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Oltre le belle parole
All’inizio delle
lezioni l’augurio di buon lavoro è doveroso ma non basta:
occorre piuttosto l’impegno a attribuire concretamente priorità
assoluta alla scuola e ai suoi problemi – A cominciare da quello
che ci ostiniamo a considerare il problema numero uno: la
dispersione – Non dimentichiamo che proprio la frequenza
scolastica è il grande spartiacque della società, la condizione
necessaria anche se non sufficiente dell’inserimento del singolo
Anno scolastico 1998-99: il centotrentasettesimo
dell’Italia repubblicana, il penultimo di questo secolo. Collocato
nel fluire del tempo e della storia, il calendario della scuola ci
richiama più efficacemente il senso di quel dialogo fra le
generazioni e di quella trasmissione ai nuovi arrivati di memoria di
se’, di regole e diritti, di esperienza e cultura, di cognizione
del passato e addestramento al futuro che sono, o dovrebbero essere,
parti essenziali del percorso educativo e formativo. Scandito dai
consueti ritmi stagionali, l’anno scolastico che prende il via
comincia a dipanare la sua matassa: una mole enorme di lavoro ma
anche una quantità di problemi irrisolti, a volte addirittura mai
posti. Né mancheranno le polemiche di sempre: sulla efficacia del
modello attuale e delle riforme che si progettano, sulla eterna
questione del rapporto fra istruzione pubblica e scuola privata,
sull’obbligo costituzionale che si voleva elevare di due anni e
per ora si è elevato di uno, sul rapporto fra educazione e
formazione, sulla condizione degli insegnanti. Problemi veri, su
ognuno dei quali non mancheremo di far sentire la nostra voce né di
sollecitare altre voci: siamo qui per questo. Ma oggi, di fronte
allo spettacolo dei milioni di bambini, ragazzi e insegnanti che
riprendono il loro posto nelle scuole d’Italia, e alle belle
parole di circostanza che una volta ancora si sprecheranno, ci sia
permesso di concentrare la nostra attenzione non sui presenti ma
sugli assenti, e su quelli che, presenti, prima o poi subiranno la
tentazione di assentarsi. Sui "ragazzi che la scuola
perde", secondo la denuncia di Lorenzo Dilani che abbiamo
scelto come nostro motto. Si potrà dire quello che si vuole a
proposito della nostra organizzazione scolastica, e non c’è
dubbio che essa ha bisogno di sapienti iniezioni riformatrici: ma
non bisogna dimenticare che la scuola, comunque essa sia, rimane la
condizione necessaria anche se non sufficiente di ogni effettivo
inserimento nella società. Rimane il grande metro di valutazione
sociale: basti pensare al parallelismo storico fra le statistiche
sulla frequenza scolastica e quelle sulla qualità della vita. Il
valore non soltanto intellettuale ma anche materiale dell’esistenza
è intimamente connesso con l’istruzione, e la frequenza
scolastica è precisamente lo spartiacque della nostra società. Per
i dispersi c’è infatti l’inevitabile condanna a uno stato di
emarginazione, la proiezione crudele in uno spazio senza appigli e
in un tempo senza futuro. Né si parla soltanto di interesse dei
singoli, c’è anche un interesse comune: possiamo forse
permetterci di sprecare la più preziosa delle nostre risorse? Prima
ancora di affrontare i mali della scuola, è necessario che l’istruzione
di base sia in ogni caso garantita a tutti. L’evasione dall’obbligo
va prevenuta e repressa, la dispersione va combattuta con estrema
determinazione. Sappiamo benissimo che gli abbandoni dipendono in
non piccola parte proprio dalle manchevolezze scolastiche cui si
cerca di porre rimedio. Tuttavia dobbiamo insistere: va bene porre
rimedio a quelle manchevolezze, ma intanto che i rimedi maturano il
loro effetto, e purtroppo dobbiamo realisticamente rassegnarci ai
tempi lunghi, bisogna riportare sui banchi dell’istruzione di base
coloro che per i motivi più vari se ne sono allontanati. Non c’è
tempo da perdere: saranno subito adulti. Le statistiche sulla
dispersione sono incerte e contraddittorie, volatili e imprecise. Ma
sono soprattutto intollerabili, per ragioni di umanità e di
civiltà. D’altra parte la questione non è unicamente legata alle
dimensioni comunque inaccettabili del fenomeno: al di là dei grandi
e dei piccoli numeri è un fatto che anche un solo ragazzo perduto
sarebbe un ragazzo perduto di troppo.
