Il
17 marzo 1861, con la proclamazione di Vittorio Emanuele
II re d’Italia, si realizzò l’unità nazionale - Si
celebra dunque il primo secolo e mezzo del nostro Paese
come entità politica – Nell’occasione riproponiamo un
documento assai significativo: il discorso con cui il 26
gennaio 1955 Piero Calamandrei inaugurò a Milano, davanti
a una platea di giovani riuniti nel salone degli affreschi
della Società umanitaria, un ciclo di conferenze sulla
Costituzione
L’art.
34 dice: «I capaci e
i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi». Eh! E se
non hanno mezzi? Allora nella nostra Costituzione c’è un
articolo che è il più importante di tutta la Costituzione,
il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma
soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a
voi. Dice così: «É
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti
i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese». È il compito di
rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo
della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una
giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a
tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo
sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula
contenuta nell’art. 1, «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»,
corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è
questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare
e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per
vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà
chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare
neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia
questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto
un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente
formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini
siano messi in grado di concorrere alla vita della società,
di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze
spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a
questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la
società.
E
allora voi capite da questo che la nostra Costituzione è in
parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In
parte è ancora un programma, un ideale, una speranza,
l’impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi
sta dinanzi! È stato detto giustamente che le Costituzioni
sono polemiche, che negli articoli delle Costituzioni c’è
sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle
disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito, è
una polemica contro il passato, contro il passato recente,
contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo
regime.
Se
voi leggete la parte della Costituzione che si riferisce ai
rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi
sentirete continuamente la polemica contro quella che era la
situazione prima della Repubblica, quando tutte queste
libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente,
erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella
parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il
passato.
Ma
c’è una parte della nostra Costituzione che è una
polemica contro il presente, contro la società presente.
Perché quando l’art. 3 vi dice: «È
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della
persona umana» riconosce che questi ostacoli oggi vi
sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la
Costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo
contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna
modificare attraverso questo strumento di legalità, di
trasformazione graduale, che la Costituzione ha messo a
disposizione dei cittadini italiani. Ma non è una
Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è
una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non
voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel
linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte
violentemente, ma è una Costituzione rinnovatrice,
progressiva, che mira alla trasformazione di questa società
in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà
giuridiche e politiche siano rese inutili dalle
disuguaglianze economiche e dalla impossibilità per molti
cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di
loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata
in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa
contribuire al progresso della società. Quindi, polemica
contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto
è in noi per trasformare questa situazione presente.
Però,
vedete, la Costituzione non è una macchina che una volta
messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo
di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova
bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile,
bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà
di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.
Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione
è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo
politico che è – non qui, per fortuna, in questo
uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una
malattia dei giovani.
«La
politica è una brutta cosa», «che
me ne importa della politica»: quando sento fare questo
discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia
storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due
emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un
piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella
stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era
una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo
oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un
marinaio: «Ma siamo
in pericolo?», e quello dice: «Se
continua questo mare, il bastimento tra mezz’ora affonda».
Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e
dice: «Beppe, Beppe,
se continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento
affonda!». Beppe risponde:
«Che me ne importa, non è mica mio!».
Questo è l’indifferentismo alla politica.
È
così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in
regime di libertà, c’è altro da fare che interessarsi di
politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci
sono tante belle cose da vedere, da godere, altro che
occuparsi di politica. La politica non è una piacevole
cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di
quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel
senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno
sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di
non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire
questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a
creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia
non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che
sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo
alla vita politica.
La
Costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi
articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli,
ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale,
della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a
fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la Carta
della propria libertà, la Carta per ciascuno di noi della
propria dignità d’uomo.
Io
mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il
2 giugno 1946: questo popolo che da venticinque anni non
aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta
che andò a votare dopo un periodo di orrori – il caos, la
guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo –
io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file
di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e
lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la
propria dignità, questo dare il voto, questo portare la
propria opinione per contribuire a creare questa opinione
della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio
paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra
terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del
nostro paese.
Quindi,
voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito,
la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa
vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza
civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della
vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è
solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei
limiti dell’Italia e nel mondo. Ora,
vedete – io ho poco altro da dirvi – in questa
Costituzione, di cui sentirete fare il commento nelle
prossime conferenze, c’è dentro tutta la nostra storia,
tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre
sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi
articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli si
sentono delle voci lontane.
Quando
io leggo, nell’art. 2, «l’adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica,
economica e sociale»,
o quando leggo, nell’art. 11, «l’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa
alla libertà degli altri
popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma
questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini! O quando io
leggo, nell’art. 8, «tutte
le confessioni religiose
sono ugualmente libere davanti alla legge», ma questo
è Cavour! O quando io leggo, nell’art. 5, «la
Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le
autonomie locali», ma questo è Cattaneo! O quando,
nell’art. 52, io leggo «l’ordinamento
delle forze armate si informa allo
spirito democratico
della Repubblica», esercito di popolo, ma questo è
Garibaldi! E quando leggo, all’art. 27, «non
è ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti
milanesi, è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi
lontani.
Ma
ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e
quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro a
ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete
vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati,
impiccati, torturati, morti di fame nei campi di
concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per
le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno
dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero
essere scritte su questa Carta. Quindi, quando vi ho detto
che questa è una Carta morta, no, non è una Carta morta,
questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è
nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove
caddero i partigiani, nelle carceri dove furono
imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è
morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità,
andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la
nostra Costituzione.
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