L’abbecedario di
Pinocchio Lettera aperta alle
famiglie su un tema scottante, quello dei libri di testo – Il
loro costo, a carico dei genitori fin dalle medie inferiori dunque
in piena scuola dell’obbligo, lede il dettato costituzionale,
che parla di istruzione non soltanto obbligatoria ma anche
gratuita – Secondo lo studio di un’organizzazione di tutela
dei consumatori, per un ragazzo che va in prima media si spendono
mediamente oltre 700 mila lire – Bene, proviamo a pensare a
certe famiglie ricche soltanto di figli… Cari genitori, mi
piacerebbe ricordarvi, o portare a conoscenza di quelli che ancora
non lo sanno, che nella Costituzione della Repubblica Italiana
l’art. 34 al secondo comma dice: “L’istruzione inferiore,
impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”. Ho
qui davanti un dato dell’ADUSBEF, un’associazione di tutela dei
consumatori: secondo loro quest’anno un ragazzo che va in prima
media costerà alla famiglia 725 mila lire per l’acquisto dei
libri, oltre un milione se si calcolano i vocabolari. Ecco, siccome
questi sono i fatti io mi chiedo quanti di voi siano realmente
coscienti di subire una grave ingiustizia che si fonda su
un’aperta violazione della Costituzione. Alcuni giorni fai più
importanti quotidiani hanno ospitato a tutta pagina l’appello
dell’editrice Mursia, che nell’intento di difendere la qualità
del suo prodotto ha dimenticato di precisare che il costo dei libri,
secondo la nostra legge fondamentale, non deve gravare sulle vostre
tasche, fral’altro già abbastanza alleggerite, e questo fin dalle
elementari, dall’acquisto di altri supporti didattici quali
quaderni, zaino, matite, diario. In Italia esistono leggi
all’avanguardia per la tutela dell’infanzia, per esempio quella
che vieta esplicitamente ai minori di 15 anni l’entrata nel mondo
del lavoro. E’ noto però a tutti come soprattutto in alcune
regioni questa normativa non venga rispettata, al punto che ci sono
intere famiglie mantenute da bambini lavoratori. Ma la denuncia non
basta: io qui, come presidente di questa associazione che si occupa
di garantire a tutti il diritto all’istruzione, mi appello a chi
ha il dovere di tutelare il rispetto della legge affinché questo
dovere lo faccia meglio. Poi mi permetto di invitare la signora
Fiorenza Mursia, autrice dell’intervento in difesa dell’editoria
scolastica, a seguirmi nei miei frequenti pellegrinaggi nei
quartieri più poveri delle nostre città. Dovrebbe ascoltare il
parere di quelle persone che in genere hanno famiglie numerose,
quindi problemi enormi per comperare i suoi bei libri di testo. Di
solito quelle persone non leggono il giornale e quindi non hanno
saputo del suo appello, né della mancata precisazione del punto
fondamentale: a chi tocca, secondo la Costituzione, sborsare quei
soldi. Siamo nel paese di Pinocchio o no? Quanti babbi come Geppetto
devono ancora vendersi pure il cappotto per comprare l’abbecedario
al figlio? Noi della LAPIS diciamo che è anche inaccettabile la
proposta di fornire gratuitamente i libri di testo soltanto alle
famiglie disagiate. La legge costituzionale deve essere uguale per
tutti, inoltre dobbiamo evitare almeno con i bambini di rimarcare le
differenze sociali. L’unica soluzione praticabile è
l’applicazione alle medie dello stesso sistema in uso alle
elementari. I margini dovrebbero esserci, visto che come spesa per
l’istruzione (3,4 per cento rispetto al PIL) siamo agli ultimi
posti in Europa. Del resto nell’età dell’euro basterebbe
gettare uno sguardo fuori frontiera (a quanto pare nonostante
Schengen le frontiere culturali esistono ancora) per rendersi conto
di come per esempio in Baviera il problema del fornire gratuitamente
i libri di testo è stato risolto in un modo molto semplice:
prestando i volumi necessari ai ragazzi che alla fine dell’anno si
impegnano a restituirli in buone condizioni, altrimenti li
pagheranno. Trovo che questa è una forma molto civile, anche per
educare i ragazzi al rispetto della carta stampata. Oppure perché
non fare un pensierino a tutti quei computer modernissimi e del
tutto inutilizzati che visitando le scuole di tutta Italia ho spesso
visti addirittura in stanze chiuse a chiave? Si potrebbe utilizzarli
prima che invecchino, per esempio per produrre delle dispense da
distribuire ai vostri figli. In questo modo sarebbe anche risolto il
problema del peso da portarsi dietro giornalmente, quei chili e
chili di ingombrante e costosissima carta patinata. La scuola dell’illegalità Il drammatico ritardo
dell’istituzione scolastica rispetto ai mutamenti radicali in
corso nella società denunciato da Giuseppe Urso, pedagogista e
insegnante a Taranto – Le aspettative disattese nella provincia
jonica, che pure è stata una delle aree coinvolte nei “progetti
integrati” per combattere le patologie della scolarità – Un
tasso di dispersione superiore al 12 per cento nelle medie, con
punte altissime nei quartieri urbani di periferia – Di troppi
ragazzi non è la scuola a farsi carico, ma la giustizia minorile L’intolleranza più
tremenda è quella dei “poveri”, che sono le prime vittime della
differenza (U. Eco, Scritti morali, 1997). Chi è stato molto
umiliato a volte non riesce a perdonare, né a dimenticare (E.
