Se la società è
malata Ogni singola classe
è un microcosmo sociale che riproduce in sé i caratteri del
mondo che la circonda – Può anche riflettere la prepotenza del
boss mafioso, o il pregiudizio razziale dell’ambiente di
provenienza – Ma poiché l’istituzione scolastica non può
abdicare alla funzione di trasmettere valori di tolleranza e di
legalità, si verifica in quei casi un cortocircuito fra scuola e
famiglia che è l’esatto contrario dell’auspicabile
cooperazione educativa Due episodi offerti dalla cronaca, storie
che fanno riflettere. Primo episodio. In una scuola media di Roma
una bambina ebrea viene derisa e ingiuriata, offesa e minacciata da
un compagno di classe, evidentemente portatore di un pregiudizio
antisemita assorbito fra le pareti di casa. Come va a concludersi la
vicenda? Il problema viene pubblicamente discusso? Quella famiglia
allevatrice di piccoli razzisti viene in qualche modo richiamata
alle sue responsabilità? Niente affatto: è la vittima che se ne
deve andare, come se fosse colpa sua. I suoi genitori le cercano
un’altra scuola. Sarà soddisfatto il precoce persecutore: nel suo
piccolo ha fatto la sua brava pulizia etnica. Sospiro di sollievo
nella scuola: sono prevalse le ragioni del quieto vivere,
l’interesse della stampa non dura che lo spazio di un mattino,
presto quei rompiscatole dei giornalisti se ne saranno andati e
tutto sarà finito. E la famiglia del sopraffattore, che ne dice?
Che dice del proposito del sindaco Rutelli, che vuol portare le
scuole di Roma in gita a Auschwitz? Secondo episodio. Questa volta
siamo a Napoli, anzi a Secondigliano, uno di quei quartieri in cui
il dissesto urbanistico va di pari passo con quello civile. Un
insegnante rimprovera il figlio tredicenne di un caporione
camorrista. Prontamente arriva la spedizione punitiva: botti da orbi
al professore che finisce all’ospedale. Anche qui, come nel caso
di Roma, è soprattutto interessante quel che accade dopo. La scuola
denuncia pubblicamente l’accaduto? I ragazzi vengono invitati a
riflettere su quell’universo distorto che è l’organizzazione
criminale? Qualcuno gli spiega che la camorra è la rovina della
loro città, la loro rovina? Niente affatto: ecco il bulletto
impettito e tronfio, circondato dai compagni che gli fanno da
guardie del corpo. Ha vinto lui e ne va fiero: ecco la classe che
minimizza, i ragazzi che non ricordano. Minimizzano anche insegnanti
e preside: non bisogna drammatizzare, sono cose che capitano, che ne
sapete voi di Napoli? Il capo d’istituto viene sostituito e un
coro di fischi accoglie la nuova preside. I ragazzi, e molti
genitori, protestano: non c’era bisogno di cambiare proprio
niente, tutto qui funzionava a meraviglia. I tre picchiatori offrono
una loro versione tardiva: non ci ha mandato nessuno, la rissa è
nata dopo che abbiamo contestato i metodi bruschi dell’insegnante.
Insomma il violento è lui, il professore aggredito, che prende
carta e penna e chiede il trasferimento. Sono storie amare, perché
ci mostrano una scuola impotente davanti al cortocircuito che a
volte si determina fra i valori che essa dovrebbe trasmettere e
quelli assorbiti dai ragazzi nel loro ambiente familiare e sociale.
Ora si parla di formazione speciale per gli insegnanti da impegnare
nelle cosiddette aree a rischio. E’ giusto: tener cattedra in un
ambiente sociale degradato richiede competenze aggiuntive rispetto a
quelle didattiche tradizionali. Non è facile difendere una certa
idea di società dove prevalgono idee esattamente contrapposte che
nella scuola, di cui ogni singola classe è un microcosmo
rappresentativo dell’universo sociale, si riflettono con assoluta
fedeltà. Dove proprio chi dice no alla mentalità mafiosa rischia
di apparire disadattato e di fatto lo è, in quel mondo di valori
capovolti. Formazione speciale dunque, alla quale andrebbero
affiancati incentivi economici e vantaggi professionali. Ma questo
purtroppo non basta. Infatti non è solo l’emergenza a
preoccupare. Se con interventi straordinari si può affrontare il
problema di Secondigliano, rimane comunque insoluto quello di Roma.
La scuola che ha ospitato il dramma della piccola ebrea serve
un’area residenziale che sarebbe davvero improprio definire di
prima linea. Qui siamo nella più disarmante normalità borghese.
Normale il quartiere, normale la scuola, normali le famiglie e gli
insegnanti. E’ forse da considerarsi normale anche il ragazzino
che si è portato da casa il pregiudizio razziale, scaricando sulla
compagna quello stesso odio che è la grande vergogna di questo
secolo? Interrogativo pesante, in attesa di risposte.
