Sono
passati dieci anni dalla morte del docente televisivo di
“Non è mai troppo tardi” e una mostra a Carpi, nel
quadro del Festival Filosofia, ne ripercorre la singolare
esperienza – Dalla cattedra in un carcere minorile a
quella catodica, che in otto anni portò un milione e
mezzo di italiani alla conquista della licenza elementare
– Nei mesi che precedettero la scomparsa Manzi diede un
contributo prezioso, di consigli e incoraggiamenti, alla
fondazione della Lapis
“Chi s’interessa dell’animo infantile? Chi lo cura?
Chi lo educa? Qualcuno: lo scemo, il pignolo. E gli ridono
dietro, l’allontanano. E quello o cede o cammina solo.
Didattica? E cos’è ‘sta bestia? Attivismo? Sì, delle
mie mani su quelle teste dure…”. Questo sfogo di Alberto
Manzi è contenuto in un testo che risale agli anni
Cinquanta, rimasto inedito fino allo scorso 9 settembre,
quando lo ha pubblicato il quotidiano la Repubblica nel
suo supplemento domenicale, nell’occasione di una mostra
che pochi giorni più tardi è stata inaugurata a Carpi.
Inserita fra le iniziative del Festival Filosofia, la
fortunata manifestazione culturale che si celebra a Modena,
Sassuolo e Carpi, l’esposizione intendeva ricordare, a
dieci anni dalla morte, il mitico maestro che negli anni
Sessanta insegnò a leggere e scrivere a milioni
d’italiani attraverso lo schermo bianco-nero della
televisione.
La trasmissione si chiamava “Non è mai troppo
tardi”, era in programma alle sette di sera, l’ora in
cui rincasava la maggior parte dei lavoratori, e poiché a
questi tempi il televisore non era certo onnipresente come
oggi, era molto seguita soprattutto nei duemila “punti
d’ascolto”: piccole sale televisive allestite in
circoli, bar o sedi pubbliche, nelle quali la fruizione
delle lezioni di Manzi veniva coordinata da volonterosi
maestri locali. In quelle aule improvvisate folle di adulti
che la scuola aveva perduto per strada cercavano di
recuperare il tempo perduto, di mettersi al passo, almeno
sul piano delle competenze alfabetiche, con le esigenze
della società e con la loro dignità di cittadini. Il
successo è nelle cifre: un milione e mezzo di persone si
presentò agli esami di quinta elementare dopo aver studiato
davanti alla cattedra virtuale di Manzi. “Non è mai
troppo tardi” fu premiata dall’Unesco come migliore
trasmissione educativa al mondo.
Eppure sarebbe riduttivo limitare agli otto anni di
questa esperienza televisiva il senso della vita di Manzi.
Il maestro per eccellenza insegnò per quarant’anni. La
sua prima cattedra fu nel carcere minorile di Roma dove lui,
reduce dal duro addestramento del servizio nella fanteria di
marina, dovette conquistarsi a suon di pugni, contro il capo
dei giovanissimi detenuti, il rispetto di quella particolare
scolaresca. Erano una novantina i suoi allievi, e soltanto
due di loro dopo la scarcerazione furono recidivi. La sua
successiva carriera fu costellata da furibonde liti e
continue sospensioni. Si rifiutava di dare voti e giudizi,
servendosi invece della formula “Fa quel che può. Quel
che non può non fa”. Era in perenne polemica contro la
“scuola di oggi, rovina d’un prossimo futuro”, la
scuola degli “ispettori che non ispezionano”, dei
“provveditori che non provvedono”.
Del resto Manzi non si limitò a quella. Laureato in
biologia, oltre che in filosofia, frequentò il Sudamerica
per ragioni di studio ma presto fu catturato, anche laggiù,
dall’esigenza di insegnare. Sempre ai ferri corti con le
autorità scolastiche, per le quali era un pericoloso
sovversivo, disturbava infatti i sonni tranquilli di quella
parte di società che rifiutava ogni cambiamento, ogni
promozione dell’altra parte. Scrisse una quantità di
libri per ragazzi, alcuni dei quali tradotti in molte
lingue, e negli ultimi anni fu sindaco a Pitigliano, un
borgo pittoresco in provincia di Grosseto appollaiato con il
suo castello su uno sperone di tufo.
Fu proprio a Pitigliano che venne a sapere della
nostra Lapis, allora in fase di laboriosa gestazione, e
seppe stimolare la nostra iniziativa con preziosi consigli e
incoraggiamenti. Nonostante la malattia, seguiva con il
consueto entusiasmo i nostri propositi di aggredire la
dispersione scolastica e gli altri mali dell’istruzione. I
dieci anni dalla sua scomparsa sono gli stessi che ci
separano dalla nascita della Lapis, le due ricorrenze sono
per noi inestricabilmente intrecciate, così come un
rimpianto che non cessa e la soddisfazione di quello che
siamo riusciti a fare, di un bilancio provvisorio che Manzi,
ne siamo certi, approverebbe con un’avvertenza: va bene,
ma non basta.
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m. f.
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