L’abbecedario di Pinocchio

Lettera aperta alle famiglie su un tema scottante, quello dei libri di testo – Il loro costo, a carico dei genitori fin dalle medie inferiori dunque in piena scuola dell’obbligo, lede il dettato costituzionale, che parla di istruzione non soltanto obbligatoria ma anche gratuita – Secondo lo studio di un’organizzazione di tutela dei consumatori, per un ragazzo che va in prima media si spendono mediamente oltre 700 mila lire – Bene, proviamo a pensare a certe famiglie ricche soltanto di figli…

Cari genitori, mi piacerebbe ricordarvi, o portare a conoscenza di quelli che ancora non lo sanno, che nella Costituzione della Repubblica Italiana l’art. 34 al secondo comma dice: “L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Ho qui davanti un dato dell’ADUSBEF, un’associazione di tutela dei consumatori: secondo loro quest’anno un ragazzo che va in prima media costerà alla famiglia 725 mila lire per l’acquisto dei libri, oltre un milione se si calcolano i vocabolari. Ecco, siccome questi sono i fatti io mi chiedo quanti di voi siano realmente coscienti di subire una grave ingiustizia che si fonda su un’aperta violazione della Costituzione. Alcuni giorni fai più importanti quotidiani hanno ospitato a tutta pagina l’appello dell’editrice Mursia, che nell’intento di difendere la qualità del suo prodotto ha dimenticato di precisare che il costo dei libri, secondo la nostra legge fondamentale, non deve gravare sulle vostre tasche, fral’altro già abbastanza alleggerite, e questo fin dalle elementari, dall’acquisto di altri supporti didattici quali quaderni, zaino, matite, diario. In Italia esistono leggi all’avanguardia per la tutela dell’infanzia, per esempio quella che vieta esplicitamente ai minori di 15 anni l’entrata nel mondo del lavoro. E’ noto però a tutti come soprattutto in alcune regioni questa normativa non venga rispettata, al punto che ci sono intere famiglie mantenute da bambini lavoratori. Ma la denuncia non basta: io qui, come presidente di questa associazione che si occupa di garantire a tutti il diritto all’istruzione, mi appello a chi ha il dovere di tutelare il rispetto della legge affinché questo dovere lo faccia meglio. Poi mi permetto di invitare la signora Fiorenza Mursia, autrice dell’intervento in difesa dell’editoria scolastica, a seguirmi nei miei frequenti pellegrinaggi nei quartieri più poveri delle nostre città. Dovrebbe ascoltare il parere di quelle persone che in genere hanno famiglie numerose, quindi problemi enormi per comperare i suoi bei libri di testo. Di solito quelle persone non leggono il giornale e quindi non hanno saputo del suo appello, né della mancata precisazione del punto fondamentale: a chi tocca, secondo la Costituzione, sborsare quei soldi. Siamo nel paese di Pinocchio o no? Quanti babbi come Geppetto devono ancora vendersi pure il cappotto per comprare l’abbecedario al figlio? Noi della LAPIS diciamo che è anche inaccettabile la proposta di fornire gratuitamente i libri di testo soltanto alle famiglie disagiate. La legge costituzionale deve essere uguale per tutti, inoltre dobbiamo evitare almeno con i bambini di rimarcare le differenze sociali. L’unica soluzione praticabile è l’applicazione alle medie dello stesso sistema in uso alle elementari. I margini dovrebbero esserci, visto che come spesa per l’istruzione (3,4 per cento rispetto al PIL) siamo agli ultimi posti in Europa. Del resto nell’età dell’euro basterebbe gettare uno sguardo fuori frontiera (a quanto pare nonostante Schengen le frontiere culturali esistono ancora) per rendersi conto di come per esempio in Baviera il problema del fornire gratuitamente i libri di testo è stato risolto in un modo molto semplice: prestando i volumi necessari ai ragazzi che alla fine dell’anno si impegnano a restituirli in buone condizioni, altrimenti li pagheranno. Trovo che questa è una forma molto civile, anche per educare i ragazzi al rispetto della carta stampata. Oppure perché non fare un pensierino a tutti quei computer modernissimi e del tutto inutilizzati che visitando le scuole di tutta Italia ho spesso visti addirittura in stanze chiuse a chiave? Si potrebbe utilizzarli prima che invecchino, per esempio per produrre delle dispense da distribuire ai vostri figli. In questo modo sarebbe anche risolto il problema del peso da portarsi dietro giornalmente, quei chili e chili di ingombrante e costosissima carta patinata.

                                                        Marilena Farruggia Venturi
                                                                                           Pres. della LAPIS

 

La scuola dell’illegalità

Il drammatico ritardo dell’istituzione scolastica rispetto ai mutamenti radicali in corso nella società denunciato da Giuseppe Urso, pedagogista e insegnante a Taranto – Le aspettative disattese nella provincia jonica, che pure è stata una delle aree coinvolte nei “progetti integrati” per combattere le patologie della scolarità – Un tasso di dispersione superiore al 12 per cento nelle medie, con punte altissime nei quartieri urbani di periferia – Di troppi ragazzi non è la scuola a farsi carico, ma la giustizia minorile

