FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2006

 
 

Le proiezioni di tendenza fanno prevedere entro dieci anni uno storico sorpasso: nella popolazione scolastica americana le minoranze diventeranno maggioranza – Al fenomeno si accompagna un costante aumento numerico, dovuto in parte all’ingresso nell’istruzione pubblica dei figli dei baby boomers, in parte agli apporti delle immigrazioni, soprattutto dall’Asia e dall’America Latina – Il sistema educativo di fronte a una sfida organizzativa senza precedenti  

 

 

Cinquantacinque milioni di ragazzi affollano quest’anno i banchi delle scuole americane: si tratta in assoluto nella cifra più alta nella storia degli Stati Uniti. Il fenomeno è in aumento ormai da molti anni, e si prevede che continuerà a crescere nel prossimo futuro. Secondo le proiezioni statistiche basate sulle tendenze attuali, nel 2014 la popolazione scolastica sarà ulteriormente aumentata di oltre un milione e mezzo, avvicinandosi ai cinquantasette milioni. Ad alimentare questi crescenti afflussi sono soprattutto due fattori: la presenza sui banchi scolastici dei figli delle generazioni del cosiddetto baby boom, che si protrasse fino al 1964, e l’apporto degli immigrati, un flusso impetuoso che proviene in particolare dall’Asia e dall’America Latina.

Come tutti i grandi fenomeni demografici, anche questo è tutt’altro che omogeneo, è anzi nettamente squilibrato. Gli incrementi s’indirizzano infatti prevalentemente verso gli stati del Sud e dell’Ovest, meno densamente popolati e più dinamici dal punto di vista delle prospettive di sviluppo. Mentre infatti si prevede che nel 2014 il Texas avrà aumentato la sua popolazione scolastica del 16 per cento, e il Nevada addirittura del 28, nello stato di New York si registrerà alla stessa scadenza un calo del sei per cento, dell’uno nel Connecticut. In generale la densità demografica, cui quella scolastica è ovviamente connessa, tende a normalizzarsi verso i valori medi riducendo la disparità fra gli stati del New England e del Midwest, storicamente più popolati, e quelli dell’Ovest e del Sud.

Un altro spettacolare riequilibrio in corso riguarda la composizione etnica della popolazione scolastica americana. Nell’ultimo trentennio si registra in merito un’autentica rivoluzione. Nel 1973 il 78 per cento dei ragazzi nelle scuole pubbliche primarie e secondarie erano bianchi, le minoranze nera, ispanica e asiatica non erano dunque che il 22 per cento. Con l’espressione “bianchi” il linguaggio ufficiale degli Stati Uniti designa i cittadini autoctoni non afroamericani e quelli di origine europea. Poco più di trent’anni più tardi, nel 2004, i bianchi si erano ridotti al 57 per cento, le minoranze erano balzate al 47. Proiettando la tendenza, si può prevedere che entro un decennio avverrà il sorpasso, che cioè le minoranze nel loro insieme diventeranno maggioranza, come del resto è già avvenuto in sei stati: California, Hawaii, Louisiana, Mississippi, New Mexico e Texas.

Il New York Times ricorda che poco meno di un secolo fa una commissione di esperti fu incaricata di studiare la popolazione scolastica nel quadro di una campagna volta a limitare le immigrazioni dall’Europa di cattolici ed ebrei. Era il tempo dei grandi flussi migratori e l’America profonda reagiva preoccupata a difesa del tradizionale predominio wasp (white, anglo-saxon, protestant). In una ricerca del 1908 limitata ad alcune grandi città, i ricercatori trovarono che il 58 per cento degli studenti era costituito da ragazzi nati all’estero. Venivano quasi tutti dall’Europa, e oggi sarebbero classificati come bianchi. La situazione attuale è diversa, e presenta la più assortita diversificazione etnica della storia americana. Per la scuola, si tratta di una sfida senza precedenti, che consiste nella necessità di rimuovere gli handicap di apprendimento spesso connessi con la diversità delle origini etniche, linguistiche, religiose.

Un’altra indagine di estremo interesse sulla scuola americana riguarda il rapporto fra rendimento scolastico e impegno civile. Le conclusioni stilate dai ricercatori parlano di un rapporto direttamente proporzionale: i ragazzi di maggior successo a scuola sono anche quelli che partecipano di più alla vita pubblica. O per meglio dire quelli che meno se ne allontanano: poiché la tendenza generale vede un progressivo distacco dei giovani americani (e non soltanto dei giovani, del resto) dall’impegno politico e sociale. Infatti fra i potenziali elettori con diploma di scuola superiore, in fascia d’età giovanile, quelli che votarono nel 1976 furono il 62 per cento, nel 2004 soltanto il 31. Ma all’interno di questa generale disaffezione civica gli analisti scorgono facilmente un vero e proprio fossato che separa coloro che hanno abbandonato la scuola, o l’hanno proseguita faticosamente e con risultati mediocri, da quelli che l’hanno portata agevolmente a termine. I primi non soltanto sono riluttanti ad esercitare il diritto di voto, ma sono anche meno informati, manifestano sfiducia nel prossimo e nelle istituzioni, si negano a quel volontariato che è invece complessivamente in ascesa, ma soltanto grazie ai ragazzi della classe medio-superiore, quelli appunto che a scuola se la cavano meglio.

Sarebbe interessante articolare l’analisi dell’impegno civico sulla base delle differenze etniche così evidenti nella scuola-arcobaleno americana: capire cioè se il ragazzo delle minoranze avverta la necessità di riscattare il proprio eventuale svantaggio di partenza attraverso una maggiore partecipazione pubblica o se al contrario tenda a rifugiarsi nella sua identità marginale. Alimentando così la massa dei giovani che nell’impegno civico non riescono a vedere né un modo di esprimere se stessi né una chiave d’accesso a una società percepita, evidentemente, come estranea o addirittura ostile.

 

 

                                                                   f. s. 

 

   


                                                  

 
 

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