La
piaga del lavoro minorile investe soprattutto tre aree
continentali: Africa, Asia, America Latina – Globalmente
in declino, il problema è invece in fase ascendente
nell’Africa subsahariana – Le cause sono molte: dalla
povertà di Paesi dove buona parte della popolazione vive
con meno di un dollaro al giorno alle guerre e all’Aids
che generano milioni di orfani, fino all’opinione
diffusa in certo contesti, secondo cui il lavoro infantile
è da considerarsi normale
La buona notizia è che il lavoro minorile nel mondo
è in declino: fra il 2000 e il 2004 il numero dei bambini
(fino ai 14 anni di età) economicamente attivi è infatti
diminuito del 10 per cento. La cattiva notizia è che il
dato assoluto resta impressionante e umanamente
inaccettabile: nonostante questo calo, sono circa 191
milioni i bambini che invece di andare a scuola lavorano
nelle miniere, nei campi, nei cantieri, nelle fabbriche o
nelle strade, dove sono impegnati nello spaccio di droga,
nella vendita ambulante o addirittura nella prostituzione.
Il fenomeno è diffuso soprattutto in Asia, in America
Latina e in Africa, il suo relativo ridimensionamento si
limita alle prime due di queste aree geografiche, mentre
nell’Africa subsahariana continua al contrario a crescere.
Secondo i dati dell’Ufficio internazionale del lavoro,
l’agenzia delle Nazioni Unite che coordina le attività di
tutela dei lavoratori nel mondo, nei Paesi africani a sud
del Sahara erano attivamente occupati nel 2004 quasi
cinquanta milioni di bambini, 1,3 milioni in più rispetto a
quattro anni prima.
La maggior parte di loro lavora a tempo pieno, cioè
l’intera giornata. Fanno i minatori, gli operai
nell’edilizia o nell’agricoltura, i facchini, i
domestici, i venditori ambulanti, a volte spacciano droga o
sono costretti a prostituirsi. Non sempre i piccoli vengono
pagati, se non con la pura sussistenza alimentare. Il
fenomeno ha dimensioni macroeconomiche: la Banca mondiale
riferisce per esempio che in Kenya, nel 2001, circa un terzo
dei raccoglitori di caffè erano bambini. Pensiamoci, quando
sorseggiamo il nostro espresso. Ovviamente l’attività
lavorativa nella massiccia maggioranza dei casi esclude
l’istruzione: i piccoli sono così condannati, oltre che
al lavoro forzato, anche all’analfabetismo e dunque a un
futuro senza possibilità di riscatto. Privi di ogni forma
di tutela sociale, sono spesso vittime di incidenti sul
lavoro.
Ci si chiede perché mai l’Africa subsahariana non
partecipi alla tendenza mondiale che vede declinare questo
fenomeno, sia pure in misura insoddisfacente rispetto alle
sue dimensioni. La prima ragione è la povertà: è
statisticamente accertato che la diffusione del lavoro
minorile è inversamente proporzionale alla prosperità
economica delle singole aree prese in esame. Nei Paesi
africani a sud del Sahara quasi la metà della popolazione
vive con meno di un dollaro al giorno. Un’altra ragione è
costituita dalla conflittualità armata, che provoca vittime
soprattutto fra gli adulti e quindi produce masse di orfani.
Anche l’Aids, una piaga ormai cronica in questa parte del
mondo, crea milioni di orfani costretti a lavorare per
sopravvivere. Bisogna infine considerare una certa mentalità,
assai diffusa nei contesti africani, che vede nel lavoro
minorile nient’altro che la norma: si tratta di un costume
tradizionale, che affidava ai bambini compiti ausiliari
nell’economia del villaggio, e che sopravvive assurdamente
nelle nuove realtà metropolitane.
La persistente conflittualità africana è anche
all’origine di un aspetto particolarmente penoso del
fenomeno, l’arruolamento dei minori nelle milizie armate.
Si calcola che ci siano nel mondo circa centomila bambini
soldato, la maggior parte dei quali in Africa, un continente
che negli ultimi decenni è stato insanguinato da numerosi
conflitti. Recentemente Kofi Annan, segretario generale
delle Nazioni Unite, ha denunciato il caso del Sudan, dove
sia le forze governative sia le tre formazioni militari
autonome impegnate nel conflitto del Darfur reclutano a
forza i bambini, li addestrano al combattimento e li
scaraventano nella mischia, spesso costringendoli all’uso
di droghe e a volte sottoponendoli anche ad abusi sessuali.
Un’altra situazione di crisi che ha visto dilagare il
fenomeno dei bambini soldato è quella dello Sri Lanka.
La comunità internazionale cerca in qualche modo di
frenare queste degenerazioni. Esiste un Programma
internazionale per l’eliminazione del lavoro infantile che
si propone di affrontare il problema puntando sullo sviluppo
economico e sul soccorso alle famiglie. La materia è
regolata da alcune convenzioni. Come quella sull’età
minima per l’accesso al lavoro, che deve coincidere con il
pieno sviluppo fisico e intellettuale e in ogni caso non può
essere inferiore ai 15 anni (14, eccezionalmente e
transitoriamente, per i paesi in via di sviluppo). O come il
documento che condanna le “forme peggiori” di
sfruttamento infantile, a cominciare
dalla schiavitù fino al reclutamento per i conflitti
armati, alla prostituzione, alla produzione di materiale
pornografico, al traffico di sostanze stupefacenti. Si
tratta di impegni solennemente sottoscritti e ratificati
dalla maggior parte dei Paesi, che hanno contribuito a far sì
che il fenomeno si sia ridotto. Ma nell’immensa
desolazione africana questo non è bastato.
f. l.
|