L’intolleranza più tremenda è quella dei “poveri”, che sono le prime vittime della differenza (U. Eco, Scritti morali, 1997). Chi è stato molto umiliato a volte non riesce a perdonare, né a dimenticare (E. Cioran). La “sfida educativa” è qui riassunta, ma ad oggi manca ancora un “pensiero”, una dottrina che in qualche maniera possa sostenerla. La scuola d’altronde vive una dimensione di “mancanza”, di isolamento culturale grottesco, di assoluta arretratezza rispetto al nuovo e al diverso e diviene sempre più luogo di disagio e di coercizione anziché di liberazione dell’anima. Gli intrighi politici che sempre ne hanno decretato un indicibile stato di subalternità e di notoria precarietà rispetto ai propri compiti istituzionali, accentuano in maniera irreversibile le disillusioni e le ansie degli insegnanti e dei giovani studenti lasciati al cospetto del “grande vuoto” che si preannuncia drammaticamente. E’ paradossale che siffatta istituzione possa ancora legittimamente aver cura della personalità. Ancor più sgomenta l’idea di quanto essa sia inadeguata riguardo ai saperi scolastici propinati, resi parcellizzati eludendo di trovarsi in una società radicalmente cambiata e composta – multirazziale – così che nell’imminente si pongono ineludibili bisogni educativi di integrazioni etniche, culturali, religiose e seppure nella indifferenza e silenzio cresce a dismisura la domanda di “condivisione” e di “convivenza” e di “accettazione” delle nuove diversità, dei nuovi poveri, rendendo inammissibile l’estraniazione e mettendo al bando ridicole leggi di contenimento e di misure anti-immigrazione; il nostro europeismo non potrà porre alcuna frontiera dinanzi alla diaspora dei popoli oppressi. La scuola italiana e la cultura che essa rappresenta non segue tali vicende, ne è lontana anni luce, è segnata dall’infinito dilettantismo e balbettio di estenuanti dibattimenti parlamentari su vaghe e presunte riforme, di parità, di riordino dei cicli, dei nuovi ordinamenti, un brutto affare che ci costerà tanto e che le giovani generazioni difficilmente potranno perdonarci, non basta adesso solo salvaguardarsi dalle crepe ideologiche, serve preoccuparsi delle crepe morali difficilmente sanabili. Una radiografia che mette la scuola a nudo di fronte alla propria crisi, di non più ricuperabilità, coerentemente legata ad una fase storica di decadimento, che ha posto l’uomo nell’angusto spazio dei propri limiti esistenziali, e di un “relativismo valoriale” che vanifica ogni principio progettuale di cambiamento. Tale preoccupata “attenzione” rivolta alla funzionalità della scuola è diretta a porre in essere il suo delicato compito che è rivolto alla promozione della dignità e della sensibilità della persona e all’offrire reali e pari opportunità ad ognuno nella tutela e nel rispetto di ogni diversità. Duole ammetterlo ma così non è, la scuola pubblica viene umiliata e resa sempre più misera – vedi il contenimento della spesa, la razionalizzazione della rete scolastica e le assurde misure di soppressione e di accorpamento di plessi scolastici – cresce la disaffezione ed un eloquente dissenso e malumore pervade gli animi. In questo bailamme cosa ne è della “formazione”, quale destino è riservato ai tanti ragazzi in “abbandono” degli studi, tema di estrema attualità, e quali i risultati cui si è giunti adottando le misure del progetto ministeriale “progress” relativo alla obbligatorietà, dell’anno 88, attraverso la realizzazione di progetti pilota mirati ad affrontare le patologie della scolarità che vanificano il diritto allo studio. L’annoso problema veniva posto solo in termini meridionalistica – come poteva essere diversamente? – con la individuazione di alcune province per l’attuazione dei “progetti integrati di area P.I.A.”; Taranto era tra questi siti. Il principio su cui il progetto si basava era la riconsiderazione della dispersione scolastica, non più fatto puramente fisiologico e di accettazione fatalistica, per favorire una cultura dell’azione integrata attraverso una significativa attenzione rivolta alle politiche formative e di impiego di personale all’uopo indirizzato. Le aspettative progettuali e ministeriali allo stato attuale nella provincia jonica rimangono comunque “disattese”, pur in presenza di una lodevole differenziazione tipologica di interventi; ma l’istituzione dei gruppi di lavoro, l’osservatorio, l’anagrafe scolastica, le intese interistituzionali, il coordinamento, rimangono nei sogni, pura utopia, agli effetti manca una ampia problematizzazione sul piano pedagogico, né si può avere la pretesa legislativa di superare ostacoli di varia e complessa natura, tipo rifacimento strutturale della quasi totalità degli edifici, dei trasporti, dei servizi di mensa, di medicina scolastica, di supporti psicopedagogici, di sussidi, di aggiornamento del personale e quanto altro. Nell’ambito del territorio jonico, ritornando al progetto ministeriale, vengono di conseguenza individuate dal provveditorato dei circoli didattici  scuole secondarie di primo grado aventi in comune ciò che d’uso si chiama “sindrome dell’abbandono”. Strano a dirsi ma dopo vari anni Taranto ancora non possiede, e ne aveva, una adeguata “letteratura” riguardante il fenomeno dispersione scolastica in riferimento all’obbligo se non una mia pubblicazione del 1997, per il resto sono stati acquisiti, da parte degli organi ufficiali preposti, solo elementi statistici aggregati in maniera da non consentire una chiara lettura interpretativa dell’intera fenomenologia. Allora i dati per chi evade la scuola, che indicano la incompiutezza in età evolutiva del processo educativo, sono allarmanti e di inaudita gravità e da soli denunciano la ribellione, la fuga, il rifiuto degli stereotipi dettati a scuola, la negazione di un becero conformismo, la devianza, la negazione della vita. Nelle elementari, per tutti i distretti scolastici, nel quinquennio 1987-92 esaminato e documentati dalla suindicata opera, i dropout ammontano a 945 unità, nelle medie nell’ugual periodo 12294 dispersi, il 12,3 per cento, con un rapporto dispersivo pari a tre su venticinque. Il fenomeno dispersivo si presenta particolarmente inquietante nelle aree più disagiate – veri Bronx, piaga comune di ogni quartiere a ridosso degli agglomerati cittadini – qui molti bambini e ragazzi sanno già di appartenere ad un clan, abituati a vivere tra vicoli pieni di insidie, posti di continuo anche tra le mura domestiche in situazioni di intollerabile degrado e coinvolti in modelli di comportamenti perversi che esasperano le loro coscienze, modelli trasgressivi che dalla loro mente difficilmente riusciranno a cancellare; ragazzi spesso cooptati dalla microcriminalità. La scuola in queste zone è rinunciataria. Il problema è che purtroppo dei tanti ragazzi così drammaticamente coinvolti e sicuramente in stato di sofferenza psicologica – si è infranta la purezza della loro anima di fanciulli – a farsi carico sarà solo la giustizia minorile. In città e provincia incombe pericolosamente il degrado sociale, economico ed ambientale, il malessere dilaga e qualsiasi altra attestazione, seppur provenga dalle autorità civili, militari, politiche o religiose, di ripresa o di benessere o di contenimento criminoso è pura demagogia. Intanto nelle sedi scolastiche d’ogni ordine e grado partono le sperimentazioni sull’autonomia – mentre la Camera dei deputati approva l’iniqua e vergognosa legge sull’elevamento d’età dell’obbligo – nello spirito di un federalismo che verrà ma che ci vedrà “perdenti”; la nostra terra rimane di nessuno, una colonia, è terra del sud, appartiene a noi desaparecidos, perché volerla cambiare? Si riaprono i battenti per il nuovo anno scolastico, si alza il sipario e si fa l’appello. Tutti in silenzio. La scuola… Assente!

