FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2007

 
 

I ricordi di una donna che visse bambina a stretto contatto con un penitenziario – Trovava inaccettabile il trattamento cui erano sottoposti i detenuti e per questo li aiutava: per esempio impiegando i suoi risparmi per regalare sigarette, o accettando di imbucare lettere aggirando la censura – Dalla sua esperienza ha tratto una morale: il carcere è una risposta impropria alla delinquenza, frutto avvelenato di una società incapace di capire, di vedere, di aiutare, di amare

 

Sorridono gli occhi piccoli vivacissimi di questa bambina di più di settanta anni. La guardo e mentre racconta è proprio lei quella piccola Anna dal cuore grande, più grande di quell’enorme carcere a Porto Azzurro nell’isola d’Elba. Mi spiega che il suo cognome, Postiglione, è retaggio di una dinastia di operatori della posta: il nonno, poi il padre, addetti all’ufficio postale del carcere. E c’era un asino “che era il mio migliore amico, mangiavamo insieme i torsi del cavolo, quando riposava io andavo a fargli compagnia, mio padre aveva bisogno di lui”.

Quando andavo a scuola vedevo passare tanti uomini incatenati ed altri che li trattavano male, ed io cominciai a chiedermi il perché degli uni e degli altri. Mi chiedevo perché a differenza dagli altri bambini quando tornavo a casa dovevo aspettare che una guardia mi aprisse un cancellone enorme e poi lo richiudesse dietro di me… Eravamo sei figli con i genitori e i nonni, ci aiutavamo, si cercavano delle affinità ma io ero diversa, cominciai a fare il doppio gioco e avevo un mondo mio privato. Ero sensibile come una carta assorbente, ogni cosa che vedevo poi dovevo elaborarla, e scrivevo appuntando ogni cosa. Il doppio gioco era nel senso che dentro di me c’era l’adulto accanto alla piccolina”.

A scuola è stato un tormento perché in prima elementare mentre gli altri facevano le aste io leggevo già i libri e la maestra non capiva. Vivevo in una realtà che nessuno di loro conosceva: era il mio segreto. Come quei piccoli grandi favori che facevo ai detenuti, comprare loro le sigarette, un giornale, delle cartoline con i miei risparmi, anche se erano tempi duri per la famiglia. O spedire una lettera senza che passasse la censura…”.

Piccolo angelo dai riccioli rossi, la conoscevano tutti, anche chi non l’aveva mai vista. “Un giorno, mentre tornavo a casa su per la collina, vidi un uomo che scendeva con le valigie in mano, chiaramente era qualcuno che aveva finito di scontare la pena e nel vedermi salire verso quel luogo mi chiese perché andavo lì e come mi chiamavo. Appena udì il mio nome posò le valigie per terra e mi abbracciò”.

Anna racconta che nell’isola il rapporto con i detenuti era una realtà quotidiana. C’erano il fornaio, il fabbro, i cuochi, tutte persone che per buona condotta vivevano quasi liberamente, sia pure sempre sotto il controllo delle guardie. C’era il bibliotecario che le passava di nascosto i libri e c’era anche un distinto professore di latino, era dentro perché aveva ucciso la moglie scoperta con l’amante. “Tutte persone che mi avevano vista crescere, perché allora gli ergastolani stavano dentro almeno trent’anni. Non c’era proprio confidenza, ma un legame fittizio per sopravvivere. Per me era la possibilità di dare una mano. Per una bambina era come un mondo proibito, ho sempre visto i miei genitori chiudere la sera il grosso portone e la porta di casa con il chiavistello, allora io mi chiedevo chi doveva venire per vivere così barricati. Crescendo facevo le mie indagini per capire la vita, e leggevo moltissimo: Tolstoj, Victor Hugo”.

Quando veniva il giorno dei morti e andavamo al cimitero chiedevo a mia mamma perché c’era un campo con delle sepolture segnate soltanto da un sasso, senza un fiore, un niente: quelle erano le tombe dei detenuti, l’immagine di quello scarno cimitero mi è rimasta per sempre impressa. Per questo poi facevo chilometri per imbucare una lettera o prendere delle sigarette, per aiutare chi aveva una pena da scontare, senza infierire come facevano le guardie. Era il mio senso della giustizia e del resto quante volte durante l’occupazione tedesca furono proprio gli stessi detenuti addetti al panificio che di nascosto ci passavano delle pagnotte: sapevano che eravamo sei fratelli e che la fame si faceva sentire”.

Piano piano cominciai a capire il perché di quel luogo, di quella sofferenza, leggevo la storia, la filosofia: avevo scatole di perché, era il mio mondo segreto. Cominciai a capire che cos’era un governo, che dovrebbe fare coma una madre di famiglia e purtroppo non era all’altezza di gestire questo malessere: c’era un vuoto, un vuoto enorme e dicevo a me stessa che avrei dovuto fare qualcosa. Non bisogna sottovalutare i bambini, perché capiscono moltissimo, e soffrono. Penso che i detenuti di un tempo erano diversi da quelli di oggi, così cinici, così spietati, Ricordo i giocattoli bellissimi che mi facevano con mollica e acqua, il poi li regalavo agli altri bambini”.

Le chiedo che idea si sia fatta della carcerazione, se creda alla possibilità di alternative. Anna risponde così: “credo all’educazione, alla cultura, al rispetto, all’amore, queste cose possono impedire che si verifichino certe situazioni. Credo al dialogo, alla dignità,m che deve essere sempre salvata in un essere umano fino all’ultimo giorno di vita. Il carcere è una punizione ridicola. La delinquenza esplode dalle situazioni sociali problematiche: sono quelle che andrebbero curate a livello governativo, se il governo si comportasse come una mamma. Il lavoro può essere una buona soluzione, sotto guida e sorveglianza, ma non in carcere. Perché l’uomo non nasce delinquente ma lo diventa, è quello che ho scoperto crescendo. Perché questa è una società che non sa capire, non sa vedere, non sa aiutare, non sa amare”.

                                                          Marilena Farruggia  

                                         

    


                                                  

 
 

Clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter!

 

Torna al Foglio Lapis ottobre 2007

 

Mandaci un' E-mail!