FOGLIO LAPIS - SETTEMBRE - 2001

 
 

Milioni di studenti americani erano a scuola, quel tragico mattino dell’attacco a New York e Washington – Molti hanno seguito l’evento sul televisore di classe – Una scolaresca in visita al Campidoglio di Washington mentre scoppia l’inferno - Le voci dei ragazzi riflettono sgomento, confusione, un’improvvisa sensazione di insicurezza – Un’emergenza psicologica senza precedenti

 

Quel maledetto martedì 11 settembre era normale giorno di scuola, per milioni di studenti americani. Quando un quarto d’ora prima delle nove, ora locale, è cominciato l’attacco a Manhattan, le scuole della costa orientale erano già affollate, mentre nelle altre parti del paese (gli Stati Uniti comprendono quattro fusi orari) si avvicinava l’ora dell’apertura. In molte classi l’evento è stato seguito nella stessa diretta televisiva che ha fatto il giro del mondo. Riferiscono le cronache che centinaia di migliaia di genitori si sono precipitati nelle scuole per prelevare i loro figli e portarseli a casa. Anche se molto lontani dai luoghi della tragedia. “Nessun posto è sicuro oggi in America”, ha spiegato un genitore della Florida.

Altri si sono uniti nelle classi ai ragazzi e ai loro insegnanti, impegnati a cercar di capire quella tremenda pagina di attualità, che era già storia nel momento stesso in cui svolgeva la sua mortale sequenza. In una scuola della Pennsylvania una ragazza spiega a un cronista: “Siamo qui, guardiamo quello che sta succedendo, cerchiamo di discuterne, ma ancora non riesco a crederci”. Pochi minuti dopo la notizia che la scena della tragedia si era improvvisamente avvicinata: un quarto aereo dirottato, dopo i due scagliati su New York e il terzo su Washington, era precipitato proprio in Pennsylvania. E’ finita, per ora, ma nessuno può saperlo, in quei momenti terribili, mentre il presidente degli Stati Uniti che la sfida terroristica ha sfrattato dalla sua sede vaga per i cieli d’America.

A New York, alcune scuole vicine all’area del disastro vengono chiuse e lo resteranno a lungo, gli studenti distribuiti negli altri istituti della metropoli, che riapriranno soltanto dopo alcuni giorni. Qui il dramma nazionale si scompone in migliaia di drammi individuali: per quei ragazzi che non rivedranno più il padre, o la madre, o qualche altra persona cara travolta nel disastro. A Washington, quella mattina, c’è una scolaresca della Florida in visita al Campidoglio, la grande costruzione neoclassica sull’omonima collina che ospita il Congresso degli Stati Uniti. Subito dopo che uno degli aerei dirottati si è schiantato sul Pentagono, la sicurezza fa sgomberare gli edifici parlamentari. Si sparge la notizia che anche il Campidoglio è sotto tiro. I ragazzi della Florida vengono portati in un bunker sotterraneo: lì aspetteranno, col cuore in gola, la fine dell’emergenza.

Intanto nelle scuole si continua a seguire il dramma. “Quando sono stato finalmente in grado di pensare, dopo lo choc provato davanti a quello spettacolo – dice un ragazzo in una scuola del Maine – un milione di domande mi si sono affollate in testa, ma la prima era questa: chi, e perché, ha potuto fare tutto questo?”. Alcuni studenti giurano che mai più metteranno piede su un aereo. Altri si fanno interpreti della caratteristica reattività americana: “una simile sfida non può restare senza risposta – dice uno – dobbiamo cercare i colpevoli e punirli come meritano”. Ma per una ragazza del Texas il pensiero scava in profondità: “Mi domando che cosa ne sarà del mio futuro, e del mio sogno di vivere libera in questa società. Ma sono davvero libera, o semplicemente mi hanno insegnato che lo sono?”.

Un suo compagno di scuola propone una riflessione didattica: “perché i libri di storia non ci hanno preparati all’eventualità di fatti come quelli che oggi hanno colpito l’America?”. Gli insegnanti con qualche anno in più ricordano un’emozione per molti versi simile, quella che percorse gli Stati Uniti quella domenica d’inverno del 1941, il giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. E’ naturalmente facile trovare i limiti della similitudine: “allora almeno fu colpita una base militare, stavolta hanno deliberatamente colpito la popolazione civile, nella nostra metropoli più rappresentativa”. Ma un’analogia c’è, e fa tremare molti: come l’aggressione di Pearl Harbor, anche questa porta necessariamente alla guerra, sia pure una guerra nuova, diversa, ambigua.

Per un ragazzo dell’Illinois, la lezione che si può trarre da questa improvvisa irruzione della barbarie nel modo di vita americano è molto amara: “l’America non è invincibile come eravamo abituati a considerarla. Adesso dobbiamo stringerci forte insieme per uscire da questa situazione terribile”. Sono in molti a condividere questa sensazione di scossa, di risveglio da una condizione di privilegio, al riparo dagli accidenti della storia. “Tante volte – spiega una studentessa californiana – abbiamo visto scene di guerra in altri paesi, e percepito la disumanità della guerra. Stavolta è toccata a noi, e quasi mi sembra che tutto questo non sia accaduto, non stia accadendo”. Qualunque cosa ci riservi il futuro, è chiaro che per la scuola americana si profila una priorità nuova e fino a pochi giorni fa imprevista e imprevedibile: la necessità di gestire un’emergenza psicologica senza precedenti.

a. v.

 

 
 

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