                                                                  Giuseppe Urso

 

Vergogna: giocano a scacchi invece di studiare

La desolante esperienza di un’insegnante di scuola media, boicottata perché impegnava i ragazzi attorno a una scacchiera – Questo straordinario esercizio di logica considerato uno spreco di tempo – Come pregiudizi e pigrizia, e in questo caso ignoranza, bloccano chi tenta strade nuove – E persino chi cerca, applicando le disposizioni ministeriali, di tenere l’insegnamento al passo con l’evoluzione della cultura il timore diffuso di accollarsi qualche responsabilità in più

“Chiunque voglia fare un lavoro costruttivo”, dice Alessandra Luconi, “deve aprire delle strade nuove”. Alessandra Luconi insegna matematica e scienze in una scuola media della provincia di Arezzo e vorrebbe che il suo lavoro fosse davvero costruttivo. Strade nuove dunque. “Ma aprire strade nuove significa trovarsi di fronte persone che non sanno, che vivono in una dimensione diversa da quella razionale, è difficile trovare della gente che queste cose le sappia. Ci si trova a lavorare in un ambiente carico di pregiudizi, dove se vuoi portare una cosa nuova devi far tutto di sana pianta, ogni pezzettino devi stare a spiegare quello che fai. Un’esperienza che faccio tutti i giorni”.
Un esempio?
“Per esempio mi sono trovata a lavorare per parecchi anni col tempo prolungato, come si sa alle medie c’è anche il tempo prolungato, cioè con il rientro pomeridiano dei ragazzi. Stanno dunque a scuola dal primo mattino al pomeriggio inoltrato: è chiaro che non gli puoi far lezione tutto il giorno. Quindi si devono progettare anche altre attività. Eravamo in due insegnanti, avevamo a disposizione un’aula computer. Cominciai a progettare delle attività del tempo libero, avevo pensato agli scacchi, avevo fatto domanda al provveditorato, avevo chiesto fondi per comprare degli scacchi, le scacchiere si erano fatte con l’educazione artistica, poi gli avevo fatto fare il giornalino, un modo per tirare fuori delle cose un pochino più loro. Col giornalino ho avuto problemi con l’insegnante di italiano: non le piaceva  l’idea di andare a cercare le cose vere”.
Perché?
“Per fedeltà all’italiano ingessato, al tema classico dove c’è solo l’aspetto formale da salvare. Ma il piacere di scrivere sta anche nel poter tirar fuori qualcosa di personale. Nel giornalino figurava qualche piccola storia d’amore chiaramente infantile, oppure le storie che avevano vissuto loro, anche con gli errori, era divertente, per me e per i bambini. Poi il giornalino si vendeva, i ragazzi si divertivano anche ad andare a venderlo. Ma col discorso del giornalino non sono riuscita a convincere nessun collega. Magari con forme molto eleganti, ma hanno rifiutato, dunque col tempo l’ho lasciato perdere”.
E gli scacchi?
“Ora ho finito il tempo prolungato e sono tornata al tempo normale. Beh, sono venuti dei genitori dalla preside, sono andati a dire che non avevano piacere che insegnassi con orario normale, perché io i ragazzi non li faccio lavorare. Una mamma mi ha telefonato l’altro giorno dicendomi che è meglio che non faccia giocare i ragazzi a scacchi… Allora io le ho spiegato, vede signora, gli scacchi sono il gioco che ha il livello più alto,non è certo come giocare a scopa. E’ l’eccellenza, è un gioco di costruzione, di progettazione. Ma nonostante questo i genitori sono andati a protestare perché non mi volevano…”
Troppo inconsueta, questa strada nuova…