Cioran). La “sfida educativa” è qui riassunta, ma ad oggi manca
ancora un “pensiero”, una dottrina che in qualche maniera possa
sostenerla. La scuola d’altronde vive una dimensione di
“mancanza”, di isolamento culturale grottesco, di assoluta
arretratezza rispetto al nuovo e al diverso e diviene sempre più
luogo di disagio e di coercizione anziché di liberazione
dell’anima. Gli intrighi politici che sempre ne hanno decretato un
indicibile stato di subalternità e di notoria precarietà rispetto
ai propri compiti istituzionali, accentuano in maniera irreversibile
le disillusioni e le ansie degli insegnanti e dei giovani studenti
lasciati al cospetto del “grande vuoto” che si preannuncia
drammaticamente. E’ paradossale che siffatta istituzione possa
ancora legittimamente aver cura della personalità. Ancor più
sgomenta l’idea di quanto essa sia inadeguata riguardo ai saperi
scolastici propinati, resi parcellizzati eludendo di trovarsi in una
società radicalmente cambiata e composta – multirazziale – così
che nell’imminente si pongono ineludibili bisogni educativi di
integrazioni etniche, culturali, religiose e seppure nella
indifferenza e silenzio cresce a dismisura la domanda di
“condivisione” e di “convivenza” e di “accettazione”
delle nuove diversità, dei nuovi poveri, rendendo inammissibile
l’estraniazione e mettendo al bando ridicole leggi di contenimento
e di misure anti-immigrazione; il nostro europeismo non potrà porre
alcuna frontiera dinanzi alla diaspora dei popoli oppressi. La
scuola italiana e la cultura che essa rappresenta non segue tali
vicende, ne è lontana anni luce, è segnata dall’infinito
dilettantismo e balbettio di estenuanti dibattimenti parlamentari su
vaghe e presunte riforme, di parità, di riordino dei cicli, dei
nuovi ordinamenti, un brutto affare che ci costerà tanto e che le
giovani generazioni difficilmente potranno perdonarci, non basta
adesso solo salvaguardarsi dalle crepe ideologiche, serve
preoccuparsi delle crepe morali difficilmente sanabili. Una
radiografia che mette la scuola a nudo di fronte alla propria crisi,
di non più ricuperabilità, coerentemente legata ad una fase
storica di decadimento, che ha posto l’uomo nell’angusto spazio
dei propri limiti esistenziali, e di un “relativismo valoriale”
che vanifica ogni principio progettuale di cambiamento. Tale
preoccupata “attenzione” rivolta alla funzionalità della scuola
è diretta a porre in essere il suo delicato compito che è rivolto
alla promozione della dignità e della sensibilità della persona e
all’offrire reali e pari opportunità ad ognuno nella tutela e nel
rispetto di ogni diversità. Duole ammetterlo ma così non è, la
scuola pubblica viene umiliata e resa sempre più misera – vedi il
contenimento della spesa, la razionalizzazione della rete scolastica
e le assurde misure di soppressione e di accorpamento di plessi
scolastici – cresce la disaffezione ed un eloquente dissenso e
malumore pervade gli animi. In questo bailamme cosa ne è della
“formazione”, quale destino è riservato ai tanti ragazzi in
“abbandono” degli studi, tema di estrema attualità, e quali i
risultati cui si è giunti adottando le misure del progetto
ministeriale “progress” relativo alla obbligatorietà,
dell’anno 88, attraverso la realizzazione di progetti pilota
mirati ad affrontare le patologie della scolarità che vanificano il
diritto allo studio. L’annoso problema veniva posto solo in
termini meridionalistica – come poteva essere diversamente? –
con la individuazione di alcune province per l’attuazione dei
“progetti integrati di area P.I.A.”; Taranto era tra questi
siti. Il principio su cui il progetto si basava era la
riconsiderazione della dispersione scolastica, non più fatto
puramente fisiologico e di accettazione fatalistica, per favorire