Alfredo Venturi
Napoli: in prima linea nei
quartieri spagnoli
Parla Armida Filippelli,
preside dell’istituto Pasquale Scura, una scuola situata in uno
dei rioni più degradati della città – La storia di un convegno
sulla sicurezza che è stato impedito con la violenza – A tu per
tu con una società controllata e ricattata dalla camorra – Come i
ragazzi difficili riescono ad allestire uno spettacolo sul tema dell’amore,
recitando Catullo, Dante e Shakespeare
- Armidia Filippelli, preside di prima line, illustra il
particolarissimo contesto urbano in cui la scuola Pasquale
scura, da lei diretta, si trova immersa. "Siamo nel cuore
dei quartieri spagnoli, una specie di quadrilatero dove gli
spagnoli avevano le loro truppe… quartieri da sempre molto
complessi, ulteriormente degradati dopo il terremoto… C’è
un <effetto Harlem>, con tante persone che sono scappate
e tanti immigrati che hanno preso il loro posto. Nella mia
scuola ci sono molti ragazzini figli di queste persone, ma per
me il discorso interculturale era cominciato prima, perché
anche i ragazzi napoletani dei quartieri spagnoli sono gente
diversa, è come se fosse un’altra etnia. Dunque un
ragazzino che viene dallo Sri Lanka o dalle Filippine non mi
inquieta più di tanto, anche i bambini di qui sono diversi,
persino fisicamente, persino nel linguaggio, da quelli nati a
Posillipo o in altri quartieri bene. Degrado, dunque, e dopo
il terremoto abbandono e controllo ferratissimo da parte della
camorra: qui chi comanda veramente sono loro. Siamo sulla
linea d’ombra, perché vede, c’è la Napoli bella, la
Napoli cartolina, e c’è la linea d’ombra".
- Il sindaco non ha fatto niente in questo senso?
- "Diciamo che lo aspetto al varco, perché anche se
finora non ho visto molto interesse so che con questa
amministrazione posso contare almeno sulla sensibilità. Prima
era una vergogna, per una persona come me che si sente libera
da condizionamenti e vuol fare semplicemente il suo lavoro di
operatore scolastico. Per me il discorso etico va prima di
tutto, il discorso dell’istruzione è non guardare in faccia
nessuno… Io non chiedo al ragazzino chi è, per me esiste
lui e basta, anche perché già so chi sono e di chi sono
figli, magari di detenuti tossicodipendenti. E’ forse
démodé parlare di persona, di rispetto umano? I politici
dunque li aspetto al varco, li ho anche sfidati pubblicamente,
perché io non voglio essere una scuola che chiude e se ne va,
io voglio essere un cuneo, un cuneo nel quartiere… un cuneo
disarmato certamente, però io voglio dire ragazzi, c’è per
voi la possibilità di una vita diversa, non è vero che il
vostro futuro è segnato dalla condizione illegale dei vostri
padri. Utopia? Ma senza utopia non si muove niente".
- Immagino le difficoltà di un simile lavoro in questo
ambiente…
-
"Certo è difficile: io volevo fare un convegno sulla
sicurezza, sul fatto che qui non vengono i bus e non entrano i
vigili, spiegare che questo è funzionale a chi ha il controllo
sul quartiere e tiene la gente sotto il peso del ricatto, della
violenza. Ebbene, avevo invitato il prefetto, l’assessore alla
mobilità, altre autorità, giornalisti… Ho avuto la scuola
invasa dai disoccupati, quelli più turbolenti, diciamo la
fascia delinquenziale e mi hanno praticamente detto che qua di
sicurezza non si deve parlare. Ecco, il convegno non l’ho
potuto fare, il prefetto se ne è scappato".
- Come, scappato?
- "Sì, perché stava nel vicolo vicino, e come ha
sentito che la scuola era invasa se n’è andato. L’assessore
non è proprio venuto. Un senatore, il senatore Villone, che
era venuto se n’è andato, praticamente siamo rimasti io,
alcuni professori gente della Digos".
- Quando è accaduto?
- "Il 24 maggio. Ora, nessuno che mi abbia dato un segno
di solidarietà. Il prefetto l’ho incontrato dopo due giorni
e mi sono lamentata del suo abbandono: era in una scuola dove
si festeggiava l’euro. Perché qui a Napoli l’euro viene
festeggiato, è giusto. Vede, non è amarezza la mia, è solo
per dirle che non è facile. Vorrei tanto poter dire alla
gente che non è vero che comanda soltanto la camorra, che c’è
uno Stato che funziona, che ti dà una mano, che ti vuole
risollevare…"
- Ma lo Stato a lei non la dà, una mano…
- "Questa violenza dei disoccupati proprio non ci voleva.
Però come le ho detto, c’è un’attenzione diversa. Io
riesco con l’aiuto del Comune a tenere aperta la scuola d’estate,
a Natale, perché questo è importante in un quartiere chiuso
in sé stesso, dove la gente ha paura, dove si spara, dove
tante volte hanno sparato ai miei alunni, o dove i genitori
dei miei alunni sono stati <giustiziati> a Piazza
Carità. Io qui voglio vedere una mano forte, la voglio avere
una mano, e anche di più. Vorrei che venisse il sindaco,
perché è diventato un simbolo, io lo invito sempre a venire
qui, vorrei che sentisse come cantano in inglese i nostri
ragazzi, proprio gli stessi magari che aprono la porta a calci
perché così hanno imparato nel loro ambiente di
provenienza".
- Come giudica la riforma in preparazione, l’obbligo
prolungato?
- "L’obbligo prolungato lo vedo molto bene, ma solo se
si fa rispettare, ma quando noi facciamo delle leggi splendide
che poi non riusciamo a far rispettare…"
- E l’autonomia degli istituti?