“Eppure ho seguito anche quello che è scritto nei programmi ministeriali, ho seguito le indicazioni, perché ci sono delle disposizioni bellissime, solo inapplicate. Nel programma di matematica per esempio si raccomanda di diminuire gli automatismi che non fanno ragionar, quelle lunghe espressioni, i calcoli, ecc. Si punta sulla teoria degli insiemi per esempio. Ma le scienze e la matematica e chi le insegna hanno in Italia una posizione laterale, per via della cosiddetta tendenza umanistica, secondo me falsamente umanistica. Dunque l’insiemistica fa fatica ad inserirsi, perché non è una matematica di soli numeri ma di pensiero, insomma gli insegnanti tendono a metterla da parte, eppure è nei programmi. Il fatto è che la cultura è evoluzione continua, non si può mica restar fermi, se uno comincia a studiare bisogna che continui… A pensarla così, io alla fine mi sono rovinata la reputazione, mi sono fatta la fama che non faccio studiare i ragazzi. Come quando cercai di andare a fare educazione ambientale in montagna o ancora di organizzare calcoli e ragionamenti matematici attorno alla scacchiera: venne fuori il finimondo, dovetti metter via la scacchiera. Eppure il mio obiettivo non era certo quello di far giocare i ragazzi, era quello di sviluppare il pensiero. E anche di migliorare il rapporto umano con i ragazzi, tradizionalmente critico per chi insegna matematica”.
Educazione ambientale in montagna?
“Proprio così, avevo pensato di portare i ragazzi in Casentino, presso le strutture della Forestale: ci sono gruppi lassù che organizzano soggiorni per le scuole. Non sono vacanze, non si va per mangiare e bere, sono soggiorni per conoscere la natura. Anni fa ci avevo già portato una volta i ragazzi con la guida, uno che ha passato la sua vita nel bosco, che sa riconoscere le impronte degli animali selvatici. Bene, volevo riportarceli, i ragazzi tutti entusiasti, un programma di due giorni con due insegnanti. Naturalmente per noi era una responsabilità: bene, il consiglio d’istituto questa gita ce l’ha annullata. E non sono riuscita neanche a capire perché. Anche se posso immaginare che hanno voluto dare una lezione a un’insegnante che considerano troppo disinvolta, con punti di vista propri che intende portare avanti”.
Un problema di mentalità…
“Sì, lo stesso problema che investe il rapporto fra scuola e famiglia rendendo così difficile applicare le riforme, l’autonomia. C’è un clima di diffidenza nei confronti della scuola da parte delle famiglie. Di fronte a qualsiasi proposta di cambiamento, per esempio dell’orario, la prima reazione dei genitori è di rigetto. Non c’è un confronto, non c’è richiesta di chiarimenti all’insegnante, che dovrebbe essere l’esperto da consultare: no, si pongono immediatamente sulla difensiva, sono convinti che ci sia ‘qualcosa sotto’ e allora  dicono no, rifiutano la lunga mano dello Stato, al tempo stesso minacciano di chiamare l’ispettore… Forse c’è anche un po’ di gelosia nei confronti dell’insegnante, del rapporto umano che l’insegnante riesce qualche volta a stabilire nei confronti dei ragazzi. Sospetto che ci sia anche in molti una scarsa considerazione dell’insegnante in quanto persona a basso reddito. Perché il problema del trattamento economico nella scuola non riguarda soltanto i nostri bilanci familiari, è anche una questione di prestigio, visto che in questa società conta di più chi ha più soldi...”
Che ne pensa del prolungamento dell’obbligo scolastico?
“Penso che certo, in una società che funzioni bene sarebbe utile stare un paio di anni in più, anche per consentire un orientamento più maturo. Ma così com’è, è solo un prolungare l’agonia…”
 
 

Una maestra ondine a Montecristo

Per Chiara Del Lama era tutto pronto: dopo un periodo di frequenza avrebbe proseguito la prima elementare collegata alla classe dalla sua isola per videoconferenza – Ma i genitori hanno deciso altrimenti: la piccola abiterà dai nonni e continuerà a frequentare personalmente la scuola – Il caso rivela comunque la possibilità che offre la telematica per garantire l’istruzione anche a piccole comunità isolate senza dover ricorrere a spostamenti non sempre facili – Il parere di Vittorio Monarca, il direttore didattico che aveva predisposto il “progetto Chiara”

 