una cultura dell’azione integrata attraverso una significativa
attenzione rivolta alle politiche formative e di impiego di
personale all’uopo indirizzato. Le aspettative progettuali e
ministeriali allo stato attuale nella provincia jonica rimangono
comunque “disattese”, pur in presenza di una lodevole
differenziazione tipologica di interventi; ma l’istituzione dei
gruppi di lavoro, l’osservatorio, l’anagrafe scolastica, le
intese interistituzionali, il coordinamento, rimangono nei sogni,
pura utopia, agli effetti manca una ampia problematizzazione sul
piano pedagogico, né si può avere la pretesa legislativa di
superare ostacoli di varia e complessa natura, tipo rifacimento
strutturale della quasi totalità degli edifici, dei trasporti, dei
servizi di mensa, di medicina scolastica, di supporti
psicopedagogici, di sussidi, di aggiornamento del personale e quanto
altro. Nell’ambito del territorio jonico, ritornando al progetto
ministeriale, vengono di conseguenza individuate dal provveditorato
dei circoli didattici scuole secondarie di primo grado aventi in comune ciò che
d’uso si chiama “sindrome dell’abbandono”. Strano a dirsi ma
dopo vari anni Taranto ancora non possiede, e ne aveva, una adeguata
“letteratura” riguardante il fenomeno dispersione scolastica in
riferimento all’obbligo se non una mia pubblicazione del 1997, per
il resto sono stati acquisiti, da parte degli organi ufficiali
preposti, solo elementi statistici aggregati in maniera da non
consentire una chiara lettura interpretativa dell’intera
fenomenologia. Allora i dati per chi evade la scuola, che indicano
la incompiutezza in età evolutiva del processo educativo, sono
allarmanti e di inaudita gravità e da soli denunciano la
ribellione, la fuga, il rifiuto degli stereotipi dettati a scuola,
la negazione di un becero conformismo, la devianza, la negazione
della vita. Nelle elementari, per tutti i distretti scolastici, nel
quinquennio 1987-92 esaminato e documentati dalla suindicata opera,
i dropout ammontano a 945 unità, nelle medie nell’ugual periodo
12294 dispersi, il 12,3 per cento, con un rapporto dispersivo pari a
tre su venticinque. Il fenomeno dispersivo si presenta
particolarmente inquietante nelle aree più disagiate – veri Bronx,
piaga comune di ogni quartiere a ridosso degli agglomerati cittadini
– qui molti bambini e ragazzi sanno già di appartenere ad un
clan, abituati a vivere tra vicoli pieni di insidie, posti di
continuo anche tra le mura domestiche in situazioni di intollerabile
degrado e coinvolti in modelli di comportamenti perversi che
esasperano le loro coscienze, modelli trasgressivi che dalla loro
mente difficilmente riusciranno a cancellare; ragazzi spesso
cooptati dalla microcriminalità. La scuola in queste zone è
rinunciataria. Il problema è che purtroppo dei tanti ragazzi così
drammaticamente coinvolti e sicuramente in stato di sofferenza
psicologica – si è infranta la purezza della loro anima di
fanciulli – a farsi carico sarà solo la giustizia minorile. In
città e provincia incombe pericolosamente il degrado sociale,
economico ed ambientale, il malessere dilaga e qualsiasi altra
attestazione, seppur provenga dalle autorità civili, militari,
politiche o religiose, di ripresa o di benessere o di contenimento
criminoso è pura demagogia. Intanto nelle sedi scolastiche d’ogni
ordine e grado partono le sperimentazioni sull’autonomia –
mentre la Camera dei deputati approva l’iniqua e vergognosa legge
sull’elevamento d’età dell’obbligo – nello spirito di un
federalismo che verrà ma che ci vedrà “perdenti”; la nostra
terra rimane di nessuno, una colonia, è terra del sud, appartiene a
noi desaparecidos, perché volerla cambiare? Si riaprono i battenti
per il nuovo anno scolastico, si alza il sipario e si fa
l’appello. Tutti in silenzio. La scuola… Assente!
