Centinaia
di milioni di “amici”, e ogni giorno decine di
migliaia di nuove registrazioni – Lo straordinario
sviluppo di un seme gettato nella Harvard University - È
la “rete nella rete”, uno strumento di comunicazione e
condivisione dalle formidabili potenzialità – Una
realtà in buona parte, ma non soltanto, giovanile che
smentisce il luogo comune della gioventù chiusa in se
stessa – E apre una prospettiva di globalizzazione
finalmente positiva
Facebook,
il grande social network, è continuamente oggetto di
dibattito e critica. É qualcosa che ha rivoluzionato il
senso di vivere sociale, partendo dalle generazioni più
giovani, che lo acquisiscono come naturalmente proprio, ed
estendendosi gradualmente come abitudine anche tra coloro
alla cui formazione era estraneo un simile assetto sociale.
Si
fa un gran parlare del carattere virtuale delle relazioni
comunitarie che si istaurano tramite i mezzi tecnologici, ma
questa, come fa notare Guido
Martinotti, studioso e professore di Sociologia urbana,
è una contraddizione in termini, dal momento che ogni
comunità, per definizione, è composta di soggetti umani
reali.
Come
sottolinea il professore, siamo legati a un’idea piuttosto
banale della rete, che la raffigura come demolitrice delle
relazioni umane “vere”. Da molte ricerche sociologiche
emerge invece il fatto che mezzi di questo tipo non facciano
che incoraggiare i rapporti tra le persone.
Facebook
nasce da un’idea di Mark
Zuckerberg, destinato in origine ad essere utilizzato solo
dagli studenti di Harvard. Adesso conta centinaia di milioni
di utenti nel mondo, con decine di migliaia di nuove
registrazioni al giorno. La filosofia diffusa dal social
network è quella del Web
2.0, caratterizzata dallo sviluppo di una dimensione sociale
basata su una gestione autonoma della rete e mirata, tra
l’altro, alla condivisione.
Facebook
è generalmente parte integrante della vita di chi vi è
iscritto, che tende a connettersi più volte al giorno e a
rendere pubblici, tra le persone che ha elencato come
amiche, numerosi aspetti della propria quotidianità.
Spesso, nella geniale “bacheca”, vengono pubblicati gli
impegni, le azioni del soggetto durante la giornata, i suoi
pensieri relativamente a questa o quella questione, le sue
emozioni, perfino. Si assiste alla costituzione di una
nuova, allargata, intimità, che si articola nella
condivisione di canzoni, parole, immagini, cause pubbliche.
Questo è molto incoraggiante e sufficiente a demolire la
visione diffusa e riduttiva di una gioventù chiusa in se
stessa e refrattaria al dialogo e alla coesione per degli
ideali.
Il
primo argomento opponibile a questa tesi è quello della
banalità che spesso caratterizza l’esposizione delle
cause, degli ideali condivisi. Ma questo non è qualcosa le
cui radici siano da ricercarsi nella rete o nei suoi
processi, quanto in tutto ciò che precede la “bacheca”:
nelle falle dell’istruzione e della cultura, intesa nel
suo senso più ampio.
Si
potrà poi opporre una discussione riguardo al grado di
realismo dei “profili” personali costruiti dai soggetti
nel social network. Vi è in effetti la possibilità di
gestire con una certa libertà l’immagine di sé da dare
agli altri.
Ricordiamo
però che la connessione in rete è il più delle volte
integrata col mondo della vita quotidiana; è infatti emerso
da ricerche sociologiche, come per esempio quelle degli
studiosi Lampe,
Eleison e Steinfield, che l’utilizzo di Facebook
come mezzo di approfondimento di relazioni nate
nell’ambito di una “realtà fisica” è molto più
frequente di quello che lo rende strumento di conoscenze
ex-novo.
E che non sia un importante passo di consapevolezza, quello
di costituire materialmente un’immagine di sé da porgere
alla società, tramite l’organizzazione della pagina
personale? Non può forse essere un importante momento di
coscienza di sé, in un’epoca in cui tutto tende ad essere
così mutevole e sfuggente?
Che
il grande successo di Facebook e dei social network in
genere sia da ricercarsi anche nella possibilità che
offrono di avere uno spazio “sicuro” (che si oppone alla
rapidità e all’instabilità che caratterizzano il
possesso di spazi fisici), personale, democraticamente
accessibile a un’enorme fetta di popolazione?
Non
è forse ciò che fa ogni artista, rappresentare se stesso,
non pretendiamo forse di trovare nell’arte la più intima
essenza del suo ideatore, non fa forse parte, anche
l’organizzazione della pagina personale in rete, del
magnifico processo di democratizzazione dell’arte che è
attualmente in corso? Non è anche interessante, sotto il
profilo comunitario nella prospettiva delle necessarie,
crescenti, dimensioni politiche sovrannazionali,
l’esistenza di un luogo virtuale comune a persone che
abitano in zone e situazioni molto diverse, in cui ci sia
spazio per la personalità dell’individuo? Non è
un'interessante forma di globalizzazione che non annienta la
personalità?
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Laura Venturi
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