C’è
uno stridente contrasto fra le solenni formulazioni che
impegnano gli Stati a garantire vita, libertà e sicurezza
e la realtà che viviamo – Per tanta parte
dell’umanità, alle prese con bisogni elementari
insoddisfatti, è difficile far sentire la propria voce
– La lezione sempre attuale di Mazzini a proposito del
dovere come principio educatore: scopo della vita non è
la propria felicità, ma rendere migliori se stessi e gli
altri
Ci ricordiamo di Severn Suzuki, la
dodicenne che nel 1992 parlò davanti all’assemblea delle
Nazioni Unite, esprimendo tutto il disagio e la rabbia del
trovarsi ad essere bambina in un mondo in cui doveva aver
paura di “stare fuori al sole perché ci sono i buchi
nell’ozono, respirare l’aria perché non si sa che
sostanze chimiche possa contenere”, ricordando
pubblicamente ai politici presenti che “siamo tutti parte
di una famiglia, di cinque miliardi di individui, anzi, di
trenta milioni di specie, che tutti condividiamo la stessa
aria, acqua e terreno (…) che dovremmo tutti agire come un
singolo mondo verso un singolo obiettivo”? La bambina che
dichiarò di non riuscire a smettere di pensare che così
come è nata in Canada avrebbe potuto trovarsi nelle favelas
di Rio o morire di fame in Somalia, o essere vittima di
guerra o mendicante da
qualche altra parte, che accusò tutti di insegnarle a
scuola il rispetto, la responsabilità, la generosità,
quando questi principi sono poi completamente ignorati dagli
adulti, quegli adulti che hanno creato le condizioni per cui
andando a pescare a Vancouver trovava pesci pieni di tumori.
La bambina che con voce candida ricordò a tutti che erano
padri e madri e zii e nonni, prima che professionisti di
economia e politica, che erano gli stessi che amavano dire
ai loro bambini che tutto è a posto. Purtroppo le sue
parole sembrano quasi fantascienza.
L’articolo 3 della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo, varata nel 1948 dalle
Nazioni Unite, recita: “Ogni individuo ha diritto alla
vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria
persona”. Severn Suzuki reclamò questo diritto. Suo e di
tutti quei bambini che sentono i loro diritti fondamentali
violati in partenza, che sentono la loro libertà e le loro
possibilità ridotte a causa di ingombranti questioni di cui
si trovano ad essere i confusi eredi. Questioni che seguono
logiche perverse e per loro incomprensibili.
La costruzione di centrali nucleari è
stata forse abbastanza prudente nella prospettiva di
tutelare il diritto alla vita, alla libertà e alla
sicurezza di ogni individuo? Non che nessuno pensi in
anticipo a ciò che possono significare i rischi, non che
nessuno consideri con senno e sensibilità certe questioni.
Il regista giapponese Akira Kurosawa nel 1990 pose come
soggetto del sesto episodio del lavoro cinematografico
“Sogni” proprio l’esplosione di una centrale nucleare
in Giappone, seguita all’eruzione del vicino vulcano Fuji.
Dopo una fuga di massa, su una scogliera a picco sul mare si
trovano una madre con due bambini e due uomini. Uno di
questi prima di buttarsi in mare dichiarerà di essere uno
degli ingegneri responsabili di aver costruito la centrale
in quella posizione, uno di quelli a causa dei quali la
madre stava piangendo in nome del diritto alla vita dei due
bambini. L’altro tenterà invano e con gesti disperati di
allontanare, sventolando il suo giubbotto, la nube
radioattiva dalla madre e dai piccoli.
L’articolo 22 della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo recita: “Ogni individuo
in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza
sociale nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo
nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto
con l'organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti
economici, sociali e culturali indispensabili alla sua
dignità ed al libero sviluppo della sua personalità.” Il
problema è che troppi individui soffrono
dell’insoddisfazione di bisogni primari quali gli
alimenti, la sessualità, la sicurezza e il senso di
appartenenza; questioni queste che ostacolano se non
impediscono il libero sviluppo della loro personalità.
Questi individui, essendo di fatto non-indipendenti, non
potranno che essere passivi come individui sociali, non
potranno che rinunciare all’esercizio del loro potere
civico. Gli altri, quelli che hanno i bisogni fondamentali
soddisfatti, succede che siano avviliti e colti da senso di
impotenza in relazione alle tematiche sociali. É perché il
“libero sviluppo” della loro personalità avviene
nell’ambito di una cultura troppo spesso anestetizzante,
una cultura del comodo e del dovuto, del benessere e,
soprattutto, dell’individuo.
Si pensa ai diritti, e troppo poco ai
doveri. Scriveva Mazzini nel 1860: “Perché vi parlo io dei vostri
doveri prima di parlarvi dei vostri diritti? (…) Colla
teoria della felicità, del benessere dato per oggetto primo
alla vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della
materia, che porteranno le vecchie passioni nell'ordine
nuovo e lo corromperanno pochi mesi dopo. Si tratta dunque
di trovare un principio educatore superiore a siffatta
teoria che guidi gli uomini al meglio, che insegni loro la
costanza nel sacrificio, che li vincoli ai loro fratelli
senza farli dipendenti dall'idea d'un solo o dalla forza di
tutti. E questo principio é il DOVERE. Bisogna convincere
gli uomini (…) che lo scopo della loro vita non é quello
di essere più o meno felici, ma di rendere sé stessi e gli
altri migliori - che il combattere l'ingiustizia e l'errore
a beneficio dei loro fratelli, e dovunque si trova, é non
solamente diritto, ma dovere: dovere da non negligersi senza
colpa - dovere di tutta la vita.”
La visione alienata del meccanismo
sociale come qualcosa di estraneo all’individuo è
semplicemente deleteria. Chi ha la fortuna di non dover
soffrire dell’insoddisfazione dei bisogni primari, deve
mettersi nella prospettiva di essere parte delle questioni
nazionali e internazionali che considera, deve capire che
non dire significa lasciar dire, che non pensare significa
lasciare che altri pensino, che non decidere significa
lasciare decidere altri.
Laura Venturi
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