FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2005

 
 

Nei ricordi e nelle riflessioni di un maestro sardo, poi passato al ruolo di direttore didattico, la questione del “monopolio” femminile nell’insegnamento elementare – Più indietro, la memoria di una scuola in cui ancora si punivano i bambini facendoli inginocchiare sulla ghiaia, accanto alla cattedra riscaldata da un braciere di carbone – I pochi maestri impegnati a nuotare controcorrente in una marea di maestre – Com’è difficile far coesistere la necessità dell’aggiornamento con l’alibi dell’esperienza

 

Le donne sono la realtà più bella della nostra vita: e più ce n’è meglio è. Ma non nella scuola. Chi scrive ha avuto tre osservatori privilegiati per poterlo constatare: l’età scolare e i due periodi della sua vita trascorsi tra i banchi come maestro elementare e come direttore didattico.

Ha fatto le elementari in un periodo in cui si vedevano pochi supplenti: l’insegnante che avevi ti durava almeno un anno, senza perdere dei mesi scolastici neppure un giorno, perché non c’era malattia che potesse allontanare queste missionarie dell’abc dalla loro cattedra in legno liso con sotto, in inverno, un braciere di carbone vivido e croccante. Cinque anni, cinque maestre. Puntualissime maestre che si chinavano sugli scolari alternando un sorriso a una carezza. Se eri buono. Se eri cattivo, anche solo monello, c’erano piccole scaglie di ghiaia raccolte dal condannato stesso nello stradone (l’asfalto dalle sue parti a quel tempo era di là da venire), da mettere sotto le ginocchia, genuflesse dietro la lavagna. E con quale sorridente perfidia, tutta muliebre, le missionarie della bacchetta, sistemavano con le proprie mani le pietruzze sotto le rotule dei piccoli di uomo in calzoni corti!

A chi scrive questa sorte non toccò mai perché era buono e bello, anche se nero dal sole come una bacca matura d’olivastro. Pare che lo fosse, bello, almeno quanto adesso è brutto. O quasi. Le coccole non riuscirono a rovinarlo perché aveva un padre buono come il pane: ma rude come il pane stesso, quando dopo una settimana diventa duro. Un po’ soldato d’oltremare e un po’ contadino restituito alla terra, per dimostrare al figlio il suo affetto gli dava uno scappellotto ventoso che gli scompigliava i capelli e gli faceva chiudere gli occhi. A scuola, saturo delle attenzioni melense e spersonalizzanti delle maestre, sentiva vera nostalgia di quella rude carezza. Altri compagni non ebbero la stessa fortuna.

Da maestro fu ancora più dura. Bisognava convivere, lui e altri cinque malcapitati maestri, con cinquantadue maestre. Tante ce n’erano nel caseggiato scolastico dov’era arrivato dopo una lunga peregrinazione per gli stazzi della Gallura, costellati di scuolette nuove e da maestrine in continuo pianto di nostalgia, consolate appiccicosamente da alunni e alunne, piagnucolanti anche loro per contagio, che avevano capito quanto fosse più facile improvvisarsi un ruolo da consolatori che quello di studenti volenterosi. A volte era qualcuno più grande, che arrivava a gatta morta e piano piano riusciva a far dimenticare alle maestrine le loro città lontane con altrettanto lontani famigliari, fidanzati e qualche marito. Era sempre meglio di avere a che fare con quelle del caseggiato cittadino.

È difficile dimenticare i pittoreschi collegi dei docenti che iniziavano sempre in ritardo per aspettare le ritardatarie. Arrivavano trafelate portandosi appresso aloni di odorose colazioni imbastite in fretta prima di uscire da casa per i figli più piccoli. Collegi finiti sempre un po’ prima dell’orario prefissato per sconfiggere il tempo di chiusura dei market dove si poteva trovare, senza correre di negozio in negozio, pane, carne, verdure e altri articoli di sopravvivenza domestica.

Scolaresche ridotte al silenzio a suon di “bravi” per i prediletti e “asinoni” per i meno dotati, venivano allineate, un quarto d’ora prima che suonasse la campana dell’uscita, dietro la porta chiusa della classe, per schizzare via nei corridori al primo trillo. I cinque maestri lasciavano le aule per ultimi e raggiungevano piano piano l’uscita chiacchierando con alunni seri e interessati cui veniva dato sempre il tempo di chiarire l’ultimo argomento trattato.

Ma l’esperienza più significativa, il maestro la visse quando, con regolare laurea e concorso di stato, diventò direttore. Contento di andar via dal suo caseggiato per avere a che fare con altra gente e respirare un’altra aria, si trovò di colpo a dirigere le scuole di un paese né vicino né lontano, con l’aggiunta di una corona di “reggenze” che lo rese padrone delle scuole di una diecina di paesi con annesse campagne.

Una marea di maestre di ogni età (all’interno della quale nuotavano controcorrente, ma positivamente dieci maestri, la cui azione doveva rivelarsi alla fine risolutiva) oppose ai consigli del neo direttore, a proposito della necessità di un continuo aggiornamento, di un rapporto affettuoso con gli alunni, ma serio e costruttivo, inteso come volontà di bene, la loro autoconferita “esperienza ”, stella polare ferma e immutabile, buona da seguire in ogni temperie.

Questo dell’esperienza è un triste nodo impossibile da sciogliere. Credersi “sperimentate” è proprio una convinzione al femminile: ed è deleteria nei confronti dei piccoli proprio perché essi capiscono, strano per chi non li conosce profondamente, ma vero, che l’insegnante si dichiara “ sperimentato ” soprattutto per paura di affrontare nuove formule educative, nuovi problemi da risolvere in altri modi al di là da quello imposto da regole refrattarie a qualsiasi ipotesi fallibilista.

Non sono solo questi i pericoli di una scuola troppo femminilizzata. Soprattutto nella contingenza storica che stiamo attraversando in questi anni: così fragile e delicata per una inspiegabile poca attenzione nei confronti dei piccoli di uomo. Ma questo convincimento, fregiato anch’esso dal crisma della fallibilità, potrà offrire lo spunto per ulteriori considerazioni.

 

                                                   Franco Fresi

                                                                                        

 

 
 

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