- "Guardi, se è una cosa reale e non di facciata, e se
ci danno dei fondi per farla funzionare, ben venga, ma se ci
deve portare a un eccesso di regionalismo, oppure a fare le
nozze con i fichi secchi, allora non mi sta bene. Del resto
dell’autonomia io mi sono immediatamente avvalsa per fare
degli orari meno rigidi. Questi sono ragazzi che vivono in
strada e stanno svegli la notte, anche per questo abbiamo
bisogno di fare scuola in modo alternativo. Questi l’infanzia
quasi la saltano, hanno genitori giovanissimi e poco
autorevoli, a 35 anni qualcuno è già nonno. Dunque i miei
ragazzini di 12 anni sono già autonomi, e io devo convincerli
che la scuola è importante, ma non è facile e allora ci
vorrebbe quella legge di cui si parla sugli incentivi a chi
manda i figli a scuola. Perché molti di loro devono lavorare
per aiutare in famiglia. Vede, qualche volta ho sentito il
loro affetto, ma in ambiti diversi dalla scuola, perché a
scuola io sono la preside, l’unica autorità che
riconoscono. Mi hanno anche difesa, un giorno che ho subito
uno scippo, hanno preso lo scippatore e lo hanno picchiato,
denunciato no, perché andrebbe contro i loro canoni
omertosi".
- Che cosa si può fare per loro?
- "Tante cose, facciamo funzionare meglio la scuola,
portiamoli a vedere come funziona l’imprenditoria giovanile,
come si può fare una cooperativa, invece di infliggere un’ammenda
risibile dopo un iter lunghissimo alla famiglia che manda il
ragazzo a lavorare nel bar invece che a scuola, diamo
piuttosto un sussidio alla famiglia che il suo ragazzo lo
manda a scuola. Facciamo cose importanti come il corso che
abbiamo fatto con i fondi dell’Unione Europea per i
genitori. Un corso di ottanta ore per venti genitori, con la
partecipazione di magistrati, avvocati, psicologi,
associazioni del volontariato. Questa gente ne è uscita
trasformata: era la prima volta che qualcuno investiva in
loro. Ci sono delle madri che hanno costituito un’associazione,
anche quelle che non hanno più i bambini a scuola mi hanno
detto: preside, possiamo ancora starle vicino? Ma come no, voi
dovete starmi sempre vicino, voi siete diventati un punto di
riferimento per il quartiere. Una risorsa, come i nostri
professori, gente motivata che sta qua come me da vari anni,
senza chiedere il trasferimento, persone che potrebbero stare
nelle migliori scuole della città".
- Insomma ci sono speranze di strappare questi ragazzi al
degrado morale.
- "Lo sa che questi ragazzi, figli della violenza, hanno
organizzato uno spettacolo sul tema dell’amore? Lo hanno
fatto nei laboratori dove realizziamo nelle ore pomeridiane
dei programmi di tipo operativo. E’ un tipo di didattica
imposto dal fatto che i nostri alunni proprio non ce la fanno
a stare seduti per ore in classe. Dunque hanno recitato
Catullo, Dante, Shakespeare, i poeti moderni, poi hanno
ballato, hanno cantato, sono stati di una straordinaria
bravura"
La scuola come parcheggio
attrezzato
Secondo il sociologo Amato
Lamberti, presidente della Provincia di Napoli, la scuola del futuro
dovrà preoccuparsi in primo luogo di organizzare le conoscenze
acquisite all’esterno – Il problema di un corpo docente troppo
spesso chiuso rispetto alla società, al punto da considerare
inutile la lettura dei giornali – Innalzare l’obbligo va bene,
ma non basta mandare i ragazzi a scuola, se poi i progressi sul
piano formativo sono insignificanti
- Che idea hanno della camorra i ragazzi napoletani? Amato
Lamberti, sociologo e presidente della Provincia, ci parla di
un singolare esperimento volto a tentare una risposta a questa
domanda. "Abbiamo fatto una verifica sull’immaginario
dei bambini. Abbiamo fatto disegnare l’animale che secondo
loro rappresenta i camorristi. Nelle zone periferiche, dove la
camorra è presente, è sempre un animale feroce ma nobile,
nelle zone bene della città è invece un insetto, un verme.
Adesso stiamo estendendo l’esperimento ai ragazzi reclusi…
più o meno stiamo avendo le stesse indicazioni. Diceva Cuoco
che non si capisce niente della nazione napoletana se si pensa
che sia una, in realtà sono due, e l’una non vede nemmeno l’altra
perché ha lo sguardo rivolto all’ombra e basta".
- Questo come si riflette sulla scuola?
- "Guardiamo ai dati, ci sono dei tassi di evasione
scolastica che arrivano anche al 20-25 per cento in alcune
zone, in realtà ci sono pezzi di società in cui vanno tutti
a scuola e pezzi in cui non ci va quasi nessuno. E allora il
problema è capire, per quelli che non ci vanno, a che cosa
serve questa scuola. Prendiamo il tipico soggetto marginale,
che abita in una famiglia legata ai lavori gestiti dalle
organizzazioni criminali, tipo contrabbando di sigarette,
vendita di oggetti rubati e di oggetti falsificati e così
via. Come può la scuola dargli delle indicazioni, dal momento
che l’unica possibilità che vede proviene dal mondo della
marginalità, dove le regole sono altre, le regole del saperti
far valere… Ogni persona è orientata nei confronti della
società secondo le opportunità che ha a disposizione. Il
figlio di un marginale, che cosa impara a scuola rispetto a
quello che gli sarà necessario? Quindi è chiaro cha da un
lato non c’è la pressione della famiglia nei confronti
della scuola, mentre il ragazzo nel contesto in cui vive non
riceve sollecitazioni in direzioni diverse".