Giuseppe Urso Vergogna: giocano a scacchi invece di studiare La desolante esperienza
di un’insegnante di scuola media, boicottata perché impegnava i
ragazzi attorno a una scacchiera – Questo straordinario esercizio
di logica considerato uno spreco di tempo – Come pregiudizi e
pigrizia, e in questo caso ignoranza, bloccano chi tenta strade
nuove – E persino chi cerca, applicando le disposizioni
ministeriali, di tenere l’insegnamento al passo con l’evoluzione
della cultura il timore diffuso di accollarsi qualche responsabilità
in più Una maestra
ondine a Montecristo Per Chiara Del Lama era tutto pronto: dopo un periodo di frequenza avrebbe proseguito la prima elementare collegata alla classe dalla sua isola per videoconferenza – Ma i genitori hanno deciso altrimenti: la piccola abiterà dai nonni e continuerà a frequentare personalmente la scuola – Il caso rivela comunque la possibilità che offre la telematica per garantire l’istruzione anche a piccole comunità isolate senza dover ricorrere a spostamenti non sempre facili – Il parere di Vittorio Monarca, il direttore didattico che aveva predisposto il “progetto Chiara” Si immagini una bambina che raggiunge l’età scolastica e vive
con i genitori, unica famiglia, in un’isola a molte miglia di mare
dalla scuola più vicina. Una bella sfida per uno Stato che la
Costituzione impegna a garantire a tutti l’istruzione, imponendola
come obbligatoria per nove anni. E’ il caso di Chiara Del Lama, la
sua isola è Montecristo nell’arcipelago toscano: piccola terra
baciata non soltanto da una ben nota celebrità letteraria ma anche
da splendidi doni naturali. Quella che fu riserva di caccia dei
Savoia ora è un’oasi protetta, una riserva naturale alla quale si
può accedere soltanto sotto attenta sorveglianza e con il limite di
mille visite all’anno. Una decina di anni fa i futuri genitori di
Chiara, Paolo e Serenella, vengono a sapere che il posto di
guardiano dell’isola sta per rendersi vacante e si fanno avanti.
Comincia così il loro duro lavoro, la sorveglianza della villa
reale, del museo e dell’orto botanico, la vigilanza lungo la costa
alla quale i pescatori non possono avvicinarsi, l’ascolto di
eventuali richieste di soccorso da parte di imbarcazioni in
difficoltà, la scorta ai visitatori nei mesi estivi. Quando in quel
piccolo paradiso terrestre arriva Chiara, si prospetta il problema
della scuola. Che fare? Un problema insolubile con i mezzi e la
mentalità tradizionali, a meno di non rassegnarsi alla separazione
della piccola dai genitori per l’intera durata degli anni
scolastici. Fortunatamente ci sono anche mezzi e mentalità non
tradizionali. In soccorso di Chiara, e del suo problema di piccola
eremita che non può né vuole né deve rinunciare alla scuola, ecco
arrivare le risorse della telematica. Un dirigente scolastico che
ama tentare terreni didattici inesplorati, Vittorio Monarca, mette a
punto un progetto. Direttore del primo circolo di Piombino, Monarca
ha familiarità con le tecniche informatiche. Propone dunque ai
genitori che la piccola, dopo avere frequentato per qualche
settimana la prima classe nella scuola di Riotorto, tanto per fare
la conoscenza della maestra, dei compagni e dell’ambiente, se ne
torni alla sua casa sull’isola. Ci penseranno un computer e una
telecamera ad assicurare il legame fra l’alunna in mezzo al mare e
la sua classe sul continente. Seduta al suo tavolino, Chiarapotrà
far giungere la sua voce per videoconferenza nell’aula di Riotorto,
che è dotata delle necessarie attrezzature. Potrà parlare con la
maestra, con i compagni. In un secondo tempo potrà comunicare anche
attraverso la tastiera. Naturalmente la decisione finale spetta alla
famiglia. E dopo lungo tergiversare i genitori di Chiara decidono:
per ora la piccola rimarrà sul continente, abiterà dai nonni e
frequenterà personalmente la scuola di Riotorto per l’intero anno
scolastico. Il direttore didattico Monarca non lo dice, ma è chiaro
che la decisione lo ha un poco deluso: teneva molto a questo
esperimento. Insiste infatti sulla natura sperimentale
dell’operazione: si sarebbe studiato il rendimento della scolara,
e in caso di risultato negativo se ne sarebbe preso atto.
