Riflessioni
in margine al festival della filosofia, di sui si è
svolta recentemente la nona edizione nelle sedi
tradizionali di Modena, Carpi e Sassuolo – Una
manifestazione ormai affermata, capace di attrarre un
pubblico incredibilmente assortito, non escluse le
scolaresche – Il tema di quest’anno era la comunità,
cioè precisamente il destinatario di un’iniziativa il
cui carattere di spettacolarità non è altro, in fondo,
che un falso problema
Il
18, 19 e 20 settembre si è tenuta la nona edizione del
celebre festival modenese della filosofia. Nelle sedi di
Modena, Carpi e Sassuolo ben centocinquantamila persone si
sono mosse tra lezioni tenute da grandi filosofi italiani e
stranieri, spazi affidati ad artisti di varia natura,
esposizioni, mostre e attività di intrattenimento. Davvero
numerosi i frammenti di società coinvolti nell’evento che
quest’anno si è concentrato proprio sul tema della
“comunità”. Il pubblico era incredibilmente vario per
età e apparenza. Molti anche i giovani e i giovanissimi
accompagnati da professori o genitori.
Un
panorama complessivo, questo, che fa piacere osservare,
stanchi di sentire parlare del disinteresse delle masse alla
cultura così continuamente da darlo ormai segretamente per
scontato. La folla riunita in piazza sotto gli amplificatori
era qualcosa che svegliava sensibilmente e positivamente
l’entusiasmo umano per la partecipazione, entusiasmo che
si respirava e che ha reso il dinamismo uno dei caratteri
fondamentali della manifestazione.
Spettacolo
o cultura? E’ naturale chiederselo. In questi anni si fa
un gran parlare di blockbuster, termine utilizzato per
designare qualcosa che riscontri grande consenso popolare e
che generi consumo. E Eva Illouz a Sassuolo ci parla del
governo delle emozioni, delle emozioni che i media tendono a
ordinare in un repertorio culturale comune. Emozioni che,
quindi, finiscono col vedere neutralizzate le proprie
sfumature (si pensi all’insistenza di Kundera sul concetto
di kitsch, che non è altro che massificazione e
appiattimento del sentimento e, quindi, delle idee e che si
traduce in alienazione e sottomissione).
Ma
l’evento culturale di massa, per definizione, trae a sé
anche occhi che altrimenti starebbero alla larga
dall’oggetto in questione. Generalmente l’oggetto
presentato ha la medesima dignità che avrebbe in un altro
contesto. Quindi il problema sta eventualmente nel modo in
cui l’occhio può essere indotto ad osservare piuttosto
che nell’oggetto in sé.
É
una delicatissima trama di interazioni. Comunque
sembra valga la pena correre il rischio. Per risolvere il
problema bisognerebbe poter educare lo sguardo. Cosa, se non
l’oggetto culturale può farlo? E come, se non con una
apertura della cultura alle masse, perché no, in modo
spettacolare anche.
Sono
molti i musicisti che hanno scoperto la propria vocazione da
piccoli avendo avuto occasione di ascoltare soltanto musica
pensata in termini di consumo. Quindi accantoniamo ora il
problema della percentuale di spettacolarità della cosa.
Le
esposizioni erano estremamente interessanti e in linea con
il dinamismo della manifestazione e con il suo carattere di
accessibilità (in piazza non distributori di sigarette, ma
distributori di libretti con il sunto di lezioni risalenti
alle scorse edizioni del festival).
La
comunità, che, come detto, è stata tema delle giornate
artistico-filosofiche, non può che fondarsi proprio su
quelle basi di filantropia e sensibilità che l’approccio
alla cultura sviluppa tanto efficacemente. E poi succede che
il ragazzo in autobus abbia la sensibilità di vedere, di
capire il riposo del compagno di viaggio e quindi di
abbassare il volume delle cuffie. (Perché probabilmente non
è un problema di rispetto nel senso generalmente inteso,
quanto di comprensione, di empatia, di sensibilità). E poi
succede che l’imprenditore ci pensi due volte prima di
costruire stabili che non siano sicuri.
Il tema della comunità sembrava
perfettamente collimare con il senso sociale del tipo di
organizzazione del festival.
Laura
Venturi
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