Alfredo Venturi Autonomia,
istruzioni per l’uso Il governo ha
approvato il regolamento sull’autonomia scolastica proposto dal
ministro Berlinguer – Riguarda l’organizzazione, la didattica e
la ricerca – Il trasferimento di poteri ai singoli istituti a
partire dall’anno scolastico 2000-2001 – “Si tratta di
spostare l’accento”, dice il titolare della PI, “dal concetto
di insegnamento a quello di apprendimento” – A parere di un
sindacalista “sarà una scuola un po’ meno borbonica, con meno
direttive che piovono dall’alto” Adattamento del calendario scolastico,
flessibilità dell’orario, superamento della struttura rigida
della classe, iniziative di recupero e di sostegno, insegnamenti
integrativi facoltativi, attività di cooperazione con altre scuole.
Su tutti questi punti i singoli istituti scolastici potranno
sperimentare vie nuove. Potranno farlo all’inizio dell’anno
scolastico o ad anno iniziato, su proposta dei docenti o dei
comitati dei genitori e degli allievi. Potranno farlo in
collaborazione con gli enti locali, potranno chiedere, se lo
vorranno, il sostegno del “nucleo di supporto
tecnico-amministrativo dell’autonomia”, del provveditorato agli
studi di competenza. Non ci sarà bisogno di autorizzazione, basterà
inviare i progetti “per conoscenza” alle autorità scolastiche.
Tutto questo fra due anni, a partire cioè dall’anno scolastico
2000-2001. si può ben dire che la scuola italiana saluterà il
nuovo millennio con una faccia nuova. Speriamo che sappia farlo non
soltanto come titolare formale di poteri nuovi, ma anche come
utilizzatrice effettiva degli stessi. Le premesse ci sono, e sono
incoraggianti. Prende infatti corpo, con l’approvazione da parte
del consiglio dei ministri del regolamento sull’autonomia, il
tanto atteso decentramento dei poteri in materia di pubblica
istruzione, parte di un progetto più generale di riforma che
comprende il riordino dei cicli e il prolungamento della durata
dell’obbligo, che andrà gradualmente portata fino ai dodici anni
(dai sei ai diciotto di età). Nel presentare alla stampa il
regolamento sull’autonomia, il ministro Luigi Berlinguer
sottolinea che non si tratta di un semplice ritocco organizzativo:
“si tratta soprattutto di rinnovare l’insegnamento, di
riorganizzare e riformare la didattica, di spostare l’accento dal
concetto di insegnamento a quello di apprendimento”. Accanto alle
misure sulla parità scolastica, sulle quali ci soffermeremo nel
prossimo numero di FOGLIO LAPIS, quelle che traducono nei fatti la
storica aspirazione all’autonomia della scuola italiana vogliono
essere, nelle intenzioni governative, un contributo alla
modernizzazione del paese attraverso il miglioramento dell’offerta
formativa. Commenta un sindacalista, il segretario generale aggiunto
della Cisl-Scuola Sandro D’Ambrosio: “sarà una scuola un po’
meno borbonica, con meno direttive che piovono dall’alto”.
Infatti lo stato si limiterà a individuare gli obbiettivi generali
e gli standard, con un ruolo di garante della qualità
dell’offerta formativa. Rimarranno di competenza centrale il
reclutamento e la mobilità del personale docente e non docente con
rapporto a tempo indeterminato, le autorizzazioni per utilizzazioni
ed esoneri per i quali sia previsto un contingente nazionale, le
autorizzazioni per comandi e collocamenti fuori ruolo, il
riconoscimento dei titoli di studio stranieri. Un ministero della
pubblica istruzione ristrutturato in profondità verrà in pratica
adeguato al suo ruolo residuo, comunque rilevante: avrà infatti
funzioni di indirizzo, programmazione, ricerca e sviluppo, controllo
e valutazione. Con una evoluzione simile, sul piano locale, anche i
provveditorati cederanno competenze agli istituti scolastici.
Inoltre continueranno ad avere valore per tutti alcuni elementi di
carattere generale, come la durata complessiva delle lezioni, il
fatto che le lezioni stesse andranno scaglionate su almeno cinque
giorni alla settimana, il numero di ore per le materie fondamentali,
la durata del lavoro per gli insegnanti. Ma all’interno di questa
intelaiatura di base ogni scuola potrà organizzarsi a sua scelta.
Tempi flessibili, introduzione di insegnamenti facoltativi,
interattività con altre scuole con possibilità di scambio
temporaneo di docenti, facoltà di utilizzare le strutture per
l’intera giornata e volendo anche i giorni festivi per eventuali
attività collaterali. Nel caso che le sperimentazioni comportino
oneri aggiuntivi, l’istituto scolastico potrà introdurre nel
proprio bilancio le variazioni del caso. E’ infatti prevista anche
una sorta di autonomia finanziaria, che consenta alla singola scuola
di gestire le proprie attività attraverso scelte che siano legate
non soltanto a considerazioni di ordine organizzativo o didattico ma
anche a un principio di produttività. Vengono in questo modo
introdotti nella scuola elementi di gestione manageriale che
potrebbero alla lunga rivelarsi preziosi, dovrebbero infatti
contribuire a “decalcificare” le nostre istituzioni formative,
eliminando quelle secolari incrostazioni che rendono così poco
agile, da sempre, il cammino e così marginale il ruolo nella società.