“Soprattutto nelle prime classi”, dice, “la vita di relazione
è la cosa più importante”. Non ha difficoltà a concedere che la
relazione virtuale, l’insegnamento telematico hanno un grosso
limite: “escludono la relazione fisica, il potersi toccare, il
guardarsi negli occhi”. Ma questo non toglie che la telematica
potrebbe essere (Monarca insiste sul condizionale: il terreno è
praticamente inesplorato) anche per la scuola una strada per il
futuro. “Si interrogano i detenuti per videoconferenza, che è
dunque un sussidio per la giustizia, e con la stessa tecnica si
organizzano nelle imprese riunioni di lavoro che fanno risparmiare
le spese e i disagi dei viaggi: perché non applicare il sistema
alla scuola?” Pensa soprattutto a certe località di montagna,
nella stagione invernale difficilmente raggiungibili anche dai
servizi di scuolabus: ecco, qui si potrebbe tentare la stessa strada
che era stata progettata per la piccola scolara di Montecristo. Una
relazione virtuale, online, del tutto in linea con lo spirito del
tempo, alla quale certo bisognerebbe accompagnare la predisposizione
di una didattica nuova. Le nuove tecnologie potrebbero addirittura
invertire la tendenza che ha portato negli ultimi decenni al
cosiddetto consolidamento dei bacini di utenza. A concentrare cioè
nei centri maggiori, in istituti meglio dotati di attrezzature e
sussidi didattici, gli alunni che prima erano dispersi fra una
quantità di piccole scuole rurali, caratterizzate da bassa
frequenza e limitate disponibilità tecniche. Ora l’informatica e
la telematica possono annullare il vecchio handicap, e così come
stanno ridimensionando con il lavoro a domicilio, dopo secoli di
urbanesimo, l’addensamento delle popolazioni nelle città, rendono
di nuovo praticabili lo scenario della “istruzione diffusa”. Il
caso della bambina di Montecristo è assai significativo: con un
computer, un modem e una telecamera la scuola è garantita persino
nella piccola isola abitata da tre sole persone. Il sistema non è
nemmeno tanto costoso, fa notare il direttore didattico di Piombino:
tanto più che qualche provider di servizi telematici sarebbe
certamente disposto a praticare tariffe agevolate. Se non altro per
il fatto che all’interesse della comunità, di garantire comunque
a tutti l’istruzione di base, si affiancherebbe l’interesse
degli operatori informatici a diffondere il loro verbo tecnologico
fra bambini destinati a vivere in un’epoca che all’informatica
assegnerà un ruolo centrale. Ci sia permesso di aggiungere che in
ogni caso non c’è problema di costi che tenga, di fronte
all’impegno costituzionale dell’istruzione non soltanto
obbligatoria ma anche gratuita. Questo impegno conosce già troppe
deroghe, a cominciare dallo scandalo dei libri a pagamento
nell’ultimo ciclo dell’obbligo. Nel caso di Chiara, questa
innovativa sperimentazione è forse soltanto rimandata. Nulla
impedisce infatti ai suoi genitori, dopo che un intero primo anno di
frequenza normale l’avrà familiarizzata con la scuola, di
riprendersi la bambina nella loro casa sull’isola e farle
proseguire l’istruzione per via telematica. Tanto più che la
bambina è intelligente e può contare su un favorevole ambiente
familiare: si è infatti presentata in prima che già sapeva leggere
e scrivere in stampatello. Ha anche un ottimo rapporto con i
compagni, alcuni dei quali del resto già conosceva quando ancora la
scuola non era cominciata. Infatti la scorsa estate, qualche
settimana prima del fatidico quindici settembre, erano andati a
visitarla a Montecristo, e lei aveva fatto gli onori di casa
mostrando ai piccoli ospiti le meraviglie della sua isola, la
favolosa isola del tesoro.
