Rinviare
sistematicamente lo studio in famiglia, fa notare il
pedagogista francese Philippe Meirieu, significa esaltare
le disuguaglianze sociali e culturali – E’ abbastanza
paradossale il fatto che la scuola tende ad allontanare da
sé la sua funzione essenziale, cioè l’apprendimento,
limitandosi a impartire lezioni da studiarsi dove non
sempre le condizioni lo permettono – E’ evidente la
necessità di un lavoro meglio coordinato fra insegnanti,
studenti e famiglie
“La scuola è
un luogo in cui, troppo spesso, veniamo a cercare conoscenze
per poi andarcene a studiare a casa nostra”. E’ uno dei
lamenti emersi durante la consulta sulle scuole superiori
francesi condotta nei primi mesi del 1998, un’indagine che
coinvolse quasi tre milioni di studenti. Philippe Meirieu,
insegnante e pedagogista, partecipò alla preparazione del
questionario e all’elaborazione delle risposte. Eccone una
che lo studioso francese considera essenziale: “A casa
nostra siamo abbandonati all’ineguaglianza,
all’ingiustizia e al caso. E’ a scuola che dobbiamo
trovare le risorse in caso di difficoltà. Sono i professori
a scuola che devono avere la possibilità di accoglierci
quando non capiamo un esercizio o quando vogliamo far
rileggere a qualcuno un compito prima di consegnarlo. Le
aule di informatica, le palestre, i centri di documentazione
devono rimanere aperti ben oltre le ore di lezione, week-end
e vacanze comprese. Vogliamo poter essere accolti da adulti
competenti, pronti a sedersi accanto a noi e ad aiutarci a
studiare…”.
Nell’ambiente
familiare, al quale invece la scuola – in Francia ma anche
in Italia e più o meno dappertutto - delega queste
funzioni, gli studenti si trovano di fronte una realtà
precostituita e discriminante. C’è chi ha in casa libri
di consultazione, computer, genitori in grado di dare una
mano; chi al contrario deve fare i conti con familiari
semianalfabeti, e magari è costretto a studiare in case
risonanti di urla di bambini e televisori sempre accesi,
senza potersi isolare per la necessaria concentrazione. La
“pari opportunità” dell’aula scolastica, dove non
c’è differenza fra un banco e l’altro e le stesse
risorse sono a disposizione di tutti, viene completamente
neutralizzata. E si noti che i ragazzi provenienti da
famiglie disagiate sono già penalizzati dal fatto che i
loro genitori, di solito, sono tutt’altro che assidui alle
riunioni di classe o d’istituto e tendono a non avere
rapporti con la scuola: proprio loro che più ne avrebbero
bisogno.
Su
questo tema dagli aspetti poliedrici il pedagogista francese
ha scritto un libro che è uscito anche in traduzione
italiana: Philippe Meirieu, I compiti a casa, ed.
Feltrinelli. “Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il
suo ruolo”: questo il sottotitolo. Meirieu sottolinea
l’opportunità che la scuola occupi tutti gli spazi che le
competono, senza deleghe in bianco a ambienti esterni, ma al
tempo stesso che fra scuola e famiglia si instauri un gioco
dialettico che salvi l’autonomia del soggetto. Il ragazzo
cioè non deve sentirsi sballottato fra autorità diverse e
a volte contrastanti, deve anzi crescere proprio
affrancandosi gradualmente da entrambe, costruendo pian
piano il proprio universo e la propria individualità.
Forte
della sua esperienza di insegnante, Meirieu integra la sua
critica di fondo al sistema dei rapporti scuola-famiglia con
numerosi suggerimenti pratici. Invita per esempio a una
costante pratica di applicazione degli apprendimenti
teorici, che soltanto così potranno essere assimilati e non
attraverso uno sterile “imparare a memoria”. “Ogni
lezione deve costituire una risposta”, spiega citando
Dewey: ma se questa risposta è mancata, cioè se il ragazzo
non ha capito la spiegazione in aula, non è opportuno che
cerchi di colmare la lacuna ricorrendo all’integrazione
familiare. E non soltanto perché questo implica la
discriminazione di cui sopra: il fatto è che la cosa
migliore è chiedere all’insegnante di ripetere la
lezione, di spiegarla meglio. E soprattutto, bando a quello
che l’autore chiama accanimento pedagogico: la tendenza
cioè a pretendere sempre di più senza interrogarsi sul
come, a scommettere sulla quantità piuttosto che sulla
qualità.
C’è
un epilogo interessante, alla fine di questo libro, una
lettera della moglie dell’autore. Esprimendosi sulla base
della sua esperienza in famiglia, la signora Meirieu mette a
fuoco un altro aspetto della delega implicita nella pratica
dei compiti a casa: il fatto che il genitore chiamato
all’assistenza extrascolastica è quasi sempre la madre.
“A volte ti rammarichi, giustamente, dell’eccessiva
femminilizzazione del corpo insegnante alle elementari e
alle medie,… ma bisognerebbe forse rammaricarsi con
altrettanta forza dell’assenza dell’intervento del padre
nel campo dello studio, e si eccettua, naturalmente, il
momento di guardare la pagella…”. Tanto più che gli
insegnanti durante i colloqui con i genitori, insistono
spesso sul fatto che “non bisogna essere troppo
materne”!
r.f.l.
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