FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2006

 
 

La piaga del lavoro minorile investe soprattutto tre aree continentali: Africa, Asia, America Latina – Globalmente in declino, il problema è invece in fase ascendente nell’Africa subsahariana – Le cause sono molte: dalla povertà di Paesi dove buona parte della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno alle guerre e all’Aids che generano milioni di orfani, fino all’opinione diffusa in certo contesti, secondo cui il lavoro infantile è da considerarsi normale  

 

 

La buona notizia è che il lavoro minorile nel mondo è in declino: fra il 2000 e il 2004 il numero dei bambini (fino ai 14 anni di età) economicamente attivi è infatti diminuito del 10 per cento. La cattiva notizia è che il dato assoluto resta impressionante e umanamente inaccettabile: nonostante questo calo, sono circa 191 milioni i bambini che invece di andare a scuola lavorano nelle miniere, nei campi, nei cantieri, nelle fabbriche o nelle strade, dove sono impegnati nello spaccio di droga, nella vendita ambulante o addirittura nella prostituzione. Il fenomeno è diffuso soprattutto in Asia, in America Latina e in Africa, il suo relativo ridimensionamento si limita alle prime due di queste aree geografiche, mentre nell’Africa subsahariana continua al contrario a crescere. Secondo i dati dell’Ufficio internazionale del lavoro, l’agenzia delle Nazioni Unite che coordina le attività di tutela dei lavoratori nel mondo, nei Paesi africani a sud del Sahara erano attivamente occupati nel 2004 quasi cinquanta milioni di bambini, 1,3 milioni in più rispetto a quattro anni prima.

La maggior parte di loro lavora a tempo pieno, cioè l’intera giornata. Fanno i minatori, gli operai nell’edilizia o nell’agricoltura, i facchini, i domestici, i venditori ambulanti, a volte spacciano droga o sono costretti a prostituirsi. Non sempre i piccoli vengono pagati, se non con la pura sussistenza alimentare. Il fenomeno ha dimensioni macroeconomiche: la Banca mondiale riferisce per esempio che in Kenya, nel 2001, circa un terzo dei raccoglitori di caffè erano bambini. Pensiamoci, quando sorseggiamo il nostro espresso. Ovviamente l’attività lavorativa nella massiccia maggioranza dei casi esclude l’istruzione: i piccoli sono così condannati, oltre che al lavoro forzato, anche all’analfabetismo e dunque a un futuro senza possibilità di riscatto. Privi di ogni forma di tutela sociale, sono spesso vittime di incidenti sul lavoro.

Ci si chiede perché mai l’Africa subsahariana non partecipi alla tendenza mondiale che vede declinare questo fenomeno, sia pure in misura insoddisfacente rispetto alle sue dimensioni. La prima ragione è la povertà: è statisticamente accertato che la diffusione del lavoro minorile è inversamente proporzionale alla prosperità economica delle singole aree prese in esame. Nei Paesi africani a sud del Sahara quasi la metà della popolazione vive con meno di un dollaro al giorno. Un’altra ragione è costituita dalla conflittualità armata, che provoca vittime soprattutto fra gli adulti e quindi produce masse di orfani. Anche l’Aids, una piaga ormai cronica in questa parte del mondo, crea milioni di orfani costretti a lavorare per sopravvivere. Bisogna infine considerare una certa mentalità, assai diffusa nei contesti africani, che vede nel lavoro minorile nient’altro che la norma: si tratta di un costume tradizionale, che affidava ai bambini compiti ausiliari nell’economia del villaggio, e che sopravvive assurdamente nelle nuove realtà metropolitane.

La persistente conflittualità africana è anche all’origine di un aspetto particolarmente penoso del fenomeno, l’arruolamento dei minori nelle milizie armate. Si calcola che ci siano nel mondo circa centomila bambini soldato, la maggior parte dei quali in Africa, un continente che negli ultimi decenni è stato insanguinato da numerosi conflitti. Recentemente Kofi Annan, segretario generale delle Nazioni Unite, ha denunciato il caso del Sudan, dove sia le forze governative sia le tre formazioni militari autonome impegnate nel conflitto del Darfur reclutano a forza i bambini, li addestrano al combattimento e li scaraventano nella mischia, spesso costringendoli all’uso di droghe e a volte sottoponendoli anche ad abusi sessuali. Un’altra situazione di crisi che ha visto dilagare il fenomeno dei bambini soldato è quella dello Sri Lanka.

La comunità internazionale cerca in qualche modo di frenare queste degenerazioni. Esiste un Programma internazionale per l’eliminazione del lavoro infantile che si propone di affrontare il problema puntando sullo sviluppo economico e sul soccorso alle famiglie. La materia è regolata da alcune convenzioni. Come quella sull’età minima per l’accesso al lavoro, che deve coincidere con il pieno sviluppo fisico e intellettuale e in ogni caso non può essere inferiore ai 15 anni (14, eccezionalmente e transitoriamente, per i paesi in via di sviluppo). O come il documento che condanna le “forme peggiori” di sfruttamento infantile, a cominciare  dalla schiavitù fino al reclutamento per i conflitti armati, alla prostituzione, alla produzione di materiale pornografico, al traffico di sostanze stupefacenti. Si tratta di impegni solennemente sottoscritti e ratificati dalla maggior parte dei Paesi, che hanno contribuito a far sì che il fenomeno si sia ridotto. Ma nell’immensa desolazione africana questo non è bastato.

 

                                                                   f. l. 

 

   


                                                  

 
 

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