Le proiezioni di tendenza fanno prevedere entro
dieci anni uno storico sorpasso: nella popolazione
scolastica americana le minoranze diventeranno maggioranza
– Al fenomeno si accompagna un costante aumento
numerico, dovuto in parte all’ingresso nell’istruzione
pubblica dei figli dei baby boomers, in parte agli apporti
delle immigrazioni, soprattutto dall’Asia e
dall’America Latina – Il sistema educativo di fronte a
una sfida organizzativa senza precedenti
Cinquantacinque milioni di ragazzi affollano
quest’anno i banchi delle scuole americane: si tratta in
assoluto nella cifra più alta nella storia degli Stati
Uniti. Il fenomeno è in aumento ormai da molti anni, e si
prevede che continuerà a crescere nel prossimo futuro.
Secondo le proiezioni statistiche basate sulle tendenze
attuali, nel 2014 la popolazione scolastica sarà
ulteriormente aumentata di oltre un milione e mezzo,
avvicinandosi ai cinquantasette milioni. Ad alimentare
questi crescenti afflussi sono soprattutto due fattori: la
presenza sui banchi scolastici dei figli delle generazioni
del cosiddetto baby boom, che si protrasse fino al 1964, e
l’apporto degli immigrati, un flusso impetuoso che
proviene in particolare dall’Asia e dall’America Latina.
Come tutti i grandi fenomeni demografici, anche questo
è tutt’altro che omogeneo, è anzi nettamente
squilibrato. Gli incrementi s’indirizzano infatti
prevalentemente verso gli stati del Sud e dell’Ovest, meno
densamente popolati e più dinamici dal punto di vista delle
prospettive di sviluppo. Mentre infatti si prevede che nel
2014 il Texas avrà aumentato la sua popolazione scolastica
del 16 per cento, e il Nevada addirittura del 28, nello
stato di New York si registrerà alla stessa scadenza un
calo del sei per cento, dell’uno nel Connecticut. In
generale la densità demografica, cui quella scolastica è
ovviamente connessa, tende a normalizzarsi verso i valori
medi riducendo la disparità fra gli stati del New England e
del Midwest, storicamente più popolati, e quelli
dell’Ovest e del Sud.
Un altro spettacolare riequilibrio in corso riguarda
la composizione etnica della popolazione scolastica
americana. Nell’ultimo trentennio si registra in merito
un’autentica rivoluzione. Nel 1973 il 78 per cento dei
ragazzi nelle scuole pubbliche primarie e secondarie erano
bianchi, le minoranze nera, ispanica e asiatica non erano
dunque che il 22 per cento. Con l’espressione
“bianchi” il linguaggio ufficiale degli Stati Uniti
designa i cittadini autoctoni non afroamericani e quelli di
origine europea. Poco più di trent’anni più tardi, nel
2004, i bianchi si erano ridotti al 57 per cento, le
minoranze erano balzate al 47. Proiettando la tendenza, si
può prevedere che entro un decennio avverrà il sorpasso,
che cioè le minoranze nel loro insieme diventeranno
maggioranza, come del resto è già avvenuto in sei stati:
California, Hawaii, Louisiana, Mississippi, New Mexico e
Texas.
Il New York Times ricorda che poco meno di un
secolo fa una commissione di esperti fu incaricata di
studiare la popolazione scolastica nel quadro di una
campagna volta a limitare le immigrazioni dall’Europa di
cattolici ed ebrei. Era il tempo dei grandi flussi migratori
e l’America profonda reagiva preoccupata a difesa del
tradizionale predominio wasp (white, anglo-saxon,
protestant). In una ricerca del 1908 limitata ad alcune
grandi città, i ricercatori trovarono che il 58 per cento
degli studenti era costituito da ragazzi nati all’estero.
Venivano quasi tutti dall’Europa, e oggi sarebbero
classificati come bianchi. La situazione attuale è diversa,
e presenta la più assortita diversificazione etnica della
storia americana. Per la scuola, si tratta di una sfida
senza precedenti, che consiste nella necessità di rimuovere
gli handicap di apprendimento spesso connessi con la
diversità delle origini etniche, linguistiche, religiose.
Un’altra indagine di estremo interesse sulla scuola
americana riguarda il rapporto fra rendimento scolastico e
impegno civile. Le conclusioni stilate dai ricercatori
parlano di un rapporto direttamente proporzionale: i ragazzi
di maggior successo a scuola sono anche quelli che
partecipano di più alla vita pubblica. O per meglio dire
quelli che meno se ne allontanano: poiché la tendenza
generale vede un progressivo distacco dei giovani americani
(e non soltanto dei giovani, del resto) dall’impegno
politico e sociale. Infatti fra i potenziali elettori con
diploma di scuola superiore, in fascia d’età giovanile,
quelli che votarono nel 1976 furono il 62 per cento, nel
2004 soltanto il 31. Ma all’interno di questa generale
disaffezione civica gli analisti scorgono facilmente un vero
e proprio fossato che separa coloro che hanno abbandonato la
scuola, o l’hanno proseguita faticosamente e con risultati
mediocri, da quelli che l’hanno portata agevolmente a
termine. I primi non soltanto sono riluttanti ad esercitare
il diritto di voto, ma sono anche meno informati,
manifestano sfiducia nel prossimo e nelle istituzioni, si
negano a quel volontariato che è invece complessivamente in
ascesa, ma soltanto grazie ai ragazzi della classe
medio-superiore, quelli appunto che a scuola se la cavano
meglio.
Sarebbe interessante articolare l’analisi
dell’impegno civico sulla base delle differenze etniche
così evidenti nella scuola-arcobaleno americana: capire cioè
se il ragazzo delle minoranze avverta la necessità di
riscattare il proprio eventuale svantaggio di partenza
attraverso una maggiore partecipazione pubblica o se al
contrario tenda a rifugiarsi nella sua identità marginale.
Alimentando così la massa dei giovani che nell’impegno
civico non riescono a vedere né un modo di esprimere se
stessi né una chiave d’accesso a una società percepita,
evidentemente, come estranea o addirittura ostile.
f. s.
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