Le
classi multietniche sono una sfida per tutti – Il
carattere multiforme della popolazione scolastica è una
risorsa ma anche una fonte di problemi – In Francia per
esempio si parla di “razzismo alla rovescia”, bollando
in questo modo il preoccupante fenomeno degli scontri a
base etnica – Si tratta in realtà di una riedizione del
tradizionale conflitto fra le periferie disagiate e la
città opulenta – La scuola non può ignorare questi
nodi: deve scioglierli
Nos ancêtres les Gaulois: i Galli nostri antenati. Così
s’intitolava nella Francia di una volta uno dei primi
capitoli dei testi scolastici di storia. E quando quei libri
capitavano in mano a un nerissimo scolaretto delle colonie
africane, è facile immaginarlo piuttosto perplesso di
fronte all’immagine del biondo guerriero celtico, che gli
veniva imposto come antenato. Oggi molte cose sono cambiate
dai tempi coloniali, e dagli ex possedimenti oltremare una
folla di nuovi abitanti si è riversata nella madrepatria
trasformando la vecchia società francese in un crogiolo di
genti diverse. Specchio fedele della società, la scuola ne
ripropone al suo interno il carattere multiforme, e questo
contatto insieme la arricchisce e la carica di problemi.
Uno di
questi problemi è stato di recente riproposto da alcuni
fatti di cronaca. Nel corso delle agitazioni studentesche
contro la riforma scolastica, in un quartiere periferico di
Parigi gruppi di giovani immigrati hanno aggredito i loro
compagni bianchi. Scontri, pestaggi, contusi, intervento in
forze della polizia. Qualcuno è andato a sfogliare gli
archivi, scoprendo episodi analoghi un po’ in tutto il
paese: si assiste insomma a una contrapposizione a volte
violenta fra i giovani immigrati, in particolare i
maghrebini di fede islamica, e i ragazzi francesi. Un
connotato preoccupante di questo fenomeno è il fatto che i
francesi e gli ebrei vengono accomunati nella contestazione
e nel rifiuto. Per questo intellettuali come Alain
Finkielkraut e politici come Bernard Kouchner hanno lanciato
l’allarme parlando di “razzismo alla rovescia”, di un
misto di “francofobia” e antisemitismo, di “guerriglia
etnica”, e invocando pronte misure d’intervento.
Varie
circostanze hanno approfondito il solco fra le comunità.
Per esempio la legge recente sulla laicità nella scuola,
che vieta di portare nelle aule appariscenti simboli
religiosi come il velo delle ragazze islamiche, pena l’espulsione.
Ma anche la guerra irachena e la questione mediorientale,
che nonostante le equidistanti scelte diplomatiche francesi
hanno polarizzato l’opinione secondo lo spartiacque
etnico-religioso: arabi e musulmani da una parte, ebrei e
cristiani dall’altra. Benzina sul fuoco poi è stata
gettata da certi isterici teorizzatori dello “scontro di
civiltà”: quelli che parlano di Eurabia
e di invasione islamica, negano la possibilità di una
convivenza pacifica fra le culture (in questo modo
rendendola di fatto più difficile), e predicano la riscossa
dell’Occidente nello spirito di una vera e propria
crociata.
Tutti
questi elementi hanno esacerbato una crisi che era latente
nella società francese, così come in tutte le società
occidentali e in particolare in quelle più massicciamente
investite dal fenomeno dell’immigrazione. È il conflitto
tradizionale che nasce dagli squilibri sociali. Non sono
soltanto l’origine è la religione a differenziare la
massa degli studenti francesi da quella dei loro compagni
maghrebini: sono anche la collocazione sociale, il livello
di ricchezza, il tenore di vita. I ragazzi provenienti dal
Nordafrica, i beurs come li chiamano i francesi,
alimentano le bande frustrate delle banlieues,
quelle stesse desolate periferie che alimentano piccole
o grandi deviazioni criminali. Nel dibattito in corso a
Parigi si fa notare come vi siano licei di serie A e di
serie B: i primi sono quelli storici, frequentati dai figli
della borghesia benestante, con una scarsa presenza di
immigrati. Gli altri sono le scuole della banlieue, dove
invece la presenza beur è massiccia.
Quando
le due comunità entrano in contatto sui banchi di scuola si
registra un fenomeno che aggrava la situazione d’insieme:
il rendimento dei ragazzi francesi è mediamente superiore a
quello dei compagni di origine straniera. Il confronto
induce frustrazione nei secondi e senso di superiorità nei
primi: due sentimenti simmetricamente esplosivi. È questa
una situazione che si registra un po’ dappertutto nel
mondo, e che in Gran Bretagna ha portato a una proposta ai
limiti del paradosso. Si è infatti suggerito di dividere le
scolaresche, di creare classi per soli bianchi, classi per
soli neri. La proposta non è priva di motivazioni
didattiche: è noto a tutti che il rendimento complessivo di
un gruppo è tanto più alto quanto più il gruppo è
compatto. Lo dimostrano fra l’altro le statistiche
comparate internazionali Pisa, che vedono emergere
nettamente le scuole dei paesi (Corea, Finlandia, Giappone)
nei quali la società, e di conseguenza la scuola, è
maggiormente omogenea.
I propugnatori delle classi monoetniche si
prefiggono anche di prevenire le due parallele derive
psicologiche, i complessi di inferiorità e superiorità.
Ma questo non basta a giustificare una proposta non
soltanto politicamente ma anche moralmente scorretta.
Creare ghetti, introdurre l’apartheid educativo
significa in pratica non risolvere il problema, ma
restituirlo irrisolto alla società. Tocca invece proprio
alla scuola sciogliere quel nodo: troppo comodo aspirare
alla via maestra del gruppo compatto, l’istituzione
educativa deve piuttosto misurarsi, nella società di
oggi, con la sfida multiculturale, multietnica,
multireligiosa. Deve discutere al suo interno, adeguare le
didattiche all’eterogeneità dei soggetti, promuovere
una convivenza serena non nascondendo il capo nella sabbia
o con generiche enunciazioni di principio, ma facendo
oggetto di studio e di confronto le grandi questioni all’origine
del malessere: le differenze sociali, la povertà, la
coesistenza delle fedi, le crisi internazionali.
Altrimenti, è come se fossero passati invano gli anni che
ci separano da quel piccolo africano che si vedeva
affibbiare improbabili antenati gallici.
Alfredo Venturi
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