Di particolare interesse, di fronte alla piaga della dispersione
scolastica, la prospettiva aperta dall’autonomia in materia di
lotta contro il disagio e gli abbandoni. Il regolamento dice basta
(o per essere più precisi invita le scuole a dire basta…) alle
attuali classi rigide nelle quali i ragazzi in ritardo di
apprendimento finiscono col perdersi, senza possibilità di
riagganciare i compagni. Per recuperare gli alunni in difficoltà si
potranno formare dei gruppi che non coincidono con le classi
tradizionali, nei quali l’insegnamento venga personalizzato e
finalizzato a superare il ritardo. Interessante anche la libertà di
fissare gli orari delle lezioni, con il solo limite dei cinque
giorni settimanali (in pratica ogni singola scuola potrà scegliere
fra un orario addensato in cinque giorni e uno più diluito che
coinvolga anche il sabato) e di un numero minimo di ore per le
materie fondamentali. Si potranno anche sperimentare nuove forme di
aggregazione fra le materie. Sono prospettive di notevole interesse,
ma per docenti e discenti, per istituzioni e famiglie, insomma per
l’intero corpaccione sonnacchioso della scuola italiana, abituato
da decenni a vegetare fra le ovvietà della sua routine, si tratta
di una sfida difficile. Dipenderà da come la periferia saprà
accogliere e interpretare l’invito del centro, se la scuola del
Duemila sarà all’altezza delle generali aspettative di modernità
e di efficienza, trasformandosi in un solido pilastro del nostro
futuro nazionale e europeo. Questa scommessa è legata al suo
“divenire”, che come dicevano i filosofi idealisti non è altro
che il passaggio dalla potenza all’atto. In questo regolamento, e
negli altri propositi di riforma che lo precedono, lo accompagnano e
lo seguiranno, è infatti racchiusa una scuola potenziale di alto
livello. Se “diverrà”, se si trasformerà nella scuola
“attuale” dei nostri figli e dei nostri nipoti e delle
generazioni che seguiranno,dipenderà da come, a partire dall’anno
scolastico 2000-2001, presidi e insegnanti, alunni e famiglie,
sapranno gestire i loro nuovi poteri.
a.v. Il
dialogo fra la prima e la terza età Lo ha riconosciuto
anche una sentenza giudiziaria: per una crescita armoniosa il ruolo
dei nonni è insostituibile – Apporto affettivo e trasmissione di
esperienze e di saggezza – Come centinaia di bambini e ragazzi di
Cagliari, sollecitati da una singolare iniziativa, hanno saputo
cogliere l’essenza del rapporto fra le due generazioni estreme –
Il problema della solitudine degli anziani, vissuto dai nipoti come
una intollerabile ingiustizia Fu un’idea dell’arcivescovo di Cagliari,
Ottorino Pietro Alberti. Poiché nel capoluogo sardo si celebrava da
alcuni anni la Festa dei Nonni, gli era venuta la curiosità di
conoscere meglio quale immagine dei nonni avessero i loro nipoti. Di
qui l’invito alle scuole elementari e alle medie inferiori della
città: sollecitare composizioni, poesie e disegni su quel tema
specifico. Nel quadro della Festa in programma nel luglio 1993, una
commissione avrebbe vagliato il materiale giunto dalle scuole, anche
per premiare i lavori considerati migliori. Dall’iniziativa è
uscito un piccolo libro, Nonni e bambini (Edizioni della Torre,
Cagliari) in cui è raccolta una scelta fra i 700 elaborati con cui
le scolaresche della città risposero all’iniziativa. E’ una
lettura quanto mai suggestiva, che conferma senza ombra di dubbio lo
spirito di una recente sentenza, con cui la magistratura ha
stabilito l’insostituibilità del ruolo del nonno nella famiglia,
in pratica il diritto dei bambini di avvalersi, come del resto è
nella nostra tradizione patriarcale, non solo degli apporti
affettivi ma anche della trasmissione di esperienze e di saggezza
che solo questa figura è in grado di garantire. Con il loro
linguaggio immediato, che punta dritto all’essenza delle cose, i
piccoli hanno centrato il nocciolo del problema: il fatto cioè che
quel ruolo fondamentale è in gran parte disconosciuto nella società
di oggi. I nipoti parlano della emarginazione degli anziani, del
loro isolamento e della loro solitudine: considerano tutto questo
una grave iniquità e giudicano con severità certi egoistici
comportamenti dei genitori, quelli che sfruttano i vecchi fino a
quando sono sfruttabili per poi relegarli all’ospizio. In
positivo, gli scolari cagliaritani parlano di come i nonni sanno
arricchire la visione del mondo dei piccoli: con i loro racconti,
con la loro paziente disponibilità al gioco e al dialogo, con la
trasmissione delle tante cose che conoscono, con il loro patrimonio
di umanità e di simpatia. C’è il nonno che parla di politica
litigando con i figli che la pensano diversamente: ma in questo modo
offrendo ai nipoti il grande insegnamento del confronto delle
opinioni. C’è quello che si addormenta davanti al solitario con
le carte. C’è la nonna triste ma forte, capace di non versare
lacrime davanti alle avversità della vita. C’è quella che
rievoca il tempo che fu, personalissima lezione di storia locale. E
c’è quella che non è stata a scuola, ma non per questo è
incapace di aiutare la nipotina a fare i compiti di matematica. Di
queste fresche testimonianze ecco un’ampia antologia colta fra le
pagine del libro, che porta un sottotitolo significativo: I problemi
degli anziani chiamati dai bambini nonni. Preferiamo non pubblicare
i nomi dei piccoli autori, sia perché le brevi citazioni avulse dal
contesto non rendono giustizia alla complessità del discorso, sia
perché alcuni anni sono passati, il che significa non solo che i
ragazzi sono cresciuti, ma anche che l’inesorabile legge dell’età
può aver fatto scomparire alcune fra le persone di cui si parla.