- Che cosa si può fare? Incentivi alle famiglie?
- "Ma non basta. In alcuni quartieri si riesce a portare
i bambini a scuola almeno per i primi anni, ma come si dice
non sono secolarizzati, nel senso che le famiglie non li hanno
orientati positivamente. Questi soggetti non secolarizzati
vengono ghettizzati e caricati di sensi di colpa, alla fine se
ne vanno. E se gli chiedi perché hanno lasciato la scuola
rispondono non <perché non mi serviva> ma <perché
ero ciuccio>".
- Come funziona l’osservatorio sulla dispersione?
- "In un certo senso ha funzionato, tanto che abbiamo un
tasso di evasione scolastica che è nella media nazionale. Noi
diciamo che tutti vanno a scuola nel senso che vengono
parcheggiati nella scuola, ma è questo il risultato che si
vuole ottenere?"
- No, non è questo
- "Allora oggi ci sono ragazzi che vengono parcheggiati
nella scuola fino ai 14 anni perché c’è l’obbligo, se
non vengono si mandano i vigili, si controllano gli elenchi.
Ma i risultati, dal punto di vista della formazione di questi
soggetti, sono insignificanti. L’unica cosa che noto è che
mentre prima nelle carceri minorili e in quelle per aduli
trovavo soggetti quasi sempre privi di scolarizzazione, o con
scolarizzazione bassissima, oggi trovo soggetti che hanno la
licenza elementare o la licenza media e qualcuno ha anche
qualche anno di scuola superiore, però stanno lì. Né i
tassi di criminalità minorile sono diminuiti in misura
significativa. Dunque il problema va al di là del fatto di
portarli a scuola, cha ha un senso solo se serve a instradarli
diversamente".
- In che modo si può sciogliere questo nodo?
- "Prima di tutto bisognerebbe ridurre notevolmente le
opportunità illegittime a disposizione della popolazione. A
Napoli ci sono secondo le stime venti o quarantamila persone
occupate nel contrabbando di sigarette. Finché ci saranno
queste venti o quarantamila opportunità è chiaro che ci
saranno persone che ne approfittano. Io conosco studenti che
si mantengono agli studi trafficando CD falsificati. Uno dei
mestieri più in voga a Napoli è quello di prendere un treno
la sera con due borsoni di CD e portarli a Bologna, a Milano,
consegnarli e tornare. Per ogni viaggio si prendono 200 mila
lire, c’è chi mi dice che riesce a fare anche due viaggi
alla settimana. Il pericolo è che quella diventi la sua vera
attività. Io sostengo che ci vuole una scuola a tempo pieno
prolungato, per tirarli fuori dal contesto in cui vivono e
fare proprio della scuola il luogo della
socializzazione".
- Non si potrebbe, come in Germania, puntare sull’insegnamento
di un mestiere?
- "Certo, ma bisogna anche considerare che in Germania
non ci sono tante opportunità illegali. Certo, ogni società
ha i suoi margini di illegalità, ma qui non è come forse in
Germania 2 o 3 per cento, qui siamo al 20-25. Qui c’è
qualcosa che non funziona nell’articolazione della società.
Per i detenuti minori di Nitida si fanno corsi per insegnare a
fare i pizzaioli. Ma la media dei giorni di reclusione è sui
venti o trenta, troppo pochi per imparare un mestiere".
- Che cosa pensa dell’innalzamento dell’obbligo
scolastico?
- "L’innalzamento va benissimo, perché è diventato
sociologicamente necessario allungare i tempi del parcheggio.
Io spesso come presidente della Provincia, quindi con la
responsabilità delle scuole secondarie e superiori, ho a che
fare con presidi che vengono a lamentarsi: manca questo, manca
quest’altro, bisogna ristrutturare la mia scuola… E io
dico finiamola di parlare di scuola, parliamo di parcheggi
attrezzati. In una scuola s’immagina che ci sia un percorso
formativo, che ci siano dei cambiamenti…"
- Così dovrebbe essere!
- "L’anno scorso è capitato un episodio in una scuola
di Aversa, un ragazzo dell’ultimo anno ha accoltellato un
suo compagno di classe. Allora ho chiesto al preside,
scusatemi ma a che cosa sono serviti tanti anni di scuola? Se
io ho fatto cinque anni di elementari, tre di media, cinque di
superiori, e alla fine prendo un coltello e lo infilo nella
pancia di un compagno, qualcosa che non ha funzionato in
questo percorso ci deve pur essere".
- Che cosa?
- "Ricordo una vignetta americana, due bambini davanti
all’asilo in attesa di entrare, passa un aereoe uno dei due
dice <questo è un Falcon>, e l’altro gli risponde
<vola a velocità mach 2,5>. Poi suona la campana e un
bambino dice all’altro <adesso andiamo a scuola a
infilare perline>. Questo per segnalare la distanza che
oggi c’è fra la società e i progressi di diffusione della
conoscenza, le velocità di apprendimento e la scuola.
Probabilmente la scuola del futuro sarà una scuola capace di
organizzare quelle conoscenze che il soggetto ha, la
grammatica che uno già conosce ma non sa riconoscere,la
sintassi che già possiede ma non sa di possedere".
- Come vede l’autonomia della scuola?
