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“Vorrei
raccontare cose vere, in modo tale che sembrino inventate, al
contrario di De Amicis che racconta cose inventate in modo tale che
sembrano vere”. Proprio così, L’ultimo
maestro, Diario di un maestro elementare dei nostri giorni (Edizioni
Beta, Roma, 1998), è da un
lato la riproposta adeguata ai tempi della formula del celebre Cuore
a un secolo dall’originale: giornale di bordo di due anni di
navigazione fra gli scogli e le calme piatte della scuola italiana,
intervallato non già dai racconti mensili di ma dalle sceneggiature
tratte da Goldoni o Shakespeare che l’insegnante propone ai suoi
ragazzi divenuti attori, e dalle gite ed escursioni della classe a
caccia di stimoli nuovi. Ma è anche il racconto di cose vere, diario
di una quarta elementare che diviene quinta e con l’esame di
compimento del secondo ciclo (si parla qui di cicli non ancora
riformati) si congeda dal suo maestro. L’autore,
Maurizio Boscherini, è già noto ai lettori di questo periodico.
Nello scorso numero firmò una protesta contro la riforma della scuola
di base, di cui abbiamo apprezzato, pur senza condividere le ragioni
di fondo della critica, l’appassionata dedizione al mestiere
educativo che vi traspare in controluce. Anche del suo Ultimo
maestro ricorrono quei temi critici: per esempio contro
l’impossibilità di operare una selezione ricorrendo alla
bocciatura. Più in generale Dernier,
questo lo pseudonimo con cui Boscherini firma il suo libro,
attacca l’organizzazione burocratica della scuola, denuncia
l’indifferenza ai generosi tentativi di un insegnante, che cerca di
riempire tanti vuoti con un impegno raddoppiato, introducendo nel
programma di fatto le grandi risorse del teatro e della pittura,
persino ospitando a casa propria chi ha bisogno di assistenza al di
fuori dell’orario scolastico. Racconta le approssimazioni,
l’indifferenza, le lacune, il sostanziale disinteresse di molti
operatori della scuola, il loro appiattirsi appunto sui programmi,
sull’orario, sulla direttiva. Ne esce, al di là della denuncia, uno
spaccato di vita non soltanto scolastica, un ritratto vivido,
arricchito dai disegni dello stesso autore, di una identità locale
che non riesce a salvare i suoi vecchi valori dall’attacco
esterofilo e omologante della televisione. Dernier
si rivolge a chi lo legge: “Ma perché <l’ultimo maestro>?,
ti chiederai. E io ti rispondo: per tutti i motivi che ti possono
venire in mente”. Citiamone almeno un paio: uno è implicito nella
visione drammatica, tipica di Boscherini, dell’attuale momento della
scuola italiana. Stanno uccidendo la scuola elementare, per
conseguenza i maestri sono una specie minacciata di estinzione. Un
altro corrisponde a un tema che da tempo è caro alla Lapis: la quasi
totale scomparsa della figura maschile dagli organici
dell’insegnamento elementare, e la sua progressiva rarefazione negli
altri ordini di scuola, con tutte le conseguenze di natura formativa
che sono implicite in questo squilibrio. Perfettamente d’accordo su
questo secondo punto, quanto al primo vorrei invitare Boscherini a una
riflessione. Non gli sembra contraddittorio denunciare, come ha fatto
con tanta efficacia, le manchevolezze della vecchia scuola e al tempo
stesso negare la carica di cambiamento innovativo che è implicita
nella riforma? Vale davvero la pena di difendere quel tipo di
tradizione? Difendere
una scuola, infine, che lo ha trattato come lo ha trattato? Perché
della storia di questo libro fanno parte le reazioni che ha suscitato.
L’autore non fa nomi e cognomi reali, ma nel piccolo ambiente nel
quale Boscherini vive e opera (si tratta di Santa Sofia, un comune
nella parte montana della provincia di Forlì-Cesena) il contesto
della vicenda è facilmente riconoscibile. E’ la scuola elementare
del posto, con i suoi dirigenti, i suoi insegnanti, i suoi alunni, le
famiglie degli alunni. L’accoglienza al libro è furibonda. L’impietoso
ritratto suscita persino le ire della giunta comunale, che lo accusa
di avere gettato discredito sul paese. Le colleghe di Dernier si
sentono oltraggiate e propongono il caso alle autorità scolastiche:
qualcuno addirittura suggerisce la radiazione per indegnità, che
sarebbe davvero una fine altamente simbolica per l’ultimo maestro.
Non si arriva a tanto, ma l’insegnante visceralmente legato alla sua
terra, che ama percorrere con pennelli e cavalletto, si vede
infliggere un trasferimento per “incompatibilità ambientale”.
Invano un collega lo
difende con lo sciopero della fame: andrà a portare la sua passione e
i frutti della sua esperienza in una scuola sperduta fra le montagne. Di questo libro, e della sua storia incredibile, si è parlato in un dibattito a Forlì la sera del 29 marzo. E’ stata una sorta di riparazione pubblica, tardiva quanto dovuta. Si è denunciata la profonda iniquità del maestro esiliato per le sue idee, si è parlato di attentato alla libertà di insegnamento, ci si è soffermati sui pregi singolari e un poco naïf del “libro per bambini che va bene anche per i grandi, o forse il contrario…”, sul maestro-padre che rifiuta la scuola “modello Mulino Bianco”. Si è commentata l’illustrazione di copertina, che rovescia la situazione del Cuore deamicisiano. “Maestro, lei uccide Franti!”, esclama il direttore consolando la madre del piccolo reprobo riscattato dai tempi, che sogghigna gongolante in primo piano. O il curioso neologismo con cui l’autore sintetizza la sua amara visione della scuola: “ipocrisia più burocrazia uguale ipocrazia”. Cioè scadimento di autorità. Lui, l’ultimo maestro, pensoso e quasi incredulo dopo quello che ha passato, ha assaporato fino in fondo la serata del riscatto respirando a pieni polmoni l’aria nuova, proponendo la lettura di qualche pagina del suo libro finalmente sottratto al rogo. a.v.
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