Una
situazione che si trascina da anni e che i tagli
all’istruzione hanno pesantemente aggravato – Gli
insegnanti senza concrete prospettive di lavoro fra gli
animatori delle proteste che hanno accompagnato l’inizio
dell’anno scolastico – Proteste ormai fisiologiche,
commenta il ministro Maria Stella Gelmini: a ogni ripresa
autunnale si riempiono le piazze – Un grande problema
statistico che è la risultante di migliaia di penosi
problemi personali e familiari
Precarius
è una parola
latina che deriva da prex, preghiera. Voleva dire, infatti, ottenuto grazie alla
preghiera. Ma in italiano il significato del termine si è
precisato nel senso dell’instabilità dell’insicurezza,
della provvisorietà. I suoi sinonimi sono incerto, dubbio,
transitorio, momentaneo, revocabile. Tutte categorie attorno
alle quali è assai difficile, se non impossibile, costruire
una prospettiva di vita. Per esempio farsi una famiglia,
mettere al mondo dei figli. Il precario vive alla giornata,
aspetta e non fa progetti. “Del doman non v’è
certezza”, cantava Lorenzo il Magnifico invitando a
spassarsela fin che il sangue della giovinezza pulsa nelle
vene: ma questa edonistica visione rinascimentale sarebbe
difficilmente applicabile, oggi, a quella sventurata classe
professionale che si riconosce nella condizione del
precariato. Una classe anche troppo rappresentata nel corpo
docente della scuola italiana. Insegnanti a mezzo servizio
che per anni si sono illusi di scalare progressivamente la
montagna dell’incarico di ruolo e che oggi, tartassati dai
tagli alla spesa pubblica, vivono letteralmente nel panico.
Sono
proprio loro ad animare i cortei di protesta che hanno
accompagnato l’avvio del nuovo anno scolastico. Nella sua
consueta conferenza stampa il ministro dell’istruzione
Maria Stella Gelmini ha espresso solidarietà nei loro
confronti, ma ha precisato che sarebbe impossibile
“assumere duecentomila precari”, e che del resto la
responsabilità del problema va indietro negli anni e
compete dunque ad altre amministrazioni. Certo i precari
facevano comodo quando l’elasticità della loro condizione
permetteva di affrontare le sfide della crescente
scolarizzazione. Ma poi sono emerse due esigenze
complementari: ridurre il bilancio della scuola, come parte
di una politica di austerità che mortifica l’insieme
della spesa pubblica, e portare a livelli fisiologici il
rapporto studenti-docenti, oggi squilibrato nel senso che i
docenti sarebbero troppi. Dunque: classi più numerose, meno
insegnanti complementari, come quelli di sostegno, e i
precari si mettano il cuore in pace. Per loro meno lavoro, o
niente lavoro, in attesa del lentissimo scorrimento delle
graduatorie.
È
piuttosto asettico questo modo di vedere la questione. Ma
proviamo a frammentarla nella realtà personale e familiare
delle migliaia di singoli casi. Prendiamo per esempio il
caso di Euristeo Ceraolo, un docente che proviene dalla
Calabria (i due terzi dei precari sono originari del Sud) e
lavora all’istituto tecnico per geometri di Cesena. Fino a
un anno fa il professor Ceraolo insegnava con incarico
annuale e dunque riusciva in qualche modo a far quadrare i
conti. Ma quest’anno ci sono stati i tagli, e così dovrà
accontentarsi di ventisei giorni di supplenza. Ventisei
giorni, quaranta euro al giorno: impossibile andare in
albergo, o prendere in affitto una camera per una durata così
ridotta. Per questo ha piantato una tenda davanti alla
scuola e vi si è accampato. Naturalmente i colleghi gli
hanno offerto subito ospitalità nelle loro case, ma la loro
solidarietà per quanto preziosa non cancella l’amarezza né
la frustrazione di un professionista umiliato.
La
protesta di Ceraolo ha fatto notizia, così come quella di
altri precari che hanno scelto lo sciopero della fame. O
quella dei docenti che a migliaia sono sfilati in corteo e
hanno riempito le piazze nelle manifestazioni che ormai
ritualmente accompagnano ogni inizio di anno scolastico. Le
proteste ci sono sempre state, fa notare il ministro Gelmini,
anche con altri governi. È certamente vero, ma questo non
toglie che il precariato della scuola meritava qualcosa di
più che uno stringersi nelle spalle richiamandosi alle
ristrettezze del bilancio, che del resto chiamano in causa
risapute considerazioni sulle reali priorità della spesa.
Coloro che negli anni hanno maturato diritti, non possono
rassegnarsi a vederli sacrificati sull’altare
dell’austerità. Né ridursi a riconsiderare l’antico
significato latino del termine che li definisce, e non poter
fare altro che rifugiarsi nella preghiera.
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l. v.
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