“Molti lo considerano un vecchio mobile ingombrante che deve
essere messo in un ripostiglio, in modo che non disturbi…”.
“Grazie nonna Elena di avermi dato una madre attenta e brava”.
“Cara nonna Agnese, ora che ti è morto nonno sarai triste, ma ti
prometto che non ti lascerò da sola”. “Il nonno parla
volentieri di politica. Lui dice una cosa, papà ne dice un’altra
e lo zio un’altra ancora. Finisce spesso che bisticciano”. “Le
mani del nonno, forti, grandi, che hanno lavorato tanto, che hanno
aiutato tutti… ora gli bastano ancora per darmi delle carezze”.
“Con me la nonna è molto comprensiva; quando le chiedo di
spiegarmi qualche cosa me la spiega nei minimi particolari”. “Il
momento migliore per stare vicino al nonno è quando gioca a carte
da solo. Sta immobile, con le braccia sul tavolo, fissando le carte
con aria preoccupata, ed è così concentrato che quasi sempre si
addormenta. Avere un nonno è una gran bella cosa”. “Mia nonna
sa essere forte anche nei momenti più brutti della sua vita e
quando è infelice non vuole farlo sapere e non versa una sola
lacrima”. “La nonna mi parla tante volte di come era Cagliari
vecchia, della casa dove abitava la piccola, di quello che
combinava, di quando ha conosciuto mio nonno…”. “I nonni a
voltesi sentono emarginati per colpa delle critiche: ‘non sai fare
più nulla’. Quindi soffrono tantissimo”. “Quando sento mio
nonno raccontare qualche episodio dei suoi anni giovanili vedo che
il suo sguardo si accende di una luce strana. A me piace molto
ascoltare i miei nonni”. “Mio nonno non vuole che io faccia il
monello, ma quando i miei genitori mi sgridano lui mi difende e mi
rassicura”. “Certe volte la nonna mi aiuta a fare le operazioni
perché anche se non ha frequentato la scuola sa fare il pane e di
operazioni se ne intende”. “I miei nonni a me e a mia sorella
Sara e a mamma ci hanno aiutati nei momenti difficili, perché la
mamma è separata da nostro padre”. “I vecchi secondo me non si
dovrebbero trattare male perché un giorno anche noi saremo vecchi e
ci dispiacerà se ci maltratteranno”. “Se non andiamo a trovare
i nonni essi si sentono inutili… ma se noi andiamo a trovarli si
rallegrano subito”. “Talvolta scartano queste persone, che sono
deboli e indifese come i bambini, li lasciano negli ospizi fino alla
morte. Questo a me da molto fastidio, perché sono ingiusti e
cattivi verso queste persone…”. “Io voglio bene alle mie nonne
e non permetto a nessuno di umiliarle o maltrattarle”. “Vorrei
dire a tutti quanti che è bello avere vicino i nonni. Essi sono
come un pianeta lontano dove ci sono moltissime cose che non ci sono
più sulla terra”. “Quando guardo il nonno, mi immagino che
tante volte lui sta pensando a sua moglie morta. Forse si sente
solo. Quando sono a casa mia lo penso e lo sogno”. “I valori
come l’amicizia, la solidarietà e l’onestà erano molto
importanti quando i miei nonni erano giovani e sono gli stessi
valori che ora cercano di trasmettere a me”. “Quando guardo mio
nonno penso… che potrebbe assomigliare a una radio dimenticata
accesa, perché sta sempre parlando e dice sempre le stesse cose”.
“Mio nonno assomiglia a una palla e io mi sento una pallina che
gli rotola dietro”.