a.v. Obbligo
scolastico: il caso della Pennsylvania Una lunga battaglia a
Harrisburg, la capitale del grande Stato industriale, attorno al
progetto di modificare l’età di accesso all’istruzione di base
– E’ attualmente compresa fra gli 8 e i 17 anni, alcuni anni fa
si propose di allineare la Pennsylvania alla maggior parte degli
altri USA, dove la scuola dell’obbligo comincia a 6 anni e finisce
a 18 – Ma il progetto fu osteggiato con successo dal gruppo di
pressione dei cosiddetti homeschoolers, che preferiscono avviare
l’istruzione fra le pareti di casa Un dibattito singolare, almeno visto
dall’ottica italiana, quello che per anni ha contrapposto in
Pennsylvania, lo Stato dell’industria pesante che si estende fra
New York e la Virginia, fra i Grandi Laghi e l’Atlantico, la lobby
dei cosiddetti homeschoolers e la locale amministrazione
democratica. Gli homeschoolers sono i fautori dell’vvio
dell’istruzione in famiglia, dunque di un accesso ritardato alla
scuola. Il governatore Casey aveva proposto di allineare in materia
di obbligo scolastico la legislazione della Pennsylvania a quella
della maggior parte degli altri Stati dell’Unione, dove la
compulsory school comincia a 6 anni e finisce a 18. si trattava
dunque di mandare a scuola anche i 26 mila bambini compresi fra i 6
e gli 8 anni. Secondo Casey e la maggioranza del suo partito,
mandare a scuola i bambini all’età di 8 anni significa mettere in
pericolo i piccoli di età inferiore appartenenti alle famiglie più
disagiate: per loro infatti l’alternativa alla scuola non è altro
che la strada. Non è questo naturalmente il caso degli
homeschoolers, che hanno evidentemente alle spalle famiglie in grado
di provvedere alla primissima formazione. Ma di quei 26 mila,
facevano notare i parlamentari dello Stato favorevoli all’anticipo
dell’età scolare, soltanto cinquemila sono gli homeschoolers,
quelli cioè che fruiscono di famiglie in grado di provvedere a loro
anche sul piano educativo. Contro il progetto del governatore e del
suo dipartimento per la pubblica istruzione, ecco dunque scendere in
campo i fautori della scuola a domicilio. Sono una lobby molto bene
organizzata, con tanto di bollettino (s’intitola ovviamente
Pennsylvania Homeschoolers) e presenza su Internet. Ecco Howard
Richman, condirettore del bollettino, tempestare rappresentanti e
senatori con le sue argomentazioni. Il governatore Casey, scrive
Richman, sostiene che vuole mandare i bambini a scuola per salvarli
dalla strada. Ma il suo obiettivo, per quanto lodevole, non può
raggiungerlo abbassando l’obbligo scolastico. Infatti una misura
di questo genere, è sempre Richman a sviluppare il discorso, è
inapplicabile alle famiglie senza fissa dimora, irraggiungibili da
parte dei funzionari dell’anagrafe scolastica. Quanto alle
famiglie disagiate, affidano già i loro bambini anche più piccoli
alle strutture pubbliche. Conclusione: ogni legge sulla frequenza
scolastica obbligatoria lede le libertà individuali, dunque l’età
dell’obbligo può essere estesa soltanto se ci sono delle ragioni
inattaccabili per farlo. Ma non è questo, a pare di Richman, il
caso della Pennsylvania. Come accade spesso dovunque le
articolazioni politiche corrispondano almeno in parte alla struttura
economica della società, le due posizioni contrapposte hanno finito
con il polarizzarsi lungo le linee degli schieramenti classici: da
una parte i democratici, tradizionalmente attenti al sociale e
dunque favorevoli all’abbassamento dell’età dell’obbligo
visto come misura di protezione dei piccoli meno fortunati,
dall’altra i repubblicani, il partito dei ceti più abbienti,
fautori della libertà e della flessibilità deregolatrice, dunque
nel caso specifico dei diritti delle famiglie che intendono avviare
da sé i loro bambini all’istruzione. Nel novembre 1994 si è
votato anche in Pennsylvania per la nomina del nuovo governatore
dello Stato. La “campagna elettorale” degli homeschoolers è
interessante non soltanto per il tema specifico cui si riferisce, ma
anche come saggio di come concretamente funziona la democrazia
americana. Ai due contendenti alla massima carica dello Stato
Richman invia una domanda: “qual’è la sua posizione sulla
proposta di abbassare l’inizio dell’età dell’obbligo a 6 anni
e di elevarne la conclusione a 18?” Il candidato democratico
Singel risponde che esaminerà con attenzione ogni proposta,
assicurando che cercherà di dare ai genitori quante più opzioni
possibile. Più diretta la risposta del repubblicano Ridge: sono
contrario a ogni modifica delle norme attuali sull’età
scolastica. Risultato: gli homeschoolers appoggiano pubblicamente
Ridge, che vince la contesa elettorale e diventa governatore. Da
quel momento, nessuno ha più proposto di ritoccare la legge. Questo
il commento che Richman ha affidato alla rete: “Grazie a Dio siamo
riusciti a difendere i nostri bambini da un ingresso prematuro
nell’istruzione formale”. Ma in democrazia nulla è definitivo:
il mandato del governatore repubblicano sta per scadere e si
avvicinano nuove elezioni. Ancora una volta si discute il
Pennsylvania se la libertà delle famiglie più abbienti di avviare
l’istruzione dei propri figli debba prevalere sul diritto dei ceti
più disagiati di assicurare comunque ai loro piccoli
un’assistenza scolastica. Se cioè i bambini vadano difesi dalla
strada o dalla scuola.
