Se
ne discute in Francia, dove l’accostamento sistematico
della delinquenza minorile con l’assenteismo scolastico,
periodicamente riproposto dalla stampa e dai politici,
viene contestato da chi richiamandosi ai risultati di
ricerche specifiche indica l’estrema complessità
sociale di questo fenomeno – Si accusa dunque di
manicheismo chi pretende di trattate la questione alla
stregua di un puro e semplice problema di ordine pubblico
Sono
in pochi a dubitarne: da una parte la dispersione
scolastica, dall’altra la delinquenza minorile. Un
rapporto speculare e reciproco di causa-effetto: la
dispersione produce delinquenza e la delinquenza produce
dispersione. Se ne parla molto in Francia, dove le
periodiche esplosioni di violenza giovanile nelle banlieues
delle maggiori città vengono sistematicamente connesse,
dalla maggior parte della stampa e dagli amministratori
pubblici, con le falle del sistema scolastico. Una visione
troppo schematica secondo alcuni. Per esempio secondo
Etienne Douat e Laurent Mucchielli, due specialisti che
hanno illustrato sul quotidiano parigino Le
Monde un’ottica del tutto diversa con cui guardare al
problema. “Di fatto – scrivono Douat e Mucchielli – le
ricerche empiriche dimostrano che il legame
dispersione-delinquenza non ha nulla di meccanico”.
Che
cosa dimostrano invece le ricerche? Ecco qui, nelle parole
che i due studiosi hanno affidato a Le Monde: “la dispersione è il prodotto di un lungo processo
collettivo, che coinvolge sia l’alunno e la sua famiglia,
sia la stessa istituzione scolastica. Si sviluppa dentro e
attorno alla scuola, il più delle volte connessa con
difficoltà di apprendimento che si manifestano nei primi
anni e si accentuano nei successivi, attraverso valutazioni
negative, esclusioni ripetute, situazioni familiari segnate
dalla precarietà economica (…) e con la tendenza
parallela a una socializzazione di quartiere in parte
contraddittoria rispetto alle esigenze scolastiche. Ma
questa socializzazione di quartiere non significa
automaticamente delinquenza, né concerne unicamente i
quartieri cosiddetti a rischio dei grandi agglomerati
urbani. Questo ricorso alla socializzazione extrascolastica
è prima di tutto la ricerca di un modo di esistere
socialmente nonostante il fallimento scolastico, di
ritrovare un’immagine di sé e un’identità personale
diversa da quella dello studente che ha fatto fiasco”.
Alle
argomentazioni di Douat e Mucchielli è facile rispondere
che è vero, l’abbandono delle aule scolastiche non porta
automaticamente alla delinquenza, ma è altrettanto vero che
la delinquenza pesca a piene mani fra i disadattati della
scuola. Se è dunque sbagliato, o quanto meno limitativo,
considerare la dispersione scolastica come un problema di
ordine pubblico, è invece corretto presumere che
intervenendo sul disagio nella scuola, oltre a compiere
opera meritoria e doverosa in sé, si sottraggono alla
criminalità terreni di potenziale reclutamento. I due
specialisti francesi contestano anche la distinzione
“manichea” fra buoni e cattivi: da una parte gli
assenteisti che alimentano la delinquenza, dall’altra
quelli che al contrario pur trovandosi in situazione di
disagio non turbano l’ordine pubblico. Fermo restando che
i primi devono rispondere di quello che fanno,
l’insistenza su questa classificazione viene sospettata di
“accentuare gli antagonismi, i risentimenti e lo spirito
di concorrenza già così ben presenti nella nostra società
contemporanea, fino alle nostre scuole che pure dovrebbero
garantire <l’eguaglianza repubblicana>”.
f. s.
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