Quando
il voto lo dà la classe I problematici
risultati di un “piccolo sondaggio sul gradimento della scuola”
realizzato dalla LAPIS in una piazza di Arezzo durante le giornate
del Forum della Solidarietà – Una ricerca senza pretese su un
campione di 155 alunni della scuola dell’obbligo che hanno
accettato di riempire i nostri formulari – Il dato che emerge
immediato è il deterioramento che l’immagine scolastica subisce
nel passaggio dalle elementari alle medie – Quanto è diffusa
l’insofferenza per gli insegnanti Un campione piccolo ma assai significativo
se non proprio rappresentativo del suo universo statistico. Sono gli
alunni delle elementari e delle medie che fra il 2 e il 4 ottobre
scorsi, durante le giornate del Forum della Solidarietà dedicate
quest’annoalla difesa dei diritti umani nel mondo, hanno visitato
in una piazza di Arezzo lo stand della LAPIS e hanno accettato di
riempire i nostri formulari. Sono stati 155, dei quali 48
frequentano le elementari, fra la seconda e la quinta, e 107 sono
suddivisi fra le tre classi della media inferiore. Alcuni erano
raggruppati in classi che visitavano il Forum con i loro insegnanti,
altri si aggiravano fra gli stando alla spicciolata, a volte in
piccoli gruppi di amici o in compagnia dei genitori. Nei formulari
si chiedeva di dare “alla tua scuola” un voto compreso fra 1 e
10 e di indicare “che cosa ti piace a scuola” e “che cosa non
ti piace”. Si chiedeva infine di specificare la classe
frequentata. Ebbene, veniamo dunque al voto. Contrariamente a quello
che si potrebbe pensare, e persino in parziale contrasto con le
risposte date alle due domande sostanziali, dal nostro esperimento
la scuola esce promossa, sia pure con poco più della sufficienza
per i ragazzi delle medie: 6,6 la media dei loro voti. Molto più
generosi, o se si preferisce non ancora delusi, i piccoli delle
elementari, che hanno mediamente assegnato alla scuola un
confortante 8,7. bisogna precisare che si tratta di valori medi
ricavati da valutazioni numericamente assai eterogenee. Per esempio
nonostante fosse richiesto di dare un voto compreso fra 1 e 10 non
sono mancati alcuni impietosi 0, del resto appena parzialmente
compensati da qualche 10. Era quasi inevitabile che in testa alle
risposte alla prima domanda di contenuto (“che cosa ti piace a
scuola?”) figurassero preferenze il meno possibile
“scolastiche”. Infatti al primo posto per i piccoli delle
elementari c’è ovviamente l’intervallo (circa il 30 per cento
delle risposte), mentre fra i ragazzi delle medie c’è stato un
vero e proprio plebiscito a favore dell’educazione fisica. Fra un
terzo e la metà degli alunni interpellati indica infatti nell’ora
di ginnastica (a volte sbrigativamente indicata come “fisica”,
tanto da far sorgere qualche illusione sulle vocazioni scientifiche
dei nostri ragazzi) il nec plus ultra della loro esperienza di
scuola. Piazza d’onore, sempre alle medie, per il solito
intervallo, del resto da alcuni giudicato “troppo corto”. Per i
più piccoli, invece, una indicazione lusinghiera a favore della
storia. E’ la materia preferita dal 28 per cento degli
interpellati, seguita da italiano, circa il 15 per cento, e poi a
debita distanza da geografia, scienze, matematica, disegno. Le
materie indicate come preferite dagli alunni delle medie sono invece
nell’ordine matematica (9 per cento), educazione artistica (7 per
cento), musica (4 per cento). Ma sono abbondantemente superate da
indicazioni del tutto diverse, che attengono non ai contenuti
programmatici ma alla scuola come luogo di socializzazione. Circa il
15 per cento degli interpellati, alla domanda “che cosa ti piace a
scuola?”, dà infatti risposte come “i compagni”, o “le
ragazze”, o “gli amici”. Uno di loro mostra di avere a cuore
la completezza dell’informazione e annota imparziale “alcune
materie e le ragazze”. Alcuni altri generalizzano in un senso o
nell’altro, rispondendo “tutto” o “quasi tutto”, o al
contrario “niente” o “quasi niente”. Risposte di
quest’ultimo tipo sono del tutto assenti fra i piccoli delle
elementari, evidentemente non ancora portati alla relativa
astrazione del “tutto” o del “niente”. Fra di loro si
affacciano invece i primi omaggi alla socializzazione con alcune
indicazioni quali “gli amici”, “l’amicizia” e persino, in
tre casi, “la maestra”. Veniamo ora alla seconda domanda
specifica: “che cosa non ti piace?”. Una domanda che sembra
fatta apposta per provocare lo spirito polemico dei ragazzi, assai
pronunciato alle medie. Gli alunni delle elementari danno invece
risposte più serene. Per loro, in testa a questa specie di
gradimento alla rovescia è la matematica, considerata la bestia
nera da più del 30 per cento. Ma anche italiano è messo piuttosto
male: non piace infatti a un quarto degli interpellati. Seguono
musica e inglese, mentre altri danno risposte più specifiche,
prendendosela per esempio con l’analisi grammaticale o con i
troppi compiti a casa, in particolare con i testi da riassumere. Un
bambino lamenta “il comportamento dei compagni”, un altro “le
punizioni”, un altro infine “il piazzale troppo piccolo”. E’
naturalmente alle medie che di fronte ala domanda “che cosa non ti
piace?” si rivelano disagio e ostilità, insomma il bennato
rapporto problematico con l’istituzione scolastica, che si
manifesta in molti casi proprio con il passaggio dall’istruzione
elementare alla seconda tappa dell’obbligo. A un numero
considerevole di ragazzi, oltre il 9 per cento degli alunni che ci
hanno risposto, della scuola non va bene proprio niente, o quasi
niente. Quasi un quarto del nostro campione lamenta i compiti a casa
o i compiti in classe, o i troppi compiti in generale. Il 14 per
cento dichiara apertamente la propria insofferenza per gli
insegnanti. Lo fa con indicazioni generiche (“i prof”, “le
prof”) o specifiche (“la prof d’inglese”,
“le prof e la preside”). Un sei per cento segnala come
cosa non gradita “il resto” o “tutto il resto”, riferendosi
alla risposta formulata alla precedente domanda (esempio tipico, a
testimonianza di un gradimento davvero troppo parziale: “che cosa
ti piace a scuola?” “Educazione fisica”. “Che cosa non ti
piace?” “Tutto il resto”). Fra coloro che entrano nel merito
dei programmi, anche alle medie è la matematica a suscitare le
maggiori ostilità, non piace infatti all’8 per cento degli
interpellati: ma come si è visto occupa il primo posto anche fra le
materie indicate comete più gradite. Segno chiaro che accanto alle
ragioni oggettive (il programma, la didattica, la qualità
dell’insegnamento), bisogna considerare anche quelle soggettive
(l’attitudine, il rapporto personale con la materia). Seguono fra
le indicazioni negative educazione tecnica (6 per cento), italiano e
educazione artistica (4 per cento), inglese, storia e musica (3 per
cento). Ci sembra degna di nota la quasi totale disponibilità dei
ragazzi a dare comunque una risposta: soltanto due di loro si sono
rifiutati, rispondendo alla domanda “che cosa non ti piace?”