- "Autonomia significa che sono i presidi e il corpo
docente a organizzare la scuola, avendo anche la possibilità
di sperimentare. Il problema è che abbiamo un corpo docente
formato a un livello di formazione dove da un lato ci sono i
detentori del sapere e dall’altro i recettori. Mentre
probabilmente non è più così, oggi sono i giovani che
insegnano agli anziani, perché sono loro che sono più aperti
ai mezzi di comunicazione di massa, che leggono di più i
giornali… Io ho fatto una ricerca sulla lettura del
giornale, scoprendo che se c’è un pezzo di società in cui
l’uso del giornale non è diffuso è proprio il corpo
docente. Ma io dico come si fa a insegnare se non si legge
almeno un quotidiano al giorno? Come Provincia abbiamo fornito
i giornali alle scuole. Il risultato era che un ragazzo
leggeva un articolo e poi commentava, ma non è questo, il
giornale deve diventare pane quotidiano, fornire
documentazione, ma come lo vai a spiegare a un professore che
il giornale nemmeno lo compra. Tanto sono tutte sciocchezze,
dice, non mi interessa la cronaca, non mi interessa la
politica, e questa è la classe docente. Su un milione di
insegnanti, che ne saranno 200 mila bravi, il 20 per cento e
non di più. Io conosco insegnanti bravissimi, ma molti di
loro farebbero meglio ad andarsene a casa".
Il maestro di Val di Vico
I ricordi di Mario Ruggii,
un insegnante che mezzo secolo fa cominciò la sua vita
professionale in una minuscola scuola di campagna, nei monti sopra
Cortona fra Toscana e Umbria – Una sola aula, due turni, cinque
classi e alcuni chilometri da percorrersi a piedi: ma quella
esperienza fu arricchita da una intensità di rapporti umani
totalmente estranea alla scuola "modulare" di oggi –
Quando l’insegnamento elementare era una professione
"anche" maschile
-
"Ecco, guardate, la porto sempre intorno al collo. E' una
catenina d'oro con una medaglietta. Leggete che cosa sta scritto
nella medaglietta: "Con affetto la classe Vª al suo
maestro – 1985". Dopo cinque anni di scuola passati con
me, quei ragazzi non potevano manifestare meglio il desiderio di
essere ricordati. Oggi, nella scuola dei moduli, può accadere
tutto questo?"
- Nella sua casa di Mercatale, su quella parte della montagna
cortonese, nella provincia di Arezzo, che manda le sue acque
verso il Tevere, Mario Ruggiu rievoca una esperienza scolastica
che si è protratta per oltre quarant'anni, e in particolare
ricorda con accorata nostalgia la "sua" scuola, quella
degli inizi.
- "Cominciai a insegnare nell'anno scolastico 1947-48,
quando fui destinato alla scuola che avevano appena aperto a Val
di Vico. Era una cosiddetta scuola sussidiata, uno di quegli
istituti che ricevevano sovvenzioni dal Comune e un contributo
dal provveditorato proporzionale al numero di alunni".
- Quella scuola, o per la precisione l'edificio che la ospitava,
esiste ancora: c'è una sola aula ormai trasformata in deposito
di attrezzi, entrandovi si ha l'impressione di visitare la
scuola di Pinocchio. Uno degli alunni che vi hanno fatto le
elementari, Guido Mammoli, mostra lo spazio fra due finestre
dove stava la cattedra e la parete cui stavano appese le carte
geografiche. Mammoli era un alunno privilegiato, visto che
abitava e tuttora abita proprio qui, a Val di Vico. Non doveva
dunque, come il maestro Ruggiu che saliva ogni mattina da
Mercatale, affrontare i due chilometri e mezzo di curve e sassi,
per i quali ancora oggi serve il fuoristrada.
Come ci arrivava lassù?
- Io quella strada la facevo a piedi. Mica erano tempi di
scuolabus: a piedi arrivava anche la maggior parte dei bambini,
alcuni facendo itinerari anche più difficili. Per esempio
quelli che venivano da Montemaggio, oltre il crinale, che
d'inverno andavano a scuola marciando con la neve o il fango al
ginocchio. Proprio per questo, per evitare ai piccoli disagi
troppo gravosi, molti genitori li mandavano in prima più tardi,
oltre l'età scolastica, quando erano più grandicelli e più
robusti. Il mio primo anno a Val di Vico ebbi a che fare con una
prima che comprendeva bambini di sei, sette, anche otto anni.
C'è stato anche, più tardi, chi ha cominciato a quattordici.
Le bambine poi, ce ne voleva per convincere i genitori a
mandarle fra i banchi! Qualcuno diceva, in fondo sono femmine,
che se ne stiano a casa...
Come era organizzata la scuola di Val di Vico?
- Ovviamente con il sistema pluriclasse: avevamo un turno la
mattina, che comprendeva la seconda e la terza, e un turno
pomeridiano per i piccoli della prima. Più tardi, quando da
sussidiata la scuola divenne statale, furono aggiunte la quarta
e la quinta. Di per sé il lavoro nelle pluriclassi stimolava la
creatività e la fantasia, era un lavoro "artigianale"
che alla fine dava al "costruttore" l'intima
soddisfazione e il merito della crescita morale e culturale
degli alunni. Non era, come la scuola attuale, una catena di
montaggio dove ciascun insegnante applica il proprio pezzo. Era
una scuola che non faceva parte del sistema tecnologico, era
fatta piuttosto di molto calore umano. Pensi che a volte nelle
scuole di campagna, quando fra prima e quinta il numero
complessivo non superava una certa soglia, c'era un solo
insegnante per tutte e cinque le classi. Si organizzava il
lavoro scegliendo argomenti uguali per tutti, che ogni gruppo
svolgeva secondo il proprio livello di apprendimento.
