I
problemi non mancano: dalla condizione dei docenti precari
alla controversa questione del maestro unico e del tempo
pieno, fino a una presenza crescente di alunni stranieri
che conferma ancora una volta la sfida, tipica di questa
fase storica, dell’incombente società multiculturale
– Ma in testa a tutti i problemi, al solito, c’è
l’insufficienza delle risorse disponibili – O per
meglio dire il loro uso non esattamente ottimale – A
quando la presa di coscienza della centralità della
scuola?
Quello che si è appena iniziato è il
centoquarantanovesimo anno scolastico dell’Italia unita,
il sessantacinquesimo dell’Italia democratica, il nono del
nuovo secolo e del nuovo millennio. È partito con il
tradizionale caloroso augurio del presidente Giorgio
Napolitano e con l’impegno del ministro Mariastella
Gelmini di perseguire e premiare il merito. È partito,
anche, con la spettacolare manifestazione degli insegnanti
precari incatenati davanti al ministero di Viale Trastevere,
con cortei di protesta contro le risorse sempre più scarse,
con una polemica dai toni asperrimi fra sindacati e governo,
fra opposizione e maggioranza. È partito, perfino,
nell’incertezza e nell’allarme suscitati da una
dichiarazione quanto meno avventata del sottosegretario alla
sanità: la prospettiva dell’epidemia d’influenza suina,
aveva detto Ferruccio Fazio, potrebbe indurci a rinviare
l’apertura delle scuole. Prontamente richiamato dal suo
stesso governo, Fazio ha subito rettificato: era
un’ipotesi estrema…
Dunque la scuola ha riavviato i motori, i quasi otto
milioni di alunni degli istituti statali elementari e
secondari hanno ripreso il loro posto nei banchi, gli
insegnanti sono di nuovo alle prese con i mille problemi
connessi con il loro lavoro così prezioso e così
sottostimato. Come sempre sapranno svolgerlo, nella
maggioranza, con il massimo di efficacia consentita dal
contesto in cui devono operare. Anche senza considerare i
limiti mortificanti delle retribuzioni, con certo tali da
assicurare ai docenti il prestigio sociale cui hanno
diritto, è un contesto in cui il precariato rischia, nella
migliore delle ipotesi, di rimanere tale, in cui servizi
essenziali come il sostegno ai disabili o l’assistenza
linguistica agli alunni stranieri non sono affrontati da
organici sufficienti, in cui la stessa edilizia vede troppo
spesso rinviati, per ragioni di bilancio, interventi di
provata urgenza.
Attorno a questo universo scolastico percorso da tante
inquietudini si è sviluppato un dibattito dai toni polemici
insolitamente accesi, con reciproche accuse di pura
propaganda o falsa informazione fra opposizione politica e
sindacati da una parte, maggioranza parlamentare e governo
dall’altra. C’è qualcosa di mortificante in tutto
questo: è mai possibile che nemmeno la scuola possa godere
di un approccio non condizionato dall’appartenenza
politica? Lo scambio di opinioni è davvero disarmante per
la mancanza persino ostentata di un minimo di sintonia: per
esempio il ministro Gelmini fa sapere che l’introduzione
del maestro unico piace alla maggioranza delle famiglie, il
suo predecessore Giuseppe Fioroni obietta che l’approvano
solo due genitori su cento. Il ministro dice che il tempo
pieno è stato potenziato, l’opposizione accusa che in
realtà si spaccia per tempo pieno il semplice doposcuola,
che tempo pieno non è.
La Gelmini promette un tetto del 30 per cento di
stranieri in ogni singola classe, i sindacati degli
insegnanti fanno notare che in non poche classi si supera
addirittura, in alcuni casi di molto, il vecchio tetto del
50 per cento. Del resto è certamente opportuno che si curi
questo aspetto della presenza di alunni immigrati, ma non è
soltanto così che si risolve il problema. Bisogna che quei
ragazzi, soprattutto quelli di recente arrivo nel nostro
paese, siano aiutati a superare la barriera della lingua. E
intendiamoci: non soltanto loro. Qualunque cosa dicano gli
intolleranti schierati sulla linea del Piave, il problema di
un’accettabile conoscenza dell’italiano non riguarda
soltanto gli stranieri. Ci sono anche molti nostri piccoli
connazionali, provenienti da contesti disagiati, che la
nostra lingua la masticano a malapena. Anche loro,
ovviamente, vanno aiutati a superare l’handicap. E poi
tutti quanti stimolati all’abitudine della lettura.
Altrimenti continueremo a produrre matricole universitarie
che nei test d’ingresso rivelano di non sapere che cosa
diavolo vogliano dire parole come procrastinare, o
velleitario.
Tutto questo chiama in causa il problema delle
risorse, che sono insufficienti e addirittura calanti. Anche
qui si mobilitano contrastanti categorie mentali: da una
parte si parla di tagli, dall’altra di razionalizzazione
della spesa. Nelle statistiche comparate internazionali il
sistema italiano figura fra gli ultimi posti in fatto di
rendimento, ma non certo in materia di spesa: evidente
indicazione che quei soldi vengono spesi male. Il fatto è
che la spesa andrebbe non solo razionalizzata, ma anche
aumentata, perché le esigenze di un’istruzione moderna,
multiculturale e orientata al futuro lo impongono. Sembrerà
purtroppo utopistico con i tempi che corrono, ma bisogna che
la società italiana, e il potere amministrativo e politico
che essa esprime, prendano finalmente coscienza
dell’assoluta centralità del sistema educativo.
Altrimenti dovremo rassegnarci a una scuola che, come tanti
anni fa diceva il maestro televisivo Alberto Manzi, “ha un
solo problema, i ragazzi che perde”.
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Alfredo Venturi
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