rispettivamente “sono fatti miei” e “no comment”. Al
contrario molti ragazzi hanno scelto, nonostante non fosse
richiesto, di firmare con nome e cognome il loro formulario:
atteggiamento che ci pare indicativo, al di là delle molte critiche
espresse, di un diffuso desiderio di essere ascoltati, e se
possibile capiti.
f.s.
Insegnare
la fantastica A partire da questo
numero di FOGLIO LAPIS il prof. Filippo Nibbi illustra in una serie
di articoli i segreti di quella che definisce “l’arte di
inventare il possibile e di renderlo reale con il gusto del sogno,
della creatività e del piacere” – Un contributo, che siamo ben
lieti di ospitare, a quel recupero dell’immaginazione e dei suoi
poteri liberatori che appare tanto necessario oggi, sul finire di
questo secolo cupo, per riconciliare il mondo con se stesso Fantastica: “L’arte di inventare il possibile e di renderlo reale con il gusto del sogno, della creatività e del piacere” (F. Nibbi): disciplina propedeutica alla poesia (momento di autenticità assoluta, conseguito mediante la re-invenzione linguistica e la ri-fondazione della realtà). (Devoto – Oli, Dizionario della lingua italiana). La Fantastica – aggiungo – è l’unico modo per lavorare coi giocattoli. La radice storica della parola è la seguente: “Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare”. E’ quanto ipotizza un poeta tedesco, Novalis (1772 – 1801), attraverso un “frammento” intuitivo di fantasia, basato sulla fondamentale scoperta del carattere scientifico della fantasia, e fondamentalmente linguistico. In altre parole: se Pinocchio è un giocattolo, iniziando proprio dalla parola, che forma con Geppetto un binomio fantastico, scopriamo che ci sono parole che agiscono per lavorare coi giocattoli: li costruiscono, sviluppando una fantasia che straripa come anticamente il Nilo, rendendo fertile il terreno della storia umana. Lavorando coi giocattoli, Nilo divenne un bambino, che esiste veramente: si chiama Nilo Australi. Abita a Figline in Valdarno. Ha fatto un disegno poderoso, questo. Nilo mi disse che il naso di Pinocchio era lo stendino delle bugie. Più s’allungava, più bugie ci si potevano appendere. “Bene!”, gli dissi io: “Hai scopertoche le bugie sono utili. Perché assolvono una doppia funzione: quella di fare allungare il naso e quella di usarlo come stendino”. Il papà, che ne pensa? Ma mamma, sarà contenta? Che dice la maestra? Il disegno di Nilo suggerisce un modo per la reinvenzione linguistica e la rifondazione della realtà. Forse, l’unico modo. Se gli uomini da soli non ci arrivano, sarà una scimmiotta a suggerire la strada da seguire. Allora, la testa si riempirà di fantasia, e tornerà a galla come una nave affondata dalla diffidenza, dal terrore, dall’ignoranza. E gli uomini riprenderanno il proprio cammino nella storia dalla parte opposta. Diventeranno costruttori di pace, anziché di guerra. E i pacifici possederanno la terra.dice questo il disegno di Nilo. Come fare? Torniamo alle origini. All’albero della conoscenza del bene e del male. Gli uomini per potersi riconoscere devono – innanzitutto – potersi annusare. Gli annusamenti portano alla vera conoscenza. Impegnano tutti i sensi. Ci fanno tornare “animali” in maniera specifica, dal latino animalis-e “animato, che dà vita”. Ognuno per annusare ed essere annusato, deve essere tuttuno: tuttora, tututto, una cosa sola con la propria lingua, come Pinocchio e il pezzo di legno da catasta. Pinocchio può annusare ed essere annusato perché conserva il profumo di un pezzo di legno da catasta. In base a questo profumo, può essere in carne e ossa e di legno, può essere anche usato come cane; si può dire: “Pinocchio aveva il fiuto di un cane… Invece di stare alla catena, poteva trovare i tartufi”. Aggiunse Nilo: “I grandi non capiscono mai niente!”. Come si fa ad essere tuttuno tuttora tututto, una cosa sola con la propria lingua? Faccio un esempio: Cecilia, che esiste veramente come Nilo, abita a Monte San Savino, quando aveva due anni, vide il vento dalla finestra e disse questa parolina: “ventorale”. E’ una parolina della lingua di Cecilia. E’ molto affascinante. Cecilia si fa annusare e annusa attraverso paroline come questa. E’ lei chemi ha detto “il mio babbo mi ha fatto lavorare coi giocattoli”. E così si scopre che la famiglia, poi l’asilo nido, poi la scuola materna ed elementare… tutta la vita, possono diventare tuttuno tuttora tututto, una cosa sola con la reinvenzione linguistica e la rifondazione della realtà. Per fare questo, dobbiamo – come dice Cecilia: “Lavorare coi giocattoli”. E come?… Si potrebbe: 1- Lavorare coi giocattoli insieme ai bambini. 