E' un sistema che lei considera di per sé più
formativo?
- Era più formativo il tipo di impegno degli insegnanti, il
loro entusiasmo. Diceva un vecchio direttore didattico della
Calabria che quando lui andava alla scuola elementare la lezione
iniziava con la preghiera e poi con un'aggiunta: "Veniamo a
scuola per imparare a leggere, a scrivere, a far di conto e ad
essere galantuomini". Un modo e una terminologia di tanti
anni fa ma che, pensandoci bene, non si dovrebbero, alla luce
dei fatti, gettare nel cestino. Inoltre è importante ricordare
che il compito della maestra (o maestro) nelle scuolette di
campagna non si esauriva al termine delle lezioni ma si
protraeva nel resto della giornata.
Oggi sarebbe impensabile, e non solo per ragioni
sindacali...
- Proprio così. E' finito da un pezzo un certo ruolo sociale
dell'insegnante, che non si limitava a educare i figli ma a
volte si alternava al prete nel consigliare i genitori, li
aiutava a scrivere una lettera. Questo era tipico dei paesi e
della campagna, e si tratta di un ruolo superato fra le altre
cose dal pendolarismo. Oggi la maestra, e persino il medico, il
farmacista, abitano lontano e arrivano ogni giorno in auto per
trattenersi secondo l'orario di lavoro. Non c'è più il
professionista residente di una volta, che si incontrava al bar
e rappresentava una occasione di scambio e di arricchimento.
Sarà per questo che stiamo diventando più rozzi...
Lei parla di maestra, dunque di un ruolo tipicamente
femminile.
- Ai miei tempi l'insegnamento era una professione anche
maschile. Ricordo certe riunioni a Cortona di tutti gli
insegnanti della zona, davanti le maestre tutte vestite a festa
e noi uomini dietro: eravamo più o meno in pari numero. Poi è
diventata quasi un'esclusiva dell'altro sesso, soprattutto alle
elementari, ma ormai gli uomini stanno scomparendo dalle medie e
credo che fra un po' scompariranno dagli istituti superiori:
insomma sta diventando un matriarcato. Secondo me la scuola, che
pure deve molto alle qualità femminili, ha perduto qualcosa
rinunciando a una adeguata rappresentanza maschile. Andava molto
meglio quando c'erano uomini e donne.
Torniamo a Val di Vico: fino a quando rimase aperta
quella scuola?
- L'ultimo anno scolastico fu il 1967-68. Poi arrivò il
cosiddetto consolidamento, cioè i pochi alunni che ancora
gravitavano lassù furono fatti venire a Mercatale. Si può dire
che quella piccola scuola rurale fu chiusa per la concomitanza
di due ragioni: la tendenza organizzativa che portava appunto a
"consolidare" le sedi accentrandole nelle località
maggiori, dove fra l'altro potevano disporre di attrezzature e
sussidi didattici, e il fatto che la montagna si andava
gradualmente spopolando.
Nel corso del suo arco di esperienza professionale, lei
è passato in pratica dalle pluriclassi con insegnante unico
alle monoclassi con insegnanti plurimi...
- Non esattamente. Io sono andato in pensione nel 1989, quando i
moduli non si erano ancora di fatto realizzati. E' un sistema
che non mi va, se non altro per il fatto che la sua introduzione
mi è parsa dettata non da ragioni pedagogiche ma piuttosto da
motivazioni sindacali: si trattava infatti di sistemare del
personale in soprannumero. E poi condivido la critica di chi
sostiene che, nelle prime classi, il bambino che proviene dalla
materna o dalla famiglia ha bisogno di vedere nell'insegnante la
proiezione di una figura familiare. Trovarsi a che fare con più
maestri rischia di rendere ancora più duro l'impatto con la
realtà scolastica.
-
- La scuola non produce bulloni
-
- Un documento approvato dal Collegio dei
docenti della V Scuola media statale di Maddaloni (Cosenza) nel
quadro della consultazione nazionale relativa ai contenuti
essenziali per la formazione di base – L’accento sull’autonomia
e sulla specificità di una istituzione che non deve essere
considerata semplice "pezzo" dello Stato da far
funzionare a costi ridotti
-
- Pur condividendo l’opinione che in una società
post-moderna, qual è la nostra, la soluzione dei problemi non
possa prescindere dalle reali dinamiche sociali,tuttavia sembra
strano che un’ipotesi di riassetto del sistema formativo non
parta dalla considerazione fondamentale che la Scuola è essa
stessa, nella sua autonomia e nella sua specificità, il centro
motore di una società in evoluzione. Il fatto che la
discussione sul riordino della scuola italiana parta dall’Art.
