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Ci sono
voluti quattro anni di preparazione per arrivare all’ideazione e al
lancio dei nostri più importanti progetti: legalità e lavoro.
Quattro anni di viaggi in lungo e in largo nel nostro paese,
osservando i posti, gli ambienti, ma soprattutto ascoltando per ore ed
ore ciò che bambini, genitori, insegnanti, gruppi del volontariato,
sindacalisti, avevano da dirci: ognuno con una propria storia, ognuno
con la speranza che servisse veramente a qualcosa raccontare i fatti
propri a quei pellegrini curiosi – noi – che si informavano sulle
condizioni educative. E
ci sono voluti anche miracoli: un tassista a Napoli, papà di due
bambine, dopo quattro giorni che ci accompagnava nelle scuole, nelle
carceri minorili e in tutte quelle realtà di borgata dove vivono il
loro inferno quotidiano migliaia di persone, bambini compresi, non
volle essere pagato perché riconobbe il valore e la necessità di ciò
che stavamo facendo. E che responsabilità ci siamo sentiti sulle
spalle per non tradire quell’uomo e per essere all’altezza della
sua immensa fiducia in noi. Abbiamo
visto scuole che assomigliavano a carceri e carceri che si davano una
elegante parvenza di deliziose casette, per far recuperare, ci
dicevano, il senso estetico dell’ordine, della bellezza a quei
ragazzi ormai entrati in una devianza cronica dalla quale
difficilmente si esce. E sorgeva spontanea una domanda: perché non
pensarci prima, a rendere quelle orribili scuole con le sbarre alle
finestre ed i muri sudici più gradevoli ai bambini che fanno il loro
ingresso nella prima istituzione della società civile? Molti genitori
lamentavano il fatto che alla fine del periodo scolastico obbligatorio
i loro figli non sapevano nemmeno riempire un bollettino postale o
scrivere una lettera per chiedere un lavoro. Altri lamentavano un
fatto ancor più grave e cioè che dopo l’istruzione di base la sola
alternativa al proseguimento degli studi era il lavoro nero e in
alcune realtà unicamente l’appartenenza ad associazioni criminose
che reclutano molto volentieri le giovani leve. Così
piano piano si è andato delineando nella nostra testa il cammino che
avremmo dovuto intraprendere per dare effettivamente una mano nelle
difficili questioni della condizione giovanile. Legalità e lavoro:
questo doveva diventare il nostro piano d’azione. Da qui l’idea d’invitare i
magistrati a uscire dalle loro aule ed entrare nelle scuole,
soprattutto tra i bambini più piccoli, per correggere quella ormai
secolare percezione della giustizia che traspare per esempio da
un’interpretazione superficiale del libro di Pinocchio. Ci siamo
chiesti quanti insegnanti si siano presi la briga di spiegare ai
ragazzi che il “giudice ingiusto” di Collodi non è altro in realtà
che la denuncia simbolica della miseria, somma di tutte le ingiustizie
del mondo. Chi meglio dei magistrati può finalmente chiarire
l’equivoco? E
per tutti quei giovani desiderosi di poter entrare a pieno diritto nel
mondo del lavoro una volta concluso il periodo dell’obbligo
scolastico abbiamo ipotizzato un contatto fra scuola e società
produttiva: con un indirizzo tecnico-pratico negli istituti
comprensivi che possa indirizzarli verso l’artigianato e la piccola
impresa. Preparate
le bozze dei progetti grazie alle competenze specifiche che
volontariamente si sono messe a disposizione, siamo partiti. L’idea
era quella di cercare di capire, incontrando città per città i
rappresentanti delle due categorie, magistrati ed artigiani, la reale
fattibilità, soprattutto il reale interesse che avrebbe poi
mobilitato i protagonisti delle due iniziative. Il nostro calvario
comprendeva 25 stazioni, ma eravamo fermamente intenzionati ad
abbandonarlo immediatamente se fin dalle prime città ci fossimo resi
conto che sarebbe mancata la collaborazione locale. La nostra
sicurezza nel proporlo poi alle istituzioni doveva nascere dalla
certezza che la gente approvava la nostra idea. E così è stato:
dalle Alpi ai mandorli in fiore del Sud magistrati ed artigiani hanno
offerto la loro disponibilità a mobilitarsi per la realizzazione di
queste due iniziative ritenute a buona ragione “necessarie” da
praticamente tutti i rappresentanti incontrati. Una strana coincidenza
però ha voluto che nella medesima città del Centro Italia abbiamo
udito le sole due voci non in sintonia con le altre. La rappresentante
degli artigiani pareva interessata unicamente alla nostra consistenza
come organizzazione: quante divisioni ha il Papa? E l’uomo della
magistratura ci ha lasciato di stucco dicendo che prima voleva
sincerarsi di non essere alle prese con una banda di satanisti, e ha
tentato di impressionarci ordinando davanti a noi al suo segretario
l’invio di due fax, al ministero di Grazia e Giustizia e alla
Pubblica Istruzione, per verificare la legittimità della nostra
iniziativa. Anche l’esordio della nostra opera con le istituzioni romane non è stato privo di qualche asperità. Due alti funzionari ministeriali ci hanno detto che l’andare a cercare il (sacrosanto per noi) parere della gente sui due progetti non aveva nessuna importanza, tutto quello che serviva era una corretta stesura esplicativa dei progetti stessi. Siamo ovviamente d’accordo che questo è necessario, ma certamente non meno del riscontro, faticosamente realizzato sul campo attraverso i nostri contatti personali, che le due iniziative sono apprezzate e caldeggiate dagli interessati. Dobbiamo forse ricordare a lor signori che cosa significa democrazia?
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