Si immagini una bambina che raggiunge l’età scolastica e vive con i genitori, unica famiglia, in un’isola a molte miglia di mare dalla scuola più vicina. Una bella sfida per uno Stato che la Costituzione impegna a garantire a tutti l’istruzione, imponendola come obbligatoria per nove anni. E’ il caso di Chiara Del Lama, la sua isola è Montecristo nell’arcipelago toscano: piccola terra baciata non soltanto da una ben nota celebrità letteraria ma anche da splendidi doni naturali. Quella che fu riserva di caccia dei Savoia ora è un’oasi protetta, una riserva naturale alla quale si può accedere soltanto sotto attenta sorveglianza e con il limite di mille visite all’anno. Una decina di anni fa i futuri genitori di Chiara, Paolo e Serenella, vengono a sapere che il posto di guardiano dell’isola sta per rendersi vacante e si fanno avanti. Comincia così il loro duro lavoro, la sorveglianza della villa reale, del museo e dell’orto botanico, la vigilanza lungo la costa alla quale i pescatori non possono avvicinarsi, l’ascolto di eventuali richieste di soccorso da parte di imbarcazioni in difficoltà, la scorta ai visitatori nei mesi estivi. Quando in quel piccolo paradiso terrestre arriva Chiara, si prospetta il problema della scuola. Che fare? Un problema insolubile con i mezzi e la mentalità tradizionali, a meno di non rassegnarsi alla separazione della piccola dai genitori per l’intera durata degli anni scolastici. Fortunatamente ci sono anche mezzi e mentalità non tradizionali. In soccorso di Chiara, e del suo problema di piccola eremita che non può né vuole né deve rinunciare alla scuola, ecco arrivare le risorse della telematica. Un dirigente scolastico che ama tentare terreni didattici inesplorati, Vittorio Monarca, mette a punto un progetto. Direttore del primo circolo di Piombino, Monarca ha familiarità con le tecniche informatiche. Propone dunque ai genitori che la piccola, dopo avere frequentato per qualche settimana la prima classe nella scuola di Riotorto, tanto per fare la conoscenza della maestra, dei compagni e dell’ambiente, se ne torni alla sua casa sull’isola. Ci penseranno un computer e una telecamera ad assicurare il legame fra l’alunna in mezzo al mare e la sua classe sul continente. Seduta al suo tavolino, Chiarapotrà far giungere la sua voce per videoconferenza nell’aula di Riotorto, che è dotata delle necessarie attrezzature. Potrà parlare con la maestra, con i compagni. In un secondo tempo potrà comunicare anche attraverso la tastiera. Naturalmente la decisione finale spetta alla famiglia. E dopo lungo tergiversare i genitori di Chiara decidono: per ora la piccola rimarrà sul continente, abiterà dai nonni e frequenterà personalmente la scuola di Riotorto per l’intero anno scolastico. Il direttore didattico Monarca non lo dice, ma è chiaro che la decisione lo ha un poco deluso: teneva molto a questo esperimento. Insiste infatti sulla natura sperimentale dell’operazione: si sarebbe studiato il rendimento della scolara, e in caso di risultato negativo se ne sarebbe preso atto. “Soprattutto nelle prime classi”, dice, “la vita di relazione è la cosa più importante”. Non ha difficoltà a concedere che la relazione virtuale, l’insegnamento telematico hanno un grosso limite: “escludono la relazione fisica, il potersi toccare, il guardarsi negli occhi”. Ma questo non toglie che la telematica potrebbe essere (Monarca insiste sul condizionale: il terreno è praticamente inesplorato) anche per la scuola una strada per il futuro. “Si interrogano i detenuti per videoconferenza, che è dunque un sussidio per la giustizia, e con la stessa tecnica si organizzano nelle imprese riunioni di lavoro che fanno risparmiare le spese e i disagi dei viaggi: perché non applicare il sistema alla scuola?” Pensa soprattutto a certe località di montagna, nella stagione invernale difficilmente raggiungibili anche dai servizi di scuolabus: ecco, qui si potrebbe tentare la stessa strada che era stata progettata per la piccola scolara di Montecristo. Una relazione virtuale, online, del tutto in linea con lo spirito del tempo, alla quale certo bisognerebbe accompagnare la predisposizione di una didattica nuova. Le nuove tecnologie potrebbero addirittura invertire la tendenza che ha portato negli ultimi decenni al cosiddetto consolidamento dei bacini di utenza. A concentrare cioè nei centri maggiori, in istituti meglio dotati di attrezzature e sussidi didattici, gli alunni che prima erano dispersi fra una quantità di piccole scuole rurali, caratterizzate da bassa frequenza e limitate disponibilità tecniche. Ora l’informatica e la telematica possono annullare il vecchio handicap, e così come stanno ridimensionando con il lavoro a domicilio, dopo secoli di urbanesimo, l’addensamento delle popolazioni nelle città, rendono di nuovo praticabili lo scenario della “istruzione diffusa”. Il caso della bambina di Montecristo è assai significativo: con un computer, un modem e una telecamera la scuola è garantita persino nella piccola isola abitata da tre sole persone. Il sistema non è nemmeno tanto costoso, fa notare il direttore didattico di Piombino: tanto più che qualche provider di servizi telematici sarebbe certamente disposto a praticare tariffe agevolate. Se non altro per il fatto che all’interesse della comunità, di garantire comunque a tutti l’istruzione di base, si affiancherebbe l’interesse degli operatori informatici a diffondere il loro verbo tecnologico fra bambini destinati a vivere in un’epoca che all’informatica assegnerà un ruolo centrale. Ci sia permesso di aggiungere che in ogni caso non c’è problema di costi che tenga, di fronte all’impegno costituzionale dell’istruzione non soltanto obbligatoria ma anche gratuita. Questo impegno conosce già troppe deroghe, a cominciare dallo scandalo dei libri a pagamento nell’ultimo ciclo dell’obbligo. Nel caso di Chiara, questa innovativa sperimentazione è forse soltanto rimandata. Nulla impedisce infatti ai suoi genitori, dopo che un intero primo anno di frequenza normale l’avrà familiarizzata con la scuola, di riprendersi la bambina nella loro casa sull’isola e farle proseguire l’istruzione per via telematica. Tanto più che la bambina è intelligente e può contare su un favorevole ambiente familiare: si è infatti presentata in prima che già sapeva leggere e scrivere in stampatello. Ha anche un ottimo rapporto con i compagni, alcuni dei quali del resto già conosceva quando ancora la scuola non era cominciata. Infatti la scorsa estate, qualche settimana prima del fatidico quindici settembre, erano andati a visitarla a Montecristo, e lei aveva fatto gli onori di casa mostrando ai piccoli ospiti le meraviglie della sua isola, la favolosa isola del tesoro.

