria. Il rischio, in altri
termini, è che questa perenne rincorsa nell’emergenza o
in risposta a situazioni contingenti, continui a produrre
singoli “spezzoni” di un progetto che, invece, per
importanza e impatto sociale, meriterebbe ben altre
convergenze, altre modalità di procedere e forse anche
altri sogni.
- Matteo
Cornacchia
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