FOGLIO LAPIS - APRILE - 2005

 
 

C’è un articolo costituzionale che definisce obbligatoria e gratuita l’istruzione per “almeno” otto anni – Dal varo della Carta i tempi sono cambiati e la promessa implicita nell’avverbio è stata finalmente mantenuta – Si è arrivati così a dodici anni mentre si parla, piuttosto che di obbligo, di diritto-dovere – Ma sui contenuti divampa la polemica: perché per adempiere quel dovere, o fruire di quel diritto, non è necessaria una scuola, basta una bottega o un’officina

    

 

Costituzione della Repubblica Italiana, articolo 34, comma II: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Chi intendeva dettare le regole di uno stato moderno, non poteva certo ignorare l’esigenza di assegnare all’istruzione un ruolo centrale, quello stesso che da tempo era maturato nella coscienza civile, superando la scuola del passato riservata alle élites e la sua triste conseguenza sociale, l’analfabetismo di massa. Dagli anni 1946 e ’47, in cui l’assemblea costituente scrisse la Carta, sembra trascorsa un’eternità, certo molto di più dei nemmeno sessant’anni effettivi. In tutto questo tempo non si può certo dire che la norma dell’articolo 34 sia stata rispettata come merita. Da una parte le evasioni dell’obbligo scolastico, dall’altra una gratuità non certo generale e garantita, hanno reso utopistico il sogno dei costituenti.

Un’indagine conoscitiva, condotta dalla Lapis nel 1999 d’intesa con il comando della Regione militare Sud, portò alla desolante conclusione che ancora negli ultimi decenni del secolo scorso per troppi ragazzi il compimento della scuola obbligatoria restava un miraggio. Furono interpellati i 3368 diciottenni che quell’anno si erano presentati alla visita di leva-selezione in tre province del Mezzogiorno: un campione assai rappresentativo, anche se soltanto maschile. Risultò che l’undici per cento, cioè uno su nove, non aveva conseguito quella licenza di scuola media inferiore che avrebbe dovuto essere il naturale coronamento dell’obbligo. Uno su dodici, cioè l’8,4 per cento, non si era nemmeno affacciato all’istruzione secondaria, non essendo andato al di là della scuola elementare, mentre uno su quindici, il 6,7 per cento, non aveva nemmeno finito le elementari. Dati tanto più significativi se si pensa che i diciottenni del 1999 erano andati a scuola non  certo in tempi preindustriali, ma nella seconda metà degli anni Ottanta. I risultati, così diversi dalle minimizzanti statistiche ufficiali, fecero sensazione.

In quegli anni era da tempo maturata la convinzione che l’obbligo scolastico dovesse avere una durata superiore a quella prescritta dalla Costituzione, dove non a caso l’indicazione del dato temporale è preceduto dall’avverbio “almeno”. L’istruzione doveva coprire l’intero arco dall’infanzia all’adolescenza, fino alle soglie dell’età adulta, come di fatto in tutti i paesi evoluti. Si fissò così un obiettivo: dodici anni, dall’età di sei a quella di diciotto. Nel 1999 veniva fissata una prima tappa: l’obbligo scolastico veniva elevato di un anno. In pratica i ragazzi non ancora quindicenni, una volta ultimata la secondaria inferiore, venivano “obbligati” a frequentare un anno delle superiori, nel quale le didattiche dovevano tendere a una finalità di orientamento. Poi avevano la scelta: continuare gli studi o andarsene, non senza avere intascato un certificato che attestava gli studi fatti. Veniva introdotto inoltre il cosiddetto obbligo formativo fino ai diciott’anni: cioè l’impegno a frequentare o la scuola, o attività di formazione professionale o di apprendistato.

Poi è cambiata la maggioranza di governo, il ministero della pubblica istruzione è diventato ministero dell’istruzione, università e ricerca, e una nuova riforma scolastica, altrettanto discussa, ha preso il posto di quella appena elaborata. In materia di obbligo scolastico, al posto della norma appena approvata dei nove anni è stato varato, con un decreto legislativo dello scorso mese di marzo, il nuovo diritto-dovere. Un diritto che si realizza nel primo ciclo (scuola primaria e secondaria di primo grado) e nel secondo (licei e istruzione e formazione professionale), o nell’apprendistato. In pratica vengono riprese le indicazioni precedenti, e contemporaneamente a questo decreto ne viene varato un altro che si riferisce alla cosiddetta alternanza scuola-lavoro. Già dal prossimo anno scolastico, fa sapere il ministro Letizia Moratti, l’obbligo sale da nove a dieci anni, coinvolgendo trentamila ragazzi che altrimenti abbandonerebbero i percorsi d’istruzione o formazione.

Il decreto stabilisce la responsabilità delle famiglie a proposito di adempimento del dovere d’istruzione e formazione (con sanzioni per i genitori inadempienti), chiama i comuni a vigilare sull’adempimento stesso, affida all’anagrafe nazionale degli studenti il compito di combattere la dispersione, accolla alle scuole secondarie di primo grado funzioni di orientamento, esclude ogni tassa di frequenza in omaggio al famoso secondo comma dell’articolo 34. Il secondo decreto organizza l’alternanza scuola-lavoro, con la finalità di sperimentare le attitudini dei ragazzi e di corrispondere alle loro aspirazioni. Si prevedono anche percorsi in alternanza fra il sistema di istruzione e formazione professionale e i licei.

Come ogni intervento riformista nel mondo della scuola, anche questo ha suscitato polemiche e contrasti, non soltanto fra gli oppositori politici ma anche all’interno della stessa maggioranza di governo. C’è chi accusa la Moratti di avere pedissequamente riproposto linee già fissate dai precedenti governi, chi le rimprovera di avere creato un meccanismo privo di garanzie, chi stima che anche questo passo della riforma è privo di adeguata copertura finanziaria, chi infine considera il nuovo sistema troppo platealmente improntato all’ottica aziendalistica così diffusa oggi in Italia. Infatti quello che una volta era l’obbligo scolastico lo si può adempiere anche fuori dalla scuola: attraverso la formula dell’apprendistato è infatti sufficiente una bottega di parrucchiere, o un laboratorio di falegnameria, o un’officina meccanica. Tutte attività sacrosante, sia chiaro, ma forse sarebbe meglio chiamarle con il loro vero nome.

 

                                                                                                                                                               f.l.

 
 

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