a.v. Vado
a scuola o contrabbando sigarette? Fin troppo facile la
scelta per un ragazzino dell’Albergheria, nel centro degradato
di Palermo – La vicenda di Salvatore, dodici anni, che ha
abbandonato la scuola perché ha trovato lavoro e può mantenere la
famiglia – Del tutto irrilevante, nella sua ottica, il fatto che
si tratta di un lavoro illegale – Nino Rocca, che nel capoluogo
siciliano guida un centro sociale, illustra la frustrazione degli
operatori scolastici alle prese con una società che vive di lavoro
nero e illegalità Proseguiamo la pubblicazione delle
relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione
scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e
26 ottobre 1997. In questo numero la parte iniziale
dell’intervento del prof. Nino Rocca, presidente del Centro
sociale Francesco Saverio di Palermo Vorrei parlare ma in maniera molto concreta attingendo all’esperienza del Centro sociale che da dieci anni opera in un quartiere a rischio di Palermo, un quartiere del centro storico dove il problema della mafia lo si tocca con mano. Vorrei partire proprio dall’esperienza che noi abbiamo fatto, facendo parlare i protagonisti del nostro lavoro, che sono i ragazzini. Non soltanto loro, perché ci siamo rivolti al quartiere secondo un modello di pedagogia territoriale cercando in qualche modo di coinvolgere la gente ad essere essa stessa protagonista del proprio riscatto. Cosa facile a dirsi, molto difficile a realizzarsi, e poi abbiamo capito anche perché tutto questo è molto più difficile. Incomincio a dire innanzitutto, per contestualizzare, che da una ricerca che è stata fatta proprio sul volontariato risulta che nel Meridione ci sono più di seimila associazioni con settecentomila volontari, e Palermo viene considerata tra le grandi città quella che ha il numero di associazioni e di volontari più alto rispetto alle altre città d’Italia. Tutto questo non ci deve trarre in inganno, perché è pure vero che il volontariato, e chi lavora nel volontariato se ne rende conto, è molto debole, fragile, precario, e spesso non ha quella formazione che viene oggi più che mai pretesa dalle varie associazioni prima di accettare qualcuno. Perché il compito del volontariato è un compito molto complesso e molto difficile, e talvolta anche molto ingrato. Riprendendo un po’ il discorso sulla contestualizzazione della città, Palermo così come è stato detto da una ricerca sociologica, da una delle poche ricerche sociologiche fatte sulla città di Palermo, è una città spuria, una città che molto più si avvicina alle città sudamericane, ha attualmente il 25 per cento di disoccupati, uno su quattro è disoccupato, nei quartieri popolari la disoccupazione arriva al 60-70 per cento, è una città che non riesce a giustificare la sua produttività. Cioè non riesce a giustificare le sue spese, perché non produce quasi nulla, produce pochissimo, la più grossa industria di Palermo, i cantieri navali, che fino a dieci anni fa aveva circa seimila dipendenti, adesso è arrivata a cinquecento dipendenti e rischia di chiudere, c’è una vertenza sindacale proprio in questi giorni e si cerca un intervento statale. Un’altra grossa industria che rischia di chiudere è la Keller, che fa binari ferroviari. E’ dunque una città che non ha industria, che spende più di quanto produce e che ha più sportelli bancari in proporzione di Milano. Allora, come vive questa città, di che cosa vive? E’ un po’ l’interrogativo che tutti noi ci poniamo quando vediamo gli indicatori dei paesi del Terzo Mondo, si dice per esempio il reddito pro capite del Mozambico è cento dollari l’anno, ma come è possibile vivere? Anzi prima l’indice era ancora più basso, era quaranta dollari, è reputato uno dei paesi più poveri del mondo. Ma come si campa in questi paesi? Poi quando si va e si vive in questi paesi ci si rende conto che la realtà è un po’ diversa, cioè la realtà produttiva di Palermo è fatta di due componenti fondamentali, di lavoro informale, lavoro nero, e di lavoro illegale, di economia illegale. Tutto questo ha una sua incidenza fondamentale sulla dispersione scolastica: qui porto l’aneddoto di un ragazzino, Salvatore, dodici anni. Per un certo periodo noi avevamo una mensa cui partecipavano alcuni ragazzini che seguivamo in modo particolare perché considerati ragazzini a rischio. Salvatore ha deciso di abbandonare la scuola dell’obbligo: il motivo di questa sua decisione è che ha trovato un lavoro, e può campare la famiglia. Il suo lavoro però è il lavoro del contrabbandiere. Chiediamo