21 della legge Bassanini dimostra che in realtà si nega tale
specificità, tale autonomia, assimilando così la Scuola ad uno
dei "pezzi" dello Stato da riformare per renderlo più
efficace ed efficiente a costi ridotti. Tale impostazione sembra
ricondurre all’idea di un sistema scolastico paragonabile ad
un’azienda. La Scuola, tuttavia non produce
"bulloni"! La Scuola è il luogo dove si
"produce" cultura, intesa come la più alta
espressione dello Spirito umano! E’ il luogo ove si insegna a
pensare e ad essere prima di tutto donne e uomini, portatori di
forti valori condivisi, ancor che tecnici, professionisti,
operai e via dicendo. Certamente siamo convinti che la Scuola
non debba essere un’oasi felice, autoreferenziale, in cui il
"sociale" venga ignorato, come talvolta avviene; ma
collegare la Scuola al territorio, farla interprete delle
aspettative della società non vuol dire appiattirla sulle
emergenze sociali, perdendo di vista la sua specificità
valoriale, a danno dell’"EDUCERE". La pur necessaria
introduzione delle moderne tecnologie informatiche deve essere
finalizzata a dotare le nuove generazioni di strumenti di
analisi critica della realtà tali da porle al riparo dall’influenza,
talvolta nefasta, di agenzie pseudoeducative. In rapporto ai
contenuti (non si fa confusione con obiettivi?) non si tratta di
fondare nuovi saperi, quanto di sperimentare e adottare modelli
didattici (D.B., Didattica per concetti, ecc.) che permettano,
attraverso lo snellimento dei programmi, di recuperare il valore
epistemologico delle discipline. Suggeriamo la costituzione di
una commissione formata innanzitutto da "addetti ai
lavori" (docenti, presidi, rappresentanti di associazioni
professionali, sindacali, ecc.), da rappresentanti dei genitori
e degli studenti, che, forse, con maggiore accortezza sapranno
evidenziare le necessarie modifiche da apportare al sistema
scolastico nazionale senza trascurare gli aspetti della
professionalità degli operatori della scuola e il relativo
inquadramento economico-giuridico.
La salute come obiettivo
educativo
Dall’articolo 32 della
Costituzione ("La Repubblica tutela la salute come fondamentale
diritto dell’individuo e interesse della collettività…")
alla legge che affida alla scuola il compito di educare alla salute
– Si tratta non di un bene privato ma di un bene che è insieme
diritto e dovere: di un bene da produrre, da conservare, da godere
ma anche da investire e di cui rendere conto a se stessi e agli altr
Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni
svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una
sfida per la società, organizzato ad Arezzo dalla LAPIS il 25 e 26
ottobre 1997. In questo numero la parte conclusiva dell’intervento
del prof. Luciano Corradini, presidente dell’Unione cattolica
degli insegnanti medi
L’avvento del rischio-droga ha indotto il
Parlamento, prima degli anni ’70, con la legge 685/1975, poi negli
anni ’90, con la legge 162/1990, ad affidare alla scuola compiti
di prevenzione delle tossicodipendenze, ossia, con formula più
impegnativa, "attività di educazione alla salute e di
informazione sui danni derivanti dall’alcolismo, dal tabagismo,
dall’uso delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle
patologie correlate" (art. 104, DPR 9-10-90, n. 309; art. 326,
D.Leg.vo 16-4-1994, n. 297). Questa semplice proposizione
ridefinisce i compiti della scuola, affidando precise
responsabilità a dirigenti e docenti e prevedendo anche contributi
finanziari. Superando le diatribe di carattere teorico sulle
funzioni della scuola, la legge le attribuisce chiaramente il
compito di educare, dal momento che la sola informazione in
proposito è ritenuta necessaria ma non sufficiente. Che cosa sia l’educazione
alla salute e come si possa realizzarla, la legge non definisce con
chiarezza, perché da un lato dice che "le attività di cui al
comma 1) s’inquadrano nello svolgimento ordinario dell’attività
educativa e didattica, attraverso l’approfondimento di specifiche
tematiche, nell’ambito delle discipline curricolari"; dall’altro
parla dell’"incentivazione di attività culturali, ricreative
e sportive, da svolgersi eventualmente anche al di fuori della
scuola", di "iniziative da realizzare nell’ambito dell’istituto,
con la collaborazione del personale docente che abbia dichiarato la
propria disponibilità", sulla base delle proposte formulate da
"gruppi di almeno venti studenti". Rinviando ad un
apposito comitato scientifico-tecnico il compito di approfondire,
tra l’altro, le tematiche della pedagogia preventiva, e al
Ministero della PI il compito di "coordinare e promuovere le
attività di educazione alla salute", la legge riconosce che la
materia è ancora allo stato fluido e mostra chiaramente di voler
aprire un discorso, piuttosto che codificare procedure operative in
termini rigidi. Il processo di attuazione della legge è avviato,
anche se con incertezze e reticenze. La posta in gioco è notevole:
riguarda la possibilità di concorrere in modo provveduto ed
efficace sia alla prevenzione delle patologie che minano la
volontà/capacità di affrontare i compiti vitali del nostro tempo,
sia la possibilità di rinnovare la scuola senza sconvolgerla nella
sua antica e insostituibile ragion d’essere. Per questo è
importante seguire l’esperienza in atto, cercando di cogliere le
resistenze e le iniziative delle scuole, al fine di comprendere le
implicazioni della tematica del disagio e della salute per l’educazione
scolastica, superando gli equivoci e le polarizzazioni polemiche di
chi non ricorda il classico primum vivere, deinde philosophari.
