FOGLIO LAPIS - OTTOBRE - 2005

 
 

In certe proposte di riforma del sistema educativo è visibile una trasparente nostalgia dei tempi andati – C’è chi suggerisce il ritorno alle classi separate fra ragazzi e ragazze, chi addirittura una sorta di apartheid per gli alunni stranieri – Si fa strada persino l’homeschooling, ormai largamente praticato in America – Questi scenari sono in realtà restaurazioni di formule storicamente superate, e nascondono l’incapacità di vedere nella scuola il crogiolo della società

 

A voler parafrasare il poeta c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico in molte discussioni attorno alla scuola. Si propongono a volte innovazioni che sono nient’altro che restaurazioni, ritorni al passato, anche se magari poggiano su accurate documentazioni scientifiche. Per esempio l’idea, elaborata negli Stati Uniti e prontamente rimbalzata in Europa, che il sistema delle classi miste penalizza un po’ tutti, e che separando ragazzi e ragazze si otterrebbero risultati didatticamente migliori. Poiché non sarebbero soltanto i caratteri sessuali primari e secondari a differenziare i due gruppi, ma anche cervelli diversamente organizzati di fronte alla sfida dell’apprendimento, ecco la soluzione ideale: classi di soli maschi, classi di sole femmine.

Ecco finalmente l’insegnamento orientato a sviluppare la capacità maschile di sintesi e la propensione femminile all’analisi, ecco i ragazzi che non reagiscono più con comportamenti aggressivi al confronto con compagne più brave, ecco le ragazze che possono dedicarsi senza complessi d’inferiorità alla matematica, incuranti del fatto che i loro compagni sono meglio portati al calcolo. In America, dove si è provato a dividere sperimentalmente alcune prime classi elementari in base al sesso, si è scoperto che grandi miglioramenti derivano dal permettere per esempio ai bambini di muoversi più liberamente in aula, alle bambine di poter periodicamente chiacchierare fra loro.

Sempre negli Stati Uniti viene proposta un’altra possibile separazione volta a ottenere un migliore rendimento scolastico complessivo: questa volta non in base al sesso ma all’etnia. C’è molto paternalismo in questa ipotesi, ma anche qualcosa di meno presentabile su cui è meglio sorvolare. L’argomentazione è apparentemente ineccepibile: poiché mediamente i piccoli neri o ispanici fanno registrare risultati inferiori a quelli dei loro compagni bianchi o asiatici, perché non separare i percorsi? Perché non adeguare i modi e i ritmi dell’insegnamento a condizioni così diverse, uniformando le classi a seconda dell’appartenenza etnica? Già, perché.

Questa proposta americana è stata in un certo senso ripresa anche in Italia, dove di fronte a un sistema scolastico sempre più massicciamente interculturale è scaturito un suggerimento che apparentemente non fa una grinza: classi apposite nei primi anni di scuola per i piccoli stranieri, che in questo modo potranno più facilmente impadronirsi della lingua e non patire più il confronto con i più agguerriti compagni italiani. La generosità dell’offerta risulta decisamente attenuata se si pensa che la parte politica da cui proviene è la stessa che non perde occasione per attaccare la crescente presenza straniera, cavalcando demagogicamente la paura del terrorismo e l’insofferenza per una criminalità che molto spesso parla l’italiano stentato degli immigrati.

Che dire di queste proposte? Prima di tutto non vogliamo entrare nel merito didattico. Può darsi benissimo che il rendimento didattico venga positivamente influenzato dal costruire gruppi omogenei separando i ragazzi dalle ragazze, i neri dai bianchi, gli albanesi dagli italiani. Ma non è questo il punto, o almeno non è soltanto questo. Infatti lo scopo della scuola non può ridursi a inseguire statistiche di rendimento, per quanto importanti. In altre parole la scuola non deve fornire soltanto istruzione, ma anche educazione. Soprattutto educazione. Per questo non può esimersi dal proporre un modello di riferimento dell’universo sociale, deve insomma riprodurre dentro se stessa la società. Ovviamente la riproduce soltanto se non viene organizzata in forme separate, visto che la società è multiforme, fatta com’è di uomini e donne, di etnie e provenienze culturali diverse.

Del resto la separazione viene spesso propugnata sulla base di elementi patologici della società, o almeno di lacune che vanno colmate. Se i piccoli immigrati che vivono da noi non parlano italiano, andrebbero messi in condizione di farlo prima della scuola, non rinchiudendoli in ghetti scolastici. Se sono appena arrivati, l’insegnamento intensivo della lingua dovrebbe essere impartito parallelamente alla normale attività scolastica. Nel caso della discriminazione etnica proposta in America, che senso avrebbe dividere le classi sulla base di rendimenti statisticamente diversi che risentono, evidentemente, della rispettiva collocazione sociale dei gruppi? Se gli afroamericani sono mediamente meno bravi dei loro compagni wasp, non è perché sono neri, ma perché sono mediamente più poveri, e le loro famiglie sono mediamente meno acculturate. La scuola deve contribuire a colmare questi fossati, non considerarli semplici dati di fatto su cui fondare la sua organizzazione. Non può permettersi di fare cortocircuito con la società.

Una classe di soli bianchi rischia di produrre un gruppo di cittadini per i quali la componente nera della società è ridotta a qualcosa di estraneo e lontano: di qui all’ostilità interetnica il passo è brevissimo. Da una classe di soli maschi potrebbero uscire uomini portati a considerare l’universo femminile come qualcosa di ben differente dall’altra metà del cielo: e così, parallelamente, da una classe di sole femmine potrebbe scaturire una visione distorta del mondo virile. Se poi separiamo i nostri figli dai compagni stranieri, che rapporto avranno con la società interculturale? C’è insomma la prospettiva concreta che da quelle esperienze escano rispettivamente rafforzati il razzismo, il maschilismo, la xenofobia. Sullo sfondo di una società frammentata e internamente segnata dall’incomunicabilità.

C’è poi una forma estrema di separatismo scolastico, già abbastanza largamente praticata in America e che anche da noi si va facendo strada almeno sul piano teorico. Si tratta dell’homeschooling, come la chiamano dall’altra parte dell’Atlantico. La scuola è quella che è, densa di problemi, malesseri, disagi? Ebbene, educhiamoli a casa i nostri figli, riducendo le necessità formali di riconoscimento dei curricula a una serie di esami pubblici. Anche questo è un ritorno al passato più remoto, all’istruzione riservata a quei pochi che se la potevano permettere, e non basta certo a renderlo accettabile un vantaggio rispetto ai tempi andati che pur bisogna riconoscere: l’accesso diretto ai più vari contenuti e a nuovi orizzonti comunicativi consentito dalle tecnologie informatiche.

È probabile che anche così si possano ottenere buoni risultati in termini di rendimento, almeno in singoli casi. Già, ma che tipo di individuo uscirebbe da questa sorta di scuola destrutturata a domicilio? Privo dell’esperienza formativa del gruppo scolastico, digiuno di attività collettive e di lavoro di squadra, ignaro dello stimolo competitivo implicito nello studiare a fianco a fianco con altri, senza ricordi di classe né compagni di scuola, non rischierebbe forse di essere un asociale? Non è di per sé asociale, rifiutare quel crogiolo della società che è, di fatto, la scuola?

 

                                              Alfredo Venturi

                                                                                        

 

 
 

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