                                                                        a.v.

 

Obbligo scolastico: il caso della Pennsylvania

Una lunga battaglia a Harrisburg, la capitale del grande Stato industriale, attorno al progetto di modificare l’età di accesso all’istruzione di base – E’ attualmente compresa fra gli 8 e i 17 anni, alcuni anni fa si propose di allineare la Pennsylvania alla maggior parte degli altri USA, dove la scuola dell’obbligo comincia a 6 anni e finisce a 18 – Ma il progetto fu osteggiato con successo dal gruppo di pressione dei cosiddetti homeschoolers, che preferiscono avviare l’istruzione fra le pareti di casa

Un dibattito singolare, almeno visto dall’ottica italiana, quello che per anni ha contrapposto in Pennsylvania, lo Stato dell’industria pesante che si estende fra New York e la Virginia, fra i Grandi Laghi e l’Atlantico, la lobby dei cosiddetti homeschoolers e la locale amministrazione democratica. Gli homeschoolers sono i fautori dell’vvio dell’istruzione in famiglia, dunque di un accesso ritardato alla scuola. Il governatore Casey aveva proposto di allineare in materia di obbligo scolastico la legislazione della Pennsylvania a quella della maggior parte degli altri Stati dell’Unione, dove la compulsory school comincia a 6 anni e finisce a 18. si trattava dunque di mandare a scuola anche i 26 mila bambini compresi fra i 6 e gli 8 anni. Secondo Casey e la maggioranza del suo partito, mandare a scuola i bambini all’età di 8 anni significa mettere in pericolo i piccoli di età inferiore appartenenti alle famiglie più disagiate: per loro infatti l’alternativa alla scuola non è altro che la strada. Non è questo naturalmente il caso degli homeschoolers, che hanno evidentemente alle spalle famiglie in grado di provvedere alla primissima formazione. Ma di quei 26 mila, facevano notare i parlamentari dello Stato favorevoli all’anticipo dell’età scolare, soltanto cinquemila sono gli homeschoolers, quelli cioè che fruiscono di famiglie in grado di provvedere a loro anche sul piano educativo. Contro il progetto del governatore e del suo dipartimento per la pubblica istruzione, ecco dunque scendere in campo i fautori della scuola a domicilio. Sono una lobby molto bene organizzata, con tanto di bollettino (s’intitola ovviamente Pennsylvania Homeschoolers) e presenza su Internet. Ecco Howard Richman, condirettore del bollettino, tempestare rappresentanti e senatori con le sue argomentazioni. Il governatore Casey, scrive Richman, sostiene che vuole mandare i bambini a scuola per salvarli dalla strada. Ma il suo obiettivo, per quanto lodevole, non può raggiungerlo abbassando l’obbligo scolastico. Infatti una misura di questo genere, è sempre Richman a sviluppare il discorso, è inapplicabile alle famiglie senza fissa dimora, irraggiungibili da parte dei funzionari dell’anagrafe scolastica. Quanto alle famiglie disagiate, affidano già i loro bambini anche più piccoli alle strutture pubbliche. Conclusione: ogni legge sulla frequenza scolastica obbligatoria lede le libertà individuali, dunque l’età dell’obbligo può essere estesa soltanto se ci sono delle ragioni inattaccabili per farlo. Ma non è questo, a pare di Richman, il caso della Pennsylvania. Come accade spesso dovunque le articolazioni politiche corrispondano almeno in parte alla struttura economica della società, le due posizioni contrapposte hanno finito con il polarizzarsi lungo le linee degli schieramenti classici: da una parte i democratici, tradizionalmente attenti al sociale e dunque favorevoli all’abbassamento dell’età dell’obbligo visto come misura di protezione dei piccoli meno fortunati, dall’altra i repubblicani, il partito dei ceti più abbienti, fautori della libertà e della flessibilità deregolatrice, dunque nel caso specifico dei diritti delle famiglie che intendono avviare da sé i loro bambini all’istruzione. Nel novembre 1994 si è votato anche in Pennsylvania per la nomina del nuovo governatore dello Stato. La “campagna elettorale” degli homeschoolers è interessante non soltanto per il tema specifico cui si riferisce, ma anche come saggio di come concretamente funziona la democrazia americana. Ai due contendenti alla massima carica dello Stato Richman invia una domanda: “qual’è la sua posizione sulla proposta di abbassare l’inizio dell’età dell’obbligo a 6 anni e di elevarne la conclusione a 18?” Il candidato democratico Singel risponde che esaminerà con attenzione ogni proposta, assicurando che cercherà di dare ai genitori quante più opzioni possibile. Più diretta la risposta del repubblicano Ridge: sono contrario a ogni modifica delle norme attuali sull’età scolastica. Risultato: gli homeschoolers appoggiano pubblicamente Ridge, che vince la contesa elettorale e diventa governatore. Da quel momento, nessuno ha più proposto di ritoccare la legge. Questo il commento che Richman ha affidato alla rete: “Grazie a Dio siamo riusciti a difendere i nostri bambini da un ingresso prematuro nell’istruzione formale”. Ma in democrazia nulla è definitivo: il mandato del governatore repubblicano sta per scadere e si avvicinano nuove elezioni. Ancora una volta si discute il Pennsylvania se la libertà delle famiglie più abbienti di avviare l’istruzione dei propri figli debba prevalere sul diritto dei ceti più disagiati di assicurare comunque ai loro piccoli un’assistenza scolastica. Se cioè i bambini vadano difesi dalla strada o dalla scuola.