a Salvatore che ha voglia di parlare e ci troviamo in un momento di convivialità, gli chiediamo quanto guadagna e che cosa ne pensa di questo lavoro. Ecco, Salvatore ha piena contezza del suo lavoro, delle sue capacità e della sua futura professione. Lui ci dice che lavorando otto ore al giorno guadagna circa ottocentomila lire vendendo le sigarette di contrabbando e che il suo datore di lavoro, il contrabbandiere, guadagna circa venti milioni al mese. E ci fa tutti i calcoli matematici delle sigarette che vende e quanto ricava e di quanto è il suo lavoro. Salvatore conosce male le tabellone ma quanto si tratta di fare i conti delle sigarette che vende e dei ricavi e dei costi e dei benefici è bravissimo e ineccepibile. Gli chiediamo a questo punto se lui non ritiene ingiusto che il contrabbandiere guadagna venti milioni al mese e lui appena ottocentomila lire. Ma lui ha una giustificazione anche per questo, perché lui come ragazzino apprendista lavoratore guadagna ancora poco e tra l’altro lui non rischia, perché se viene la polizia, la finanza, non lo possono arrestare, mentre il contrabbandiere rischia di pagare cento milioni di multa. Quindi ritiene che la paga che lui riceve dal suo datore di lavoro sia più che giusta. Tra l’altro ritiene che è un lavoro onesto, che non fa male a nessuno, e che nel quartiere è abbastanza legittimato. Non solo ma, a proposito di identità, Salvatore viene rispettato da tutti e acquista una identità e una forte personalità all’interno del quartiere perché è una persona, un ragazzino su cui si può contare. Rispetto a questi argomenti che Salvatore ci dice con molta semplicità ma anche con molta puntualità tutte le nostre argomentazioni sulla validità della scuola restano senza argomento, senza giustificazione. Perché Salvatore deve andare a scuola? Che cosa la scuola gli può promettere? Sono le domande che lui si è posto, che la famiglia si è posta e a cui Salvatore ha risposto: è meglio garantirsi un lavoro che gli promette un guadagno abbastanza dignitoso, anzi addirittura attraverso cui può diventare pure ricco, piuttosto che andare a scuola senza alcuno sbocco lavorativo. Salvatore ha fatto i suoi conti, Salvatore ha fatto la sua scelta. Rispetto alla scelta di Salvatore ogni altra nostra possibilità di intervento non ha nessuna garanzia di successo. Ma andiamo oltre, c’è Tonino, a cui prima facevamo fare i compiti. Leggo dal diario di un’operatrice: ecco Tonino ieri doveva fare un riassunto sulla rivoluzione francese. Mi dico meno male, una cosa interessante, meglio dell’analisi grammaticale, cominciamo a leggere: la monarchia assoluta non consentiva di attuare al cuna riforma – leggo dal libro, dal testo – nonostante l’affermarsi delle idee illuministiche. Tonino, lo sai che cosa è una monarchia assoluta? No. Cominciamo a parlare, e che cosa è una riforma, e che cosa sono le idee illuministiche… E spieghiamo. Tonino: misca, tutte queste cose ci sono scritte in tre righe? Da un lato era contento, ma poi era pure seccato. Il tempo passava e lui voleva fatto il riassunto da me. Penso che ci dobbiamo togliere questa ansia io e lui dei compiti non fatti ma come si fa? Vorrei avere il tempo, lo spazio. Ma andiamo avanti. Ecco una bambina di dieci anni che va in un’altra scuola, un altro contesto culturale. Ieri Annalisa mi dice: ma tu sei di destra o di sinistra? Di sinistra direi. Io prima pure, ma ora mi sto cominciando a spostare verso destra, Lega, Forza Italia, quasi quasi ora Alleanza Nazionale. Devo fare una nuova costituzione ma non di 39 articoli, ne basta uno solo: comando io e non si accettano obiezioni. Sarà una monarchia, ma non di quelle costituzionali, una monarchia assoluta. Più tardi la trovo intenta a scrivere l’organigramma del suo regno. Governo femminile, aggiunge, della regina Annalisa, matematico e scienziato di corte, giù il nome di un compagno, credo. A che ti serve un matematico? A tenere il conto delle mie vittorie. Disegnatore e pittore di cartine geografiche, accompagnatrice, poeta, ecc. Mi chiedo quindi ancora oggi: per chi è fatta la scuola, per chi i libri? Ci sarà mai un giorno in cui Tonino Ballarò e Annalisa Strasburgo (Ballarò è un quartiere a rischio, viale Strasburgo un’area residenziale) capiranno mai le stesse cose, parleranno mai la stessa lingua? In una stessa città ci sono due abissi di cultura e di codice di carattere linguistico e culturale. Eppure la scuola è fatta più per Annalisa che per Tonino.
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