Secondo
uno studio britannico l'astinenza volontaria dai social
fa bene alla salute. Mentre l'ossessione di verificare
le notifiche ruba un sacco di tempo. E così si
fa strada il minimalismo digitale, utilizzare la tecnologia
in modo accuratamente selettivo
E’
difficile allo stato attuale dire ad uno studente di non
utilizzare il telefonino o di non accedere ai social dopo
che essi hanno rappresentato per lui e per i suoi genitori
l’unico strumento di ancoraggio alla realtà.
Lo smartphone è divenuto un oggetto irrinunciabile,
un appendice del proprio corpo, un vero e proprio must-have
tale da condizionare la propria appartenenza al gruppo e
alla società. Ciò ha avuto come diretta conseguenza
l’ accentuazione del fenomeno del phubbing: neologismo
che deriva dalla sincrasi dei termini inglesi phone e snubbing
e che denota un uso pervasivo e decontestualizzato dei device
digitali nei contesti di relazioni interpersonali. Le sue
manifestazioni sono evidenti, per esempio, nella reazione
che si ha quando sul proprio cellulare giunge una notifica
o un nuovo messaggio e che induce ad isolarsi e a trascurare
intenzionalmente i propri interlocutori. Le motivazioni
possono essere le più svariate (noia, disagio, frustrazione)
ma che denotano, oltre ad un comportamento non proprio elegante,
uno scarso interesse verso gli argomenti di discussione
e gli interlocutori e che, secondo gli esperti, può
condurre a ripercussioni negative sul benessere psicologico
dei giovani a tal punto da sviluppare sintomi depressivi.
Prendere
fra le mani lo smartphone, sbloccarlo e scorrere con il
pollice lo schermo dal basso all’alto sono divenuti
gesti talmente automatici ed abitudinari da meritarsi il
conio di un termine proprio: scrolling. Ultimamente si preferisce
utilizzare l’espressione infinite scrolling dato che
l’azione è ripetuta impulsivamente centinaia
di volte nello stesso giorno con inevitabili ripercussioni,
a livello scolastico, sulla consapevolezza, il controllo
e l’attenzione.
Le
spiegazioni psicologiche più accreditate si basano
sul concetto di rinforzo positivo giungendo alla definizione
di condizionamento strumentale, questo perché è
stato dimostrato che lo scrolling si accompagna e genera
sensazioni gratificanti e di piacere soprattutto quando
si ricevono notifiche di post, like e commenti. Questi fungono
da “premi” che spingono a replicare il comportamento
e ad alimentare, in loro assenza, il processo di rinforzo
intermittente.
Le
similitudini con i principi che sono alla base di altri
tipi di dipendenze sono alquanto evidenti ed infatti si
è ideato il termine nomofobia (ancora una volta ereditato
dai termini anglosassoni no-mobile) per indicare i casi
di dipendenza ed astinenza da social network.
Illuminante
a tal riguardo è uno studio condotto da un gruppo
di ricercatori dell’Università britannica di
Barth pubblicato sulla rivista accademica Cyberpsycology,
Behaviour and Social Networking che sembra confermare l’effetto
positivo che è possibile ottenere da un’astensione
volontaria dai social network. La particolarità dell’esperimento
risiede nel fatto che si è trattato di uno studio
controllato randomizzato su 154 partecipanti, tutti utilizzatori
assidui, compresi fra i 18 e i 72 anni.
Il
campione è stato diviso in due gruppi, al primo,
è stato chiesto di astenersi dall’utilizzare
i principali social, mentre ai membri del secondo, tecnicamente
definito gruppo di controllo, si è lasciato utilizzarli
liberamente. I risultati a cui sono giunti i ricercatori
hanno testimoniato che i livelli di ansia, stress e depressione,
misurati ad inizio esperimento, hanno rilevato differenze
di valori significativi. Analizzando la WEMWBS (Warwick-Edinburgh
Mental Well-Being Scale), una sorta di indice del benessere
psicologico, si è registrato una diminuzione e riduzione
dei livelli di depressione e di ansia fra i membri del primo
gruppo.
Sembrerà
strano ma i benefici positivi si sono ottenuti nell’arco
di una sola settimana, ed infatti il gruppo di ricerca intende
proseguire la propria indagine andando a verificare se lo
stesso periodo, diciamo di astinenza, possa essere di aiuto
a fasce di popolazioni diverse oppure valutare gli effetti
che si possono ottenere in tempi più lunghi. L’intenzione
è quella di raccogliere dati utili per far rientrare
l’allontanamento dai social come trattamento terapeutico
nei casi di salute mentale.
Naturalmente
si è ancora in un periodo pionieristico dove mancano,
o sembrano mancare, dati scientifici certi sullo sbilanciamento
fra effetti negativi e positivi dell’esposizione alle
piattaforme social e il rapporto esistente con il benessere
mentale della popolazione, soprattutto più fragile.
Così come si è in assenza di studi accurati
sui potenziali danni che possono arrecare le diverse tipologie
di social. Interessante, o problematico se si preferisce,
sono anche le testimonianze di ex dirigenti delle maggiori
piattaforme social che hanno testimoniato come le principali
aziende big-tech siano in possesso di dati riservati sulle
potenziali conseguenze che tali piattaforme arrecano ai
giovani ma che nessuna azione normativa sia stata adottata
per salvaguardare la salute ed il benessere degli utenti.
Per
il momento ci si muove su un piano faidate, siamo quasi
ai consigli della nonna: eliminare i profili non più
utilizzati, installare app che permettono di gestire il
tempo dedicato all’uso del device, ripulire la lista
contatti da quelli che definiamo fastidiosi, disattivare
le notifiche. Se si tiene presente che ogni volta che ci
giunge una notifica si impiega circa 64 secondi per recuperare
la concentrazione è facile calcolare in una sola
settimana circa 8-9 ore medie “liberate” da
dedicare a se stessi ed ad attività sicuramente più
proficue e produttive.
Un
mezzo ideato e propagandato come strumento social con l’andar
del tempo sembra rivelare la sua natura isolante ed anti-sociale,
a tal punto da necessitare, sistematicamente forse, di un
periodo di social detox (allontanamento dai social media)
o addirittura di digital detox (abbandono progressivo dei
device capaci di catturarci allo schermo per troppe ore
al giorno).
Interessante
la posizione del professore Cal Newport che ci invita a
riflettere sul perché si continua a considerare questi
strumenti come inevitabilmente necessari nella nostra esperienza
civile e professionale e ad abbracciare il minimalismo digitale,
intendendo con esso: “una filosofia di utilizzo della
tecnologia che prevede la scelta accurata di un numero ristretto
di attività digitali (app, siti, servizi online)
che siano in linea con i nostri valori e l’eliminazione
volontaria di tutto il resto”.
Clemente Porreca
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