                                                                            a.v.

 

Vado a scuola o contrabbando sigarette?

Fin troppo facile la scelta per un ragazzino dell’Albergheria, nel centro degradato di Palermo – La vicenda di Salvatore, dodici anni, che ha abbandonato la scuola perché ha trovato lavoro e può mantenere la famiglia – Del tutto irrilevante, nella sua ottica, il fatto che si tratta di un lavoro illegale – Nino Rocca, che nel capoluogo siciliano guida un centro sociale, illustra la frustrazione degli operatori scolastici alle prese con una società che vive di lavoro nero e illegalità

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la parte iniziale dell’intervento del prof. Nino Rocca, presidente del Centro sociale Francesco Saverio di Palermo

Vorrei parlare ma in maniera molto concreta attingendo all’esperienza del Centro sociale che da dieci anni opera in un quartiere a rischio di Palermo, un quartiere del centro storico dove il problema della mafia lo si tocca con mano. Vorrei partire proprio dall’esperienza che noi abbiamo fatto, facendo parlare i protagonisti del nostro lavoro, che sono i ragazzini. Non soltanto loro, perché ci siamo rivolti al quartiere secondo un modello di pedagogia territoriale cercando in qualche modo di coinvolgere la gente ad essere essa stessa protagonista del proprio riscatto. Cosa facile a dirsi, molto difficile a realizzarsi, e poi abbiamo capito anche perché tutto questo è molto più difficile. Incomincio a dire innanzitutto, per contestualizzare, che da una ricerca che è stata fatta proprio sul volontariato risulta che nel Meridione ci sono più di seimila associazioni con settecentomila volontari, e Palermo viene considerata tra le grandi città quella che ha il numero di associazioni e di volontari più alto rispetto alle altre città d’Italia. Tutto questo non ci deve trarre in inganno, perché è pure vero che il volontariato, e chi lavora nel volontariato se ne rende conto, è molto debole, fragile, precario, e spesso non ha quella formazione che viene oggi più che mai pretesa dalle varie associazioni prima di accettare qualcuno. Perché il compito del volontariato è un compito molto complesso e molto difficile, e talvolta anche molto ingrato. Riprendendo un po’ il discorso sulla contestualizzazione della città, Palermo così come è stato detto da una ricerca sociologica, da una delle poche ricerche sociologiche fatte sulla città di Palermo, è una città spuria, una città che molto più si avvicina alle città sudamericane, ha attualmente il 25 per cento di disoccupati, uno su quattro è disoccupato, nei quartieri popolari la disoccupazione arriva al 60-70 per cento, è una città che non riesce a giustificare la sua produttività. Cioè non riesce a giustificare le sue spese, perché non produce quasi nulla, produce pochissimo, la più grossa industria di Palermo, i cantieri navali, che fino a dieci anni fa aveva circa seimila dipendenti, adesso è arrivata a cinquecento dipendenti e rischia di chiudere, c’è una vertenza sindacale proprio in questi giorni e si cerca un intervento statale. Un’altra grossa industria che rischia di chiudere è la Keller, che fa binari ferroviari. E’ dunque una città che non ha industria, che spende più di quanto produce e che ha più sportelli bancari in proporzione di Milano. Allora, come vive questa città, di che cosa vive? E’ un po’ l’interrogativo che tutti noi ci poniamo quando vediamo gli indicatori dei paesi del Terzo Mondo, si dice per esempio il reddito pro capite del Mozambico è cento dollari l’anno, ma come è possibile vivere? Anzi prima l’indice era ancora più basso, era quaranta dollari, è reputato uno dei paesi più poveri del mondo. Ma come si campa in questi paesi? Poi quando si va e si vive in questi paesi ci si rende conto che la realtà è un po’ diversa, cioè la realtà produttiva di Palermo è fatta di due componenti fondamentali, di lavoro informale, lavoro nero, e di lavoro illegale, di economia illegale. Tutto questo ha una sua incidenza fondamentale sulla dispersione scolastica: qui porto l’aneddoto di un ragazzino, Salvatore, dodici anni. Per un certo periodo noi avevamo una mensa cui partecipavano alcuni ragazzini che seguivamo in modo particolare perché considerati ragazzini a rischio. Salvatore ha deciso di abbandonare la scuola dell’obbligo: il motivo di questa sua decisione è che ha trovato un lavoro, e può campare la famiglia. Il suo lavoro però è il lavoro del contrabbandiere. Chiediamo a Salvatore che ha voglia di parlare e ci troviamo in un momento di convivialità, gli chiediamo quanto guadagna e che cosa ne pensa di questo lavoro. Ecco, Salvatore ha piena contezza del suo lavoro, delle sue capacità e della sua futura professione. Lui ci dice che lavorando otto ore al