FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2016

 
 

Londra e New York hanno in comune una qualità importante: l'abitudine alla convivenza fra gruppi e culture diverse – Purtroppo il melting pot che ha fatto la fortuna delle due metropoli non funziona in provincia, e anche questo accomuna Gran Bretagna e Stati Uniti – Ecco una puntuale conferma della Legge di Cameron – Il poeta c'insegna come procedere attraverso la parabola del dribbling, conservando il possesso del pallone

 

disegno di Bebe

In una notte
 
ci sono mille notti:
 
«Le Mille e una notte»…
 
That is the question.

 

 

Se è in testa “Remain”, Federico Rampini precipitevolissimevolmente dall’America attesta:

 

 

          NEW YORK E LONDRA GEMELLE SENZA PAURA

 

Qui in America con il no a Trump, in Europa con il sì alla UE, le grandi città sono sempre più simili. Per il coraggio di puntare sul futuro

 

Per noi newyorchesi una sola metropoli al mondo è paragonabile alla nostra. Per dimensioni, varietà, vitalità culturale, ma anche per la vocazione al business e alla finanza, Londra è “la gemella rivale”. Qui in America non ci sono città così simili alla Grande Mela: Los Angeles ha tanto sole, mare e cinema; San Francisco è piccina, carina e hi-tech; Washington ruota attorno alla politica e basta.

Ora emerge un’altra somiglianza. Londra ha votato per rimanere nell’Unione europea. Non ha mai condiviso gli slogan anti-immigrati della campagna Brexit. New York è una delle città meno razziste d’America, non è qui che Donald Trump può fare il pieno di voti promettendo di espellere 11 milioni di immigrati. Il paragone ha un valore più generale. Analizzando la mappa del voto Brexit in Gran Bretagna, e le roccaforti del consenso a Trump negli Stati Uniti, emerge questo dato: dove ci sono più immigrati, lì fanno meno paura. Le sacche del risentimento e della xenofobia sono situate in un’America profonda che di stranieri ne ha relativamente pochi. Qui a New York ma anche a San Francisco e Los Angeles, metropoli multietniche dove noi bianchi siamo ormai minoranza (40% i bianchi definiti “caucasici”, di origini europee, esclusi cioè i latinos), i flussi migratori non provocano reazioni di rigetto.

Le spiegazioni? La prima è semplice: noi che ne abbiamo così tanti, sappiamo apprezzare il ruolo benefico degli immigrati. Sappiamo che l’economia di New York o di Londra si fermerebbero senza di loro: dai ristoranti agli alberghi, dall’edilizia agli ospedali. Camerieri o fattorini, scienziati o medici, gli stranieri ci circondano dalla mattina alla sera, è assurdo pensare di sopravvivere senza di loro. Abbiamo anche la dimostrazione almeno qui a New York di cui posso parlare con certezza che l’aumento degli immigrati non fa salire la criminalità. La Grande Mela ne ha assorbiti un milione in più nell’ultimo decennio, e i reati hanno continuato a scendere: vivo in una città più multietnica e al tempo stesso più sicura di vent’anni fa. Dunque, se li conosci davvero, ti fanno meno paura. New York e Londra hanno elaborato un “software” della convivenza civile, un capitale sociale che fluidifica l’integrazione e riduce il potenziale minaccioso dell’“invasione straniera”.

Una variante di questa spiegazione allarga lo sguardo alla storia. New York stratifica generazioni successive di immigrati. Un ruolo importante lo ebbero gli ebrei, accorsi qui perché la Germania li sterminava e l’Europa non li voleva. La comunità ebraica, anche dopo essersi integrata, affermata sia in termini di potere che di successo economico, non dimentica le proprie origini e il passato. Una delle ragioni per cui New York è politicamente a sinistra, molto liberal, sta nell’orientamento della sua componente jewish: respinge la xenofobia anche quando le vittime sono gli altri. Un riflesso simile si è verificato più di recente con gli asiatici. Pur essendo mediamente ricchi (il loro reddito è superiore a quello dei bianchi) gli “asian-american” nel 2012 votarono per Barack Obama con percentuali altissime, paragonabili ai neri. Nel caso degli asiatici la ragione è la stessa che per la comunità ebraica: anche se oggi stanno bene, non vogliono dimenticare un passato in cui gli “indesiderati” erano loro.

Come spiegare invece il successo di Brexit nella provincia inglese, o di Trump in certe aree degli Stati Uniti che sono ancora molto bianche? Una ragione è semplice. “Quelli” non vogliono diventare più simili a New York e Londra. I provinciali che affluiscono qui in vacanza e passeggiano coi naso all’insù fra Times Square e il nuovo World Trade Center, vanno la sera a un musical di Broadway, girano in bici a Central Park, se ne tornano a casa loro come se fossero stati in un Paese straniero: divertiti dall’esperienza, ma contenti di ritrovare le loro certezze, le loro sicurezze, i luoghi e i volti familiari. Il caos newyorchese li diverte come un giro sulle montagne russe, ma non hanno nessuna voglia di viverci, sulle montagne russe. La “seconda transizione demografica”, com’è stato definito l’impatto trasformativo delle nuove migrazioni, la vogliono tenere lontana da casa loro.

Magari fosse andata così! Ma la fantastica è anche una realistica che potrebbe lacerare il continente con disuguaglianze e conflitti destinate ad essere regolate dalla Legge di Cameron:

“Se preparato con la dovuta incoscienza, lo scenario peggiore trova sempre il modo di diventare realtà”.

 E fu “Brexit”.

             Dribbling

  

Il poeta dice
qualche parola / spine
grosse di anima / misero raccolto di un’annata / le lucciole non ancora /
soltanto il cielo / e i sogni gialli del grano quando
dorme / accarezzare /
guarire / nell’aria grande
della Manica? (…si fa per dire!) con finte e piccoli tocchi
conservando il possesso del pallone.

                                                          Filippo Nibbi 
                                         

    


                                                  

 
 

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