Anziché bene privato da consumarsi a piacimento, la salute si va
manifestando come un bene radicale, che è insieme diritto e dovere,
o meglio un bene da produrre, da conservare, da godere, ma anche da
"investire" e di cui rendere conto a se stessi e agli
altri. In quanto condizione e sintesi di valori, la salute non è
solo affare del singolo, né solo dello Stato, né solo delle
istituzioni specialistiche. Essa diventa un asse valoriale, che
comporta un nuovo modo di guardare la società, di fare cultura,
educazione, politica: un nuovo modo di vivere, non solo di
affrontare e di curare le malattie. Che tutte le istituzioni ne
siano chiamate in causa, non è solo dovuto all’emergenza droga.
Si può ricordare che la nostra Costituzione recita all’art. 32:
"La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo
e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli
indigenti". Questo impegno assume il ruolo di chiave di volta
nei rapporti etico-sociali dell’architettura costituzionale, dato
che si colloca fra gli artt. 29 ("La Repubblica riconosce i
diritti della famiglia") e 30 ("protegge la maternità, l’infanzia
e la gioventù") e 33 ("detta le norme generali sull’istruzione
ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi"). Se
la salute è la capacità dell’uomo di star bene con se stesso,
con la propria cultura, con le proprie istituzioni, a condizione che
sappia aprirsi agli altri, alle loro culture e a istituzioni sempre
più tra loro interdipendenti e solidali, la scuola può e deve
concorrere, insieme con la famiglia, a promuovere questo tipo di
salute, senza temere di perdere la sua specificità di istituzione
formativa centrata sulla trasmissione e sull’elaborazione della
cultura. Di fatto, lo sappia o no, la scuola è per i giovani un’istituzione
ambivalente che ha a che fare con l’umore, con l’emotività, ma
anche col senso complessivo della vita: come l’antico pharmacon,
la scuola è veleno e medicina. La presa di coscienza della valenza
"patogena" e della valenza "salutare" del
proprio lavoro comporta una nuova legittimazione sociale e un
rinforzo ideale, simbolico e funzionale del proprio compito.
Letterati e registi ne hanno messo in luce la tragicità: essa vive
in funzione del futuro, ma non può dimenticare l’attimo fuggente:
è sollecitazione a godere la giovinezza che fugge, invito al carpe
diem, ma è anche offerta di ragioni che inducano a guardare lontano
e a soffrire per qualcosa che vale più del piacere dell’oggi.
Senza gioia e sofferenza, senza razionalità e sentimento, che
scuola sarebbe? Il Ministero della PI ha proposto, come strumenti di
attuazione di una politica di educazione alla salute, un complesso
di iniziative che vanno sotto il nome di Progetto Giovani 2000,
Progetto Ragazzi 2000, Progetto Genitori, Progetto Arcobaleno,
C.I.C., centri d’informazione e consulenza. Identità personale,
solidarietà, protagonismo sono le categorie guida di queste
iniziative, che ogni scuola è invitata a predisporre in attuazione
della legge, potendo concorrere al finanziamento previsto dalla
legge, attraverso progetti da presentarsi ai provveditorati agli
studi. Si è trattato, fin dal 1991, di anticipazione della logica
dei PEI (progetti educativi d’istituto) e della relativa
"carta dei servizi scolastici". La rete dei docenti
referenti d’istituto e le risorse previste per la lotta contro la
dispersione scolastica, la direttiva 133/1996 sulle iniziative
complementari e le attività integrative, che prevede anche i
comitati e le consulte provinciali degli studenti (divenuta DPR
567/1996 per iniziativa di Berlinguer), la direttiva 58/1996 (sulle
nuove dimensioni formative, l’educazione civica e la cultura
costituzionale), inviata da Berlinguer alle scuole nello scorso
ottobre, la direttiva 600 del settembre scorso sull’educazione
alla salute e soprattutto la prospettiva aperta dalla legge 59/97
sull’autonomia delle scuole costituiscono un corpus di norme che
consentono alla scuola di muoversi con chiarezza di idee e con
modesta ma non indifferente disponibilità di risorse in una
direzione che si è rivelata feconda, solo bisognosa di fiducia, di
promozione e di governo integrato delle "educazioni", come
dice la direttiva 331/1997 sull’attività amministrativa del
ministro Berlinguer, nei paragrafi 1° e 14°. In conclusione, le
lotte contro il "mal di scuola", dal disagio alla
dispersione, dalla demotivazione alla droga, vanno combattute nella
prospettiva della valorizzazione del patrimonio di cui la scuola
dispone: le sedi scolastiche, le discipline, le competenze dei
docenti, le relazioni interpersonali, le iniziative culturali,
sociali, sportive, ricreative: tutte queste "risorse" sono
più o meno ricche, a seconda della fortuna e delle virtù da cui
dipendono. Le leggi e le norme sono opportunità, in certo senso
pretesti per conferire valore aggiunto ad un’istituzione
indubbiamente in difficoltà, che dispone tuttavia di un
"tesoro nascosto", di cui non sempre conosce l’esistenza.
Ragazzi e giovani non si è solo per ragioni anagrafiche: lo si
diventa anche andando ad una scuola buona e sana, accogliente e
interessante, o almeno credibile e decente.
( 4 – continua )
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