Milioni
di studenti americani erano a scuola, quel tragico mattino
dell’attacco a New York e Washington – Molti hanno
seguito l’evento sul televisore di classe – Una
scolaresca in visita al Campidoglio di Washington mentre
scoppia l’inferno - Le voci dei ragazzi riflettono
sgomento, confusione, un’improvvisa sensazione di
insicurezza – Un’emergenza psicologica senza
precedenti
Quel
maledetto martedì 11 settembre era normale giorno di
scuola, per milioni di studenti americani. Quando un quarto
d’ora prima delle nove, ora locale, è cominciato
l’attacco a Manhattan, le scuole della costa orientale
erano già affollate, mentre nelle altre parti del paese
(gli Stati Uniti comprendono quattro fusi orari) si
avvicinava l’ora dell’apertura. In molte classi
l’evento è stato seguito nella stessa diretta televisiva
che ha fatto il giro del mondo. Riferiscono le cronache che
centinaia di migliaia di genitori si sono precipitati nelle
scuole per prelevare i loro figli e portarseli a casa. Anche
se molto lontani dai luoghi della tragedia. “Nessun posto
è sicuro oggi in America”, ha spiegato un genitore della
Florida.
Altri
si sono uniti nelle classi ai ragazzi e ai loro insegnanti,
impegnati a cercar di capire quella tremenda pagina di
attualità, che era già storia nel momento stesso in cui
svolgeva la sua mortale sequenza. In una scuola della
Pennsylvania una ragazza spiega a un cronista: “Siamo qui,
guardiamo quello che sta succedendo, cerchiamo di
discuterne, ma ancora non riesco a crederci”. Pochi minuti
dopo la notizia che la scena della tragedia si era
improvvisamente avvicinata: un quarto aereo dirottato, dopo
i due scagliati su New York e il terzo su Washington, era
precipitato proprio in Pennsylvania. E’ finita, per ora,
ma nessuno può saperlo, in quei momenti terribili, mentre
il presidente degli Stati Uniti che la sfida terroristica ha
sfrattato dalla sua sede vaga per i cieli d’America.
A
New York, alcune scuole vicine all’area del disastro
vengono chiuse e lo resteranno a lungo, gli studenti
distribuiti negli altri istituti della metropoli, che
riapriranno soltanto dopo alcuni giorni. Qui il dramma
nazionale si scompone in migliaia di drammi individuali: per
quei ragazzi che non rivedranno più il padre, o la madre, o
qualche altra persona cara travolta nel disastro. A
Washington, quella mattina, c’è una scolaresca della
Florida in visita al Campidoglio, la grande costruzione
neoclassica sull’omonima collina che ospita il Congresso
degli Stati Uniti. Subito dopo che uno degli aerei dirottati
si è schiantato sul Pentagono, la sicurezza fa sgomberare
gli edifici parlamentari. Si sparge la notizia che anche il
Campidoglio è sotto tiro. I ragazzi della Florida vengono
portati in un bunker sotterraneo: lì aspetteranno, col
cuore in gola, la fine dell’emergenza.
Intanto
nelle scuole si continua a seguire il dramma. “Quando sono
stato finalmente in grado di pensare, dopo lo choc provato
davanti a quello spettacolo – dice un ragazzo in una
scuola del Maine – un milione di domande mi si sono
affollate in testa, ma la prima era questa: chi, e perché,
ha potuto fare tutto questo?”. Alcuni studenti giurano che
mai più metteranno piede su un aereo. Altri si fanno
interpreti della caratteristica reattività americana:
“una simile sfida non può restare senza risposta – dice
uno – dobbiamo cercare i colpevoli e punirli come
meritano”. Ma per una ragazza del Texas il pensiero scava
in profondità: “Mi domando che cosa ne sarà del mio
futuro, e del mio sogno di vivere libera in questa società.
Ma sono davvero libera, o semplicemente mi hanno insegnato
che lo sono?”.
Un
suo compagno di scuola propone una riflessione didattica:
“perché i libri di storia non ci hanno preparati
all’eventualità di fatti come quelli che oggi hanno
colpito l’America?”. Gli insegnanti con qualche anno in
più ricordano un’emozione per molti versi simile, quella
che percorse gli Stati Uniti quella domenica d’inverno del
1941, il giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbor.
E’ naturalmente facile trovare i limiti della
similitudine: “allora almeno fu colpita una base militare,
stavolta hanno deliberatamente colpito la popolazione
civile, nella nostra metropoli più rappresentativa”. Ma
un’analogia c’è, e fa tremare molti: come
l’aggressione di Pearl Harbor, anche questa porta
necessariamente alla guerra, sia pure una guerra nuova,
diversa, ambigua.
Per
un ragazzo dell’Illinois, la lezione che si può trarre da
questa improvvisa irruzione della barbarie nel modo di vita
americano è molto amara: “l’America non è invincibile
come eravamo abituati a considerarla. Adesso dobbiamo
stringerci forte insieme per uscire da questa situazione
terribile”. Sono in molti a condividere questa sensazione
di scossa, di risveglio da una condizione di privilegio, al
riparo dagli accidenti della storia. “Tante volte –
spiega una studentessa californiana – abbiamo visto scene
di guerra in altri paesi, e percepito la disumanità della
guerra. Stavolta è toccata a noi, e quasi mi sembra che
tutto questo non sia accaduto, non stia accadendo”.
Qualunque cosa ci riservi il futuro, è chiaro che per la
scuola americana si profila una priorità nuova e fino a
pochi giorni fa imprevista e imprevedibile: la necessità di
gestire un’emergenza psicologica senza precedenti.
a.
v.
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