FOGLIO LAPIS - OTTOBRE 2004

 
 

Per il ministro Letizia Moratti va tutto bene, a parte il rapporto studenti/docenti ancora lontano dalla media europea – Per disinnescare lo scontro sindacale e politico, la titolare dell’istruzione assicura che l’applicazione della riforma sarà flessibile – Per uno dei predecessori della Moratti, Tullio De Mauro, il quadro è invece decisamente negativo: la scuola italiana è inefficiente e ne risultano milioni di analfabeti e semianalfabeti – Le sconfortanti cifre dell’Ocse

 

 

Nell’intervista che all’inizio dell’anno scolastico ha rilasciato al settimanale Panorama, Letizia Moratti ha parlato di una scuola complessivamente in ordine, registrando il neo più appariscente nel rapporto studenti/insegnanti: siamo a nove e mezzo-dieci, un dato un pochino più alto di quelli degli anni precedenti ma ancora lontano dalla media europea di quindici studenti per docente. Tutto va bene, dunque, nel pianeta scuola nell’anno di grazia 2004/05? Naturalmente è stato chiesto al ministro come la sua visione ottimistica possa conciliarsi con la durezza dello scontro politico e sindacale attorno alla riforma, che proprio con l’avvio di questo anno scolastico entra nel vivo e riguarda cinque dei quasi nove milioni di studenti, tutti quelli compresi fra la scuola per l’infanzia e il primo anno delle secondarie di primo grado. Nella sua risposta, la responsabile governativa dell’istruzione parla di riforma ad applicazione flessibile, di un sistema cioè che prevede verifiche sul campo.

Il segnale di apertura di Letizia Moratti cade in un contesto come sempre turbato. Poiché la crisi congiunturale riduce gli introiti fiscali e dunque nei bilanci pubblici il piatto piange, si sono imposti drastici tagli che in buona misura hanno investito anche la scuola. Ridotti i fondi destinati al tempo pieno, alla scuola per l’infanzia, al sostegno per gli studenti disabili. Inoltre si denunciano problemi di graduatorie, di precariato, di retribuzioni insoddisfacenti per gli insegnanti. Ciò che rende paradossale quest’ultimo punto è il fatto che, come conferma l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) nel suo ultimo studio sull’istruzione nei trenta paesi membri, la scuola degli insegnanti meno pagati è fra quelle che impegnano di più i rispettivi bilanci. La spesa per studente è infatti in Italia (circa 6800 dollari nella primaria e 8300 nella secondaria) superiore alla media Ocse (rispettivamente 4800 e 6500 dollari). L’arcano si spiega facilmente: ci sono da noi meno studenti per insegnante e meno ore di lezione; ci sono inoltre rigidità burocratiche e un’organizzazione amministrativa non precisamente tarata per trarre il massimo dalle risorse disponibili.

Il rapporto Ocse non si limita a segnalare questo dato. Contiene anche, come ogni anno, una sorta di classifica dei sistemi scolastici nei trenta paesi membri stilata in base ai risultati, ai tassi di scolarizzazione ai vari livelli, alle linee di tendenza verso l’istruzione superiore: in questa classifica l’Italia occupa un ventiseiesimo posto non proprio esaltante. Nel comunicato che accompagna la pubblicazione dello studio c’è un’osservazione di estremo interesse: “si stima che l’impatto a lungo termine, nell’area Ocse, di un anno di istruzione supplementare sia un incremento della produzione economica in una misura compresa fra il tre e il sei per cento”. Su questa valutazione dovrebbero attentamente riflettere certi politici, economisti, osservatori italiani, quelli convinti che innalzare l’età dell’obbligo scolastico sia un lusso costoso quanto inutile. Al contrario: è un modo per aumentare la ricchezza nazionale. Visto che quei signori “con i piedi per terra” ragionano unicamente in termini di prodotto interno lordo, è bene che sappiano che proprio la scuola può imprimere vigore al loro diletto indicatore economico: in poche parole che la scuola è un investimento dalla resa sicura, sia pure a lunga scadenza. Ma hanno abbastanza cervello per accettare questa realtà e farsene una ragione?

Negli stessi giorni in cui fra mille nubi sindacali e finanziarie prendeva il via l’anno scolastico, e il ministro dell’istruzione ribadiva la propria fiducia nella riforma che porta il suo nome, il predecessore di Letizia Moratti, Tullio De Mauro, dava alle stampe un libro-intervista, La cultura degli italiani (a cura di Franco Erbani, editore Laterza) in cui accusa la classe politica di snobbare la scuola, di ignorarla, di danneggiarla. Di non avere confidenza con i problemi educativi. Fortemente critico con l’attuale titolare di Viale Trastevere (definita “poco competente in fatto di scuola”), salva invece il ministro che lo ha preceduto, Luigi Berlinguer. Ma anche per lui ci sono riserve, come quella di aver voluto fare una riforma scolastica a tutto campo che urtando troppi interessi lo ha costretto nell’angolo. O quella di non averne discusso le linee con il corpo docente, protagonista frustrato e depresso della commedia scolastica italiana.

Il linguista De Mauro passa in rassegna nel suo libro le desolanti statistiche della scolarizzazione italiana: solo il 42 per cento della popolazione adulta ha il diploma di scuola media superiore (dato medio europeo al 59 per cento); laureati soltanto nove italiani su cento (in Europa sono mediamente 21). E poi i dati sulla capacità di lettura: due milioni di analfabeti (non sono in grado di leggere un testo semplicissimo di tre parole), quindici milioni di semianalfabeti (si bloccano davanti a un testo appena più complesso), altri milioni di italiani che rischiano a loro volta di perdere le precarie capacità acquisite a scuola, e come conseguenza ovvia i due terzi della popolazione che non leggono né libri né giornali. È abbastanza sorprendente, di fronte a queste cifre, che l’ex ministro promuova a pieni voti la vecchia scuola elementare (“una delle migliori del mondo”). Ora, è certamente vero che l’istruzione primaria italiana è ormai per tradizione considerata il fiore all’occhiello del nostro sistema educativo, ma non è proprio la scuola elementare il luogo dell’alfabetizzazione? C’è dunque qualcosa che non quadra, se nonostante il loro passaggio infantile attraverso questa istituzione esemplare tanti cittadini refrattari alla lettura, tanti analfabeti di ritorno affollano il Bel Paese.

                                             Alfredo Venturi
                                         

                                                                                                 

 

 
 

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