2- Mandare a mente tutte le parole nuove, cha nascono dalla corrispondenza biunivoca “bambino – oggetto” come dalla corrispondenza “Geppetto – pezzo di legno”. 3- Diventare “bambini” in proprio. 4- Correggere mai. 5- Annusare e farsi annusare mediante la lingua personale. Che succederà? Avete in casa un cane? Basta osservare il comportamento dei cani. Annusandola, il cane maschio si accorge se la femmina è recettiva o non lo è. E lei, dal canto suo, pubblicizza la propria disponibilità all’accoppiamento diffondendo intorno a sé feromoni profumati. E così con gli uomini. Lavorare coi giocattoli significa fare tanti Pinocchio: fare uomini fatti di parole profumate, venuti su con parole personali. Poesia, infatti, deriva da un verbo greco che significa “fare”. Per aiutare famiglie, asili nido, scuola materna ed elementare, a lavorare coi giocattoli, potremmo, all’inizio, pensare di formare dei “Ròdari club”. Perché “Ròdari club”? Perché Gianni Rodari è il fondatore della Fantastica. Nei prossimi numeri di FOGLIO LAPIS
continueremo a parlare della Fantastica. Intanto, quanti hanno
capito qualcosa già da quello che ho detto, e vogliono formare i
“Ròdari club”, possono comunicare intenzioni e suggerimenti a:
Filippo Nibbi
(1
– continua) Ma
non basta mandarli a scuola Non ha molto senso
combattere l’evasione se poi il risultato è una sorta di
dispersione interna segnalata dall’aumento delle bocciature – Il
disagio scolastico va infatti inserito nel suo contesto sociale –
In certi quartieri di Palermo sono proprio i ragazzi perfettamente
integrati in una società degradata, rispetto alla quale la scuola
è un corpo estraneo, ad abbandonare i banchi – Il problema del
lavoro e la sua connessione con le politiche del liberismo
monetarista Proseguiamo la pubblicazione delle
relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione
scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e
26 ottobre 1997. In questo numero la parte conclusiva
dell’intervento del prof. Nino Rocca, presidente del Centro
sociale Francesco Saverio di Palermo Dunque la scuola deve cambiare. Non è il
ragazzino che è deviato nella scuola, perché il ragazzino è
perfettamente integrato nel quartiere. In un quartiere come
Albergherai, in cui c’è il 70 per cento di disoccupati e in cui
le attività sono il toto nero, la corsa clandestina dei cavalli, il
contrabbando di sigarette, il traffico della droga, la riffa, e
tanti altri piccoli espedienti di lavori informali o di lavori
illegali, di economia illegale, è chiaro che Salvatore che sceglie
di fare il contrabbando è certamente più integrato di un altro
ragazzino che decide di andare a scuola. E allora la deviazione dove
sta? Sta dalla parte della scuola rispetto all’ambiente e non
dalla parte del ragazzino rispetto all’ambiente. Allora
l’intervento che è stato fatto da parte del provveditorato
agli studi per cui la dispersione a livello cittadino è passata dal
’92 al ’97 dal 16,8 per cento al 13,9 per cento non significa
che si è fatto un grande passo avanti, significa soltanto che i
ragazzi continuano ad andare a scuola ma a scuola poi vengono
bocciati. Le bocciature in questi ultimi anni sono aumentate di gran
lunga rispetto al passato, in cui la dispersione era maggiore ma
erano minori le bocciature. Allora questa dispersione è passata da
fuori della scuola a dentro la scuola. Ma andiamo al caso di chi
compie questo percorso scolastico, arriva alla scuola media ed è in
regola con l’obbligo scolastico. Ed è ancora un caso concreto,
Pino. E’ un ragazzo che ormai ha quasi trent’anni, ha fatto
tutte le scuole, però come ogni ragazzo di quartiere, pure avendo
fatto la terza media ha grosse lacune. E’ capace di leggere e
scrivere, ha anche una certa sensibilità culturale perché ogni
tanto legge pure qualche libro, però si rende conto che tra lui di
Sette Cannoni, quartiere particolarmente denso di criminalità non
solo minorile ma anche di adulti e un ragazzo che ha frequentato il
Gonzaga o ha frequentato il Garibaldi, la scuola “in” di
Palermo, c’è un abisso. Sono due mondi che non possono
incontrarsi. Sa bene che con la sua licenza media non può aspirare
a fare nulla. Pino, pur essendo un ragazzo intelligente, vivace,
vive e ha continuato a vivere nel quartiere, ha fatto la sua scelta
etica che è quella di non mettersi nel traffico della droga, però
questa scelta la sta pagando cara. E’ un disoccupato. E’ uno che
ama la ragazza ma non può sposarsi perché non può mantenerla, non
ha alcuna formazione professionale, la scuola gli ha dato un minimo
di informazione che non gli serve a nulla. Perché dico questo?
