C’è
un articolo costituzionale che definisce obbligatoria e
gratuita l’istruzione per “almeno” otto anni – Dal
varo della Carta i tempi sono cambiati e la promessa
implicita nell’avverbio è stata finalmente mantenuta
– Si è arrivati così a dodici anni mentre si parla,
piuttosto che di obbligo, di diritto-dovere – Ma sui
contenuti divampa la polemica: perché per adempiere quel
dovere, o fruire di quel diritto, non è necessaria una
scuola, basta una bottega o un’officina
Costituzione
della Repubblica Italiana, articolo 34, comma II:
“L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni,
è obbligatoria e gratuita”. Chi intendeva dettare le
regole di uno stato moderno, non poteva certo ignorare
l’esigenza di assegnare all’istruzione un ruolo
centrale, quello stesso che da tempo era maturato nella
coscienza civile, superando la scuola del passato riservata
alle élites e la sua triste conseguenza sociale,
l’analfabetismo di massa. Dagli anni 1946 e ’47, in cui
l’assemblea costituente scrisse la Carta, sembra trascorsa
un’eternità, certo molto di più dei nemmeno
sessant’anni effettivi. In tutto questo tempo non si può
certo dire che la norma dell’articolo 34 sia stata
rispettata come merita. Da una parte le evasioni
dell’obbligo scolastico, dall’altra una gratuità non
certo generale e garantita, hanno reso utopistico il sogno
dei costituenti.
Un’indagine
conoscitiva, condotta dalla Lapis nel 1999 d’intesa con il
comando della Regione militare Sud, portò alla desolante
conclusione che ancora negli ultimi decenni del secolo
scorso per troppi ragazzi il compimento della scuola
obbligatoria restava un miraggio. Furono interpellati i 3368
diciottenni che quell’anno si erano presentati alla visita
di leva-selezione in tre province del Mezzogiorno: un
campione assai rappresentativo, anche se soltanto maschile.
Risultò che l’undici per cento, cioè uno su nove, non
aveva conseguito quella licenza di scuola media inferiore
che avrebbe dovuto essere il naturale coronamento
dell’obbligo. Uno su dodici, cioè l’8,4 per cento, non
si era nemmeno affacciato all’istruzione secondaria, non
essendo andato al di là della scuola elementare, mentre uno
su quindici, il 6,7 per cento, non aveva nemmeno finito le
elementari. Dati tanto più significativi se si pensa che i
diciottenni del 1999 erano andati a scuola non
certo in tempi preindustriali, ma nella seconda metà
degli anni Ottanta. I risultati, così diversi dalle
minimizzanti statistiche ufficiali, fecero sensazione.
In
quegli anni era da tempo maturata la convinzione che
l’obbligo scolastico dovesse avere una durata superiore a
quella prescritta dalla Costituzione, dove non a caso
l’indicazione del dato temporale è preceduto
dall’avverbio “almeno”. L’istruzione doveva coprire
l’intero arco dall’infanzia all’adolescenza, fino alle
soglie dell’età adulta, come di fatto in tutti i paesi
evoluti. Si fissò così un obiettivo: dodici anni,
dall’età di sei a quella di diciotto. Nel 1999 veniva
fissata una prima tappa: l’obbligo scolastico veniva
elevato di un anno. In pratica i ragazzi non ancora
quindicenni, una volta ultimata la secondaria inferiore,
venivano “obbligati” a frequentare un anno delle
superiori, nel quale le didattiche dovevano tendere a una
finalità di orientamento. Poi avevano la scelta: continuare
gli studi o andarsene, non senza avere intascato un
certificato che attestava gli studi fatti. Veniva introdotto
inoltre il cosiddetto obbligo formativo fino ai diciott’anni:
cioè l’impegno a frequentare o la scuola, o attività di
formazione professionale o di apprendistato.
Poi
è cambiata la maggioranza di governo, il ministero della
pubblica istruzione è diventato ministero
dell’istruzione, università e ricerca, e una nuova
riforma scolastica, altrettanto discussa, ha preso il posto
di quella appena elaborata. In materia di obbligo
scolastico, al posto della norma appena approvata dei nove
anni è stato varato, con un decreto legislativo dello
scorso mese di marzo, il nuovo diritto-dovere. Un diritto
che si realizza nel primo ciclo (scuola primaria e
secondaria di primo grado) e nel secondo (licei e istruzione
e formazione professionale), o nell’apprendistato. In
pratica vengono riprese le indicazioni precedenti, e
contemporaneamente a questo decreto ne viene varato un altro
che si riferisce alla cosiddetta alternanza scuola-lavoro.
Già dal prossimo anno scolastico, fa sapere il ministro
Letizia Moratti, l’obbligo sale da nove a dieci anni,
coinvolgendo trentamila ragazzi che altrimenti
abbandonerebbero i percorsi d’istruzione o formazione.
Il
decreto stabilisce la responsabilità delle famiglie a
proposito di adempimento del dovere d’istruzione e
formazione (con sanzioni per i genitori inadempienti),
chiama i comuni a vigilare sull’adempimento stesso, affida
all’anagrafe nazionale degli studenti il compito di
combattere la dispersione, accolla alle scuole secondarie di
primo grado funzioni di orientamento, esclude ogni tassa di
frequenza in omaggio al famoso secondo comma dell’articolo
34. Il secondo decreto organizza l’alternanza
scuola-lavoro, con la finalità di sperimentare le
attitudini dei ragazzi e di corrispondere alle loro
aspirazioni. Si prevedono anche percorsi in alternanza fra
il sistema di istruzione e formazione professionale e i
licei.
Come
ogni intervento riformista nel mondo della scuola, anche
questo ha suscitato polemiche e contrasti, non soltanto fra
gli oppositori politici ma anche all’interno della stessa
maggioranza di governo. C’è chi accusa la Moratti di
avere pedissequamente riproposto linee già fissate dai
precedenti governi, chi le rimprovera di avere creato un
meccanismo privo di garanzie, chi stima che anche questo
passo della riforma è privo di adeguata copertura
finanziaria, chi infine considera il nuovo sistema troppo
platealmente improntato all’ottica aziendalistica così
diffusa oggi in Italia. Infatti quello che una volta era
l’obbligo scolastico lo si può adempiere anche fuori
dalla scuola: attraverso la formula dell’apprendistato è
infatti sufficiente una bottega di parrucchiere, o un
laboratorio di falegnameria, o un’officina meccanica.
Tutte attività sacrosante, sia chiaro, ma forse sarebbe
meglio chiamarle con il loro vero nome.
f.l.
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