A
lungo ritenute un efficace strumento pedagogico, le punizioni
corporali attraversano la storia dell'istruzione. Fu la
Polonia, nel 1783, il primo paese ad abolirle. In un istituto
svizzero si tenta un'altra strada piuttosto singolare,
quella delle sanzioni pecuniarie
Triste
destino quello di Lucio Orbilio Pupillo (noto semplicemente
come Orbilio) perché l’essere stato il precettore
di un allievo famoso come il poeta latino Orazio lo ha consegnato
alla storia con l’immagine ed emblema dell’educatore
rozzo e violento. I suoi metodi educativi incentrati su
punizioni e castighi corporali indussero Orazio ad appellarlo
con il termine di plagosus, ossia manesco, colui che provoca
ferite. Questo a testimonianza che le punizioni corporali
vennero utilizzate fin dall’antichità come
strumenti educativi ritenuti giusti o addirittura consigliabili.
Unica voce fuori dal coro quella di Quintiliano che non
le condanna ma, semplicemente, le ritiene inutili e potenzialmente
dannose per la crescita psicologica del fanciullo.
Anche
all’alba della scuola moderna, fine Quattrocento ed
inizio Cinquecento, i concetti di premi e punizioni sono
un tema ricorrente delle principali scuole pedagogiche e
fanno parte del corredo professionale degli educatori di
ogni ordine e grado. La punizione, così come il premio,
di solito veniva somministrata alla presenza degli altri
allievi, unum castigabis, centum emendabis, seguendo un
rigoroso e metodico cerimoniale ed era proporzionale alla
gravità della colpa. Per dirla con termini giuridici
la dottrina generalmente accettata era in loco parentis,
ossia si riteneva che la scuola avesse sui minori gli stessi
diritti delle famiglie.
Il
Settecento sulla scia di nuove idee che iniziavano a farsi
strada sia in campo politico che sociale, una fra tutte
quelle di Beccaria, intese l’infanzia come un’età
da rispettare e valorizzare. Anche se accanto a figure eminenti
come quelle di Rousseau e Pestalozzi, apertamente contrari
alle punizioni corporali, altri pedagogisti preferiscono
concentrarsi sulla loro distinzione fra legittime e illegittime.
Sono sempre del Settecento le prime condanne sul loro impiego
ed è nel 1783 che la Polonia, primo paese al mondo,
le abolisce del tutto.
Qualcosa
di simile iniziava a farsi strada anche da noi, ed infatti,
l’art. 98 del Regolamento scolastico, pubblicato con
il Regio Decreto 4336 del 15 settembre 1860, il primo dell'Italia
unita, vietava “le parole ingiuriose, le percosse,
i segni di ignominia, le pene corporali, come il costringere
a star ginocchioni o colle braccia aperte, ecc".
Questo
però non significò la loro completa eliminazione,
ed infatti bacchettate, inginocchiate sui ceci e ceffoni
continuarono ad essere utilizzati anche nelle scuole dell’Ottocento.
L’idea di fondo di educare la mente e lo spirito disciplinando
il corpo tardò ad essere abbandonata. Occorrerà
attendere la scuola democratica perché sia, finalmente,
messa al bando la violenza a scopi educativi. Anche se,
in molti casi, la gerarchia, la disciplina, l’uguaglianza,
le regole rischiano, se portate all'estremo, di soppiantarle,
trasformandosi in meccanismi di prevaricazione tanto efficaci
e potenti quanto subdoli.
A
tal proposito definire originale la soluzione adottata dall’istituto
svizzero di Aaran nel Canton Argovia, é dir poco:
sanzione di dieci franchi svizzeri (poco più di dieci
euro) agli studenti che marinano la scuola, arrivano in
ritardo o si permettono di non fare i compiti. Tenendo presente
che l’istituto è frequentato da circa tremila
alunni ci vuole un attimo a raggiungere cifre ragguardevoli,
infatti sembra che l’anno scorso si siano raccolti
circa 70 mila euro distribuiti, ufficialmente, per attività
collettive: uscite didattiche, gite o giornate sulla neve.
Le
motivazioni di tali decisioni le fornisce la stessa dirigente
scolastica, Margrit Bauman, alla RSI (Radiotelevisione svizzera):
“i ragazzi devono imparare ad assumersi le proprie
responsabilità”. A parte il dibattito che si
potrebbe aprire su tale provvedimento, sulla mancanza di
informazioni in merito a cosa succede a coloro che non pagano
le multe e sull’impossibilità di poter tradurre
tutto, soprattutto quando si parla di educazione, in moneta
contante, quello che dovrebbe fare riflettere maggiormente
è il fatto che solo il 5% dei discenti paga il 90%
delle sanzioni, come ammesso dalla stessa direttrice.
Pur
convinti di sbagliarci e di non essere sulla strada giusta,
non possiamo esimerci dal chiederci: non sarà che
a studenti particolarmente facoltosi il pagamento delle
sanzioni invece di divenire uno stimolo per correggere il
proprio comportamento ed un’occasione di crescita
e formazione personale, rappresenti un modo per palesare
il proprio stato sociale nei confronti della scuola e dei
compagni? Perché se ciò fosse vero saremmo
di fronte ad alunni che invece di evitare punizioni le rincorrono,
in nostalgici allievi di Orbilio.
c. p.
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