FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2010

 
 

Una situazione che si trascina da anni e che i tagli all’istruzione hanno pesantemente aggravato – Gli insegnanti senza concrete prospettive di lavoro fra gli animatori delle proteste che hanno accompagnato l’inizio dell’anno scolastico – Proteste ormai fisiologiche, commenta il ministro Maria Stella Gelmini: a ogni ripresa autunnale si riempiono le piazze – Un grande problema statistico che è la risultante di migliaia di penosi problemi personali e familiari

 

Precarius è una parola latina che deriva da prex, preghiera. Voleva dire, infatti, ottenuto grazie alla preghiera. Ma in italiano il significato del termine si è precisato nel senso dell’instabilità dell’insicurezza, della provvisorietà. I suoi sinonimi sono incerto, dubbio, transitorio, momentaneo, revocabile. Tutte categorie attorno alle quali è assai difficile, se non impossibile, costruire una prospettiva di vita. Per esempio farsi una famiglia, mettere al mondo dei figli. Il precario vive alla giornata, aspetta e non fa progetti. “Del doman non v’è certezza”, cantava Lorenzo il Magnifico invitando a spassarsela fin che il sangue della giovinezza pulsa nelle vene: ma questa edonistica visione rinascimentale sarebbe difficilmente applicabile, oggi, a quella sventurata classe professionale che si riconosce nella condizione del precariato. Una classe anche troppo rappresentata nel corpo docente della scuola italiana. Insegnanti a mezzo servizio che per anni si sono illusi di scalare progressivamente la montagna dell’incarico di ruolo e che oggi, tartassati dai tagli alla spesa pubblica, vivono letteralmente nel panico.

Sono proprio loro ad animare i cortei di protesta che hanno accompagnato l’avvio del nuovo anno scolastico. Nella sua consueta conferenza stampa il ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini ha espresso solidarietà nei loro confronti, ma ha precisato che sarebbe impossibile “assumere duecentomila precari”, e che del resto la responsabilità del problema va indietro negli anni e compete dunque ad altre amministrazioni. Certo i precari facevano comodo quando l’elasticità della loro condizione permetteva di affrontare le sfide della crescente scolarizzazione. Ma poi sono emerse due esigenze complementari: ridurre il bilancio della scuola, come parte di una politica di austerità che mortifica l’insieme della spesa pubblica, e portare a livelli fisiologici il rapporto studenti-docenti, oggi squilibrato nel senso che i docenti sarebbero troppi. Dunque: classi più numerose, meno insegnanti complementari, come quelli di sostegno, e i precari si mettano il cuore in pace. Per loro meno lavoro, o niente lavoro, in attesa del lentissimo scorrimento delle graduatorie.

È piuttosto asettico questo modo di vedere la questione. Ma proviamo a frammentarla nella realtà personale e familiare delle migliaia di singoli casi. Prendiamo per esempio il caso di Euristeo Ceraolo, un docente che proviene dalla Calabria (i due terzi dei precari sono originari del Sud) e lavora all’istituto tecnico per geometri di Cesena. Fino a un anno fa il professor Ceraolo insegnava con incarico annuale e dunque riusciva in qualche modo a far quadrare i conti. Ma quest’anno ci sono stati i tagli, e così dovrà accontentarsi di ventisei giorni di supplenza. Ventisei giorni, quaranta euro al giorno: impossibile andare in albergo, o prendere in affitto una camera per una durata così ridotta. Per questo ha piantato una tenda davanti alla scuola e vi si è accampato. Naturalmente i colleghi gli hanno offerto subito ospitalità nelle loro case, ma la loro solidarietà per quanto preziosa non cancella l’amarezza né la frustrazione di un professionista umiliato.

La protesta di Ceraolo ha fatto notizia, così come quella di altri precari che hanno scelto lo sciopero della fame. O quella dei docenti che a migliaia sono sfilati in corteo e hanno riempito le piazze nelle manifestazioni che ormai ritualmente accompagnano ogni inizio di anno scolastico. Le proteste ci sono sempre state, fa notare il ministro Gelmini, anche con altri governi. È certamente vero, ma questo non toglie che il precariato della scuola meritava qualcosa di più che uno stringersi nelle spalle richiamandosi alle ristrettezze del bilancio, che del resto chiamano in causa risapute considerazioni sulle reali priorità della spesa. Coloro che negli anni hanno maturato diritti, non possono rassegnarsi a vederli sacrificati sull’altare dell’austerità. Né ridursi a riconsiderare l’antico significato latino del termine che li definisce, e non poter fare altro che rifugiarsi nella preghiera.

                                                          l. v. 
                                         

    


                                                  

 
 

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