FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2007

 
 

Sono passati dieci anni dalla morte del docente televisivo di “Non è mai troppo tardi” e una mostra a Carpi, nel quadro del Festival Filosofia, ne ripercorre la singolare esperienza – Dalla cattedra in un carcere minorile a quella catodica, che in otto anni portò un milione e mezzo di italiani alla conquista della licenza elementare – Nei mesi che precedettero la scomparsa Manzi diede un contributo prezioso, di consigli e incoraggiamenti, alla fondazione della Lapis

 

Chi s’interessa dell’animo infantile? Chi lo cura? Chi lo educa? Qualcuno: lo scemo, il pignolo. E gli ridono dietro, l’allontanano. E quello o cede o cammina solo. Didattica? E cos’è ‘sta bestia? Attivismo? Sì, delle mie mani su quelle teste dure…”. Questo sfogo di Alberto Manzi è contenuto in un testo che risale agli anni Cinquanta, rimasto inedito fino allo scorso 9 settembre, quando lo ha pubblicato il quotidiano la Repubblica nel suo supplemento domenicale, nell’occasione di una mostra che pochi giorni più tardi è stata inaugurata a Carpi. Inserita fra le iniziative del Festival Filosofia, la fortunata manifestazione culturale che si celebra a Modena, Sassuolo e Carpi, l’esposizione intendeva ricordare, a dieci anni dalla morte, il mitico maestro che negli anni Sessanta insegnò a leggere e scrivere a milioni d’italiani attraverso lo schermo bianco-nero della televisione.

La trasmissione si chiamava “Non è mai troppo tardi”, era in programma alle sette di sera, l’ora in cui rincasava la maggior parte dei lavoratori, e poiché a questi tempi il televisore non era certo onnipresente come oggi, era molto seguita soprattutto nei duemila “punti d’ascolto”: piccole sale televisive allestite in circoli, bar o sedi pubbliche, nelle quali la fruizione delle lezioni di Manzi veniva coordinata da volonterosi maestri locali. In quelle aule improvvisate folle di adulti che la scuola aveva perduto per strada cercavano di recuperare il tempo perduto, di mettersi al passo, almeno sul piano delle competenze alfabetiche, con le esigenze della società e con la loro dignità di cittadini. Il successo è nelle cifre: un milione e mezzo di persone si presentò agli esami di quinta elementare dopo aver studiato davanti alla cattedra virtuale di Manzi. “Non è mai troppo tardi” fu premiata dall’Unesco come migliore trasmissione educativa al mondo.

Eppure sarebbe riduttivo limitare agli otto anni di questa esperienza televisiva il senso della vita di Manzi. Il maestro per eccellenza insegnò per quarant’anni. La sua prima cattedra fu nel carcere minorile di Roma dove lui, reduce dal duro addestramento del servizio nella fanteria di marina, dovette conquistarsi a suon di pugni, contro il capo dei giovanissimi detenuti, il rispetto di quella particolare scolaresca. Erano una novantina i suoi allievi, e soltanto due di loro dopo la scarcerazione furono recidivi. La sua successiva carriera fu costellata da furibonde liti e continue sospensioni. Si rifiutava di dare voti e giudizi, servendosi invece della formula “Fa quel che può. Quel che non può non fa”. Era in perenne polemica contro la “scuola di oggi, rovina d’un prossimo futuro”, la scuola degli “ispettori che non ispezionano”, dei “provveditori che non provvedono”.

Del resto Manzi non si limitò a quella. Laureato in biologia, oltre che in filosofia, frequentò il Sudamerica per ragioni di studio ma presto fu catturato, anche laggiù, dall’esigenza di insegnare. Sempre ai ferri corti con le autorità scolastiche, per le quali era un pericoloso sovversivo, disturbava infatti i sonni tranquilli di quella parte di società che rifiutava ogni cambiamento, ogni promozione dell’altra parte. Scrisse una quantità di libri per ragazzi, alcuni dei quali tradotti in molte lingue, e negli ultimi anni fu sindaco a Pitigliano, un borgo pittoresco in provincia di Grosseto appollaiato con il suo castello su uno sperone di tufo.

Fu proprio a Pitigliano che venne a sapere della nostra Lapis, allora in fase di laboriosa gestazione, e seppe stimolare la nostra iniziativa con preziosi consigli e incoraggiamenti. Nonostante la malattia, seguiva con il consueto entusiasmo i nostri propositi di aggredire la dispersione scolastica e gli altri mali dell’istruzione. I dieci anni dalla sua scomparsa sono gli stessi che ci separano dalla nascita della Lapis, le due ricorrenze sono per noi inestricabilmente intrecciate, così come un rimpianto che non cessa e la soddisfazione di quello che siamo riusciti a fare, di un bilancio provvisorio che Manzi, ne siamo certi, approverebbe con un’avvertenza: va bene, ma non basta.

                                                          m. f.  
                                         

    


                                                  

 
 

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