giorno guadagna circa ottocentomila lire vendendo le sigarette di contrabbando e che il suo datore di lavoro, il contrabbandiere, guadagna circa venti milioni al mese. E ci fa tutti i calcoli matematici delle sigarette che vende e quanto ricava e di quanto è il suo lavoro. Salvatore conosce male le tabellone ma quanto si tratta di fare i conti delle sigarette che vende e dei ricavi e dei costi e dei benefici è bravissimo e ineccepibile. Gli chiediamo a questo punto se lui non ritiene ingiusto che il contrabbandiere guadagna venti milioni al mese e lui appena ottocentomila lire. Ma lui ha una giustificazione anche per questo, perché lui come ragazzino apprendista lavoratore guadagna ancora poco e tra l’altro lui non rischia, perché se viene la polizia, la finanza, non lo possono arrestare, mentre il contrabbandiere rischia di pagare cento milioni di multa. Quindi ritiene che la paga che lui riceve dal suo datore di lavoro sia più che giusta. Tra l’altro ritiene che è un lavoro onesto, che non fa male a nessuno, e che nel quartiere è abbastanza legittimato. Non solo ma, a proposito di identità, Salvatore viene rispettato da tutti e acquista una identità e una forte personalità all’interno del quartiere perché è una persona, un ragazzino su cui si può contare. Rispetto a questi argomenti che Salvatore ci dice con molta semplicità ma anche con molta puntualità tutte le nostre argomentazioni sulla validità della scuola restano senza argomento, senza giustificazione. Perché Salvatore deve andare a scuola? Che cosa la scuola gli può promettere? Sono le domande che lui si è posto, che la famiglia si è posta e a cui Salvatore ha risposto: è meglio garantirsi un lavoro che gli promette un guadagno abbastanza dignitoso, anzi addirittura attraverso cui può diventare pure ricco, piuttosto che andare a scuola senza alcuno sbocco lavorativo. Salvatore ha fatto i suoi conti, Salvatore ha fatto la sua scelta. Rispetto alla scelta di Salvatore ogni altra nostra possibilità di intervento non ha nessuna garanzia di successo. Ma andiamo oltre, c’è Tonino, a cui prima facevamo fare i compiti. Leggo dal diario di un’operatrice: ecco Tonino ieri doveva fare un riassunto sulla rivoluzione francese. Mi dico meno male, una cosa interessante, meglio dell’analisi grammaticale, cominciamo a leggere: la monarchia assoluta non consentiva di attuare al cuna riforma – leggo dal libro, dal testo – nonostante l’affermarsi delle idee illuministiche. Tonino, lo sai che cosa è una monarchia assoluta? No. Cominciamo a parlare, e che cosa è una riforma, e che cosa sono le idee illuministiche… E spieghiamo. Tonino: misca, tutte queste cose ci sono scritte in tre righe? Da un lato era contento, ma poi era pure seccato. Il tempo passava e lui voleva fatto il riassunto da me. Penso che ci dobbiamo togliere questa ansia io e lui dei compiti non fatti ma come si fa? Vorrei avere il tempo, lo spazio. Ma andiamo avanti. Ecco una bambina di dieci anni che va in un’altra scuola, un altro contesto culturale. Ieri Annalisa mi dice: ma tu sei di destra o di sinistra? Di sinistra direi. Io prima pure, ma ora mi sto cominciando a spostare verso destra, Lega, Forza Italia, quasi quasi ora Alleanza Nazionale. Devo fare una nuova costituzione ma non di 39 articoli, ne basta uno solo: comando io e non si accettano obiezioni. Sarà una monarchia, ma non di quelle costituzionali, una monarchia assoluta. Più tardi la trovo intenta a scrivere l’organigramma del suo regno. Governo femminile, aggiunge, della regina Annalisa, matematico e scienziato di corte, giù il nome di un compagno, credo. A che ti serve un matematico? A tenere il conto delle mie vittorie. Disegnatore e pittore di cartine geografiche, accompagnatrice, poeta, ecc. Mi chiedo quindi ancora oggi: per chi è fatta la scuola, per chi i libri? Ci sarà mai un giorno in cui Tonino Ballarò e Annalisa Strasburgo (Ballarò è un quartiere a rischio, viale  Strasburgo un’area residenziale) capiranno mai le stesse cose, parleranno mai la stessa lingua? In una stessa città ci sono due abissi di cultura e di codice di carattere linguistico e culturale. Eppure la scuola è fatta più per Annalisa che per Tonino.

 

                                                                                    ( 5 – continua )

 

                                                                                                     

 

                                                                                                 

 

                                                                                                            

 

 

                                                                                                     

 

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