Perché credo che il problema della dispersione scolastica deve
essere in qualche modo inserito in un contesto più ampio. Deve
essere inserito nel contesto della realtà socioeconomica di una
società. Dicevo all’inizio che Palermo e la Sicilia si avviano a
diventare un paese più vicino al modello sudamericano che non al
modello europeo. Rispetto al problema di carattere sociale ed
economico, lottare contro la dispersione scolastica per noi
significa fare la lotta per il lavoro, fare la lotta contro questa
tendenza del liberismo economico che ormai sta distruggendo quel
poco di sociale che ancora rimaneva, fare la lotta contro i dettami
di Maastricht attraverso cui il Fondo monetario internazionale e la
Banca mondiale indicano come modello di sviluppo il taglio alle
spese pubbliche e i programmi di aggiustamento strutturale, il
taglio alle spese pubbliche e la privatizzazione. E’ quello che
sta avvenendo in tutta Italia ed è quello che sta provocando una
maggiore separazione, un maggiore aggravarsi della situazione della
emarginazione delle fasce più deboli. Purtroppo non posso ampliare
così il discorso, voglio soltanto dire che il problema
dell’economia illegale – voglio spendere soltanto due paroline
– è un problema molto complesso. E’ un problema molto complesso
perché parte innanzitutto dalla definizione della mafia, di mafia
si è troppo abusato da parte nostra e purtroppo non c’è stato
anche da parte dell’università di Palermo un approfondimento
adeguato rispetto a questo fenomeno che è un fenomeno molto
complesso. Perché noi abbiamo da una parte Totò Riina, che è il
macellaio di Cosa Nostra, dall’altra parte Aglieri, che aveva
quando è stato catturato sul comodino Edith Stein. E né l’uno né
l’altro sono l’immagine della mafia buona e della mafia cattiva,
sono tutti e due mafiosi, anzi, la classe sociale che domina e
controlla la mafia è la borghesia mafiosa, non è certo il
poveraccio dei quartieri. Ecco, la definizione della mafia – la
prendo da Umberto Santino che è uno studioso della mafia –
l’ipotesi definitoria adottata nella elaborazione del paradigma
della complessità è la seguente: mafia è un insieme di
organizzazioni criminali di cui la più importante ma non l’unica
è Cosa Nostra, che agiscono all’interno di un vasto e ramificato
contesto relazionale configurando un sistema di violenze e di
illegalità finalizzato all’accumulazione del capitale e
all’acquisizione e gestione di posizioni di potere e che si avvale
di un codice culturale e gode di un certo consenso sociale. La mafia
è per certi aspetti transclassista, interclassista, per altri
aspetti però ha dei precisi riferimenti, ha un suo codice
culturale, ha un suo linguaggio ecc., che è quello che ritroviamo
nei quartieri. Questo complica moltissimo le cose perché quando si
dice recuperiamo la cultura popolare, la cultura popolare è anche
molto impregnata di mafia e di categorie mafiose. Quindi il problema
per la Sicilia diventa un problema molto complesso. Nonostante questo io
credo – andiamo alle proposte concrete – che lo sforzo che si
debba fare per una scuola nuova e per una progettazione nuova è
innanzitutto nella direzione del Progetto Albergherai della scuola,
una sorta di scuola come città dei ragazzi, in cui i ragazzi si
inventano e costruiscono un percorso, una città propria,
all’interno della quale poi imparano attraverso i vari mestieri a
leggere e scrivere e a far di conto. Ma la scommessa della evasione
scolastica e della dispersione scolastica non può essere vinta
soltanto attraverso la pedagogia, ci vuole anche un progetto
politico nuovo. Un progetto politico che tenga conto anche
dell’economia. Una scuola che non si fa carico dell’inserimento
lavorativo dei ragazzi è una scuola già perdente in partenza, che
non può attrarre e convincere i ragazzini intelligenti come
Salvatore e tanti altri. C’è poi l’ultimo aspetto, sempre dal
punto di vista propositivo, che è il problema del recupero dei
ragazzi. Spesso il tribunale dei minorenni – noi abbiamo il triste
primato della criminalità minorile assieme a Catania, sono più di
settecento ogni anno i ragazzi che passano al tribunale dei
minorenni – la criminalità minorile trova la sua giustificazione
proprio in questo contesto. In una città che campa di lavoro nero,
di lavoro minorile sfruttato ecc., un ragazzino che ha un po’ di
cervello in testa a un certo punto capisce che è molto più
conveniente e divertente fare lo scippatore o rubacchiare o
addirittura se ne ha la possibilità vende la droga, piuttosto che
essere sfruttato dal barista o dal commerciante per due soldi.
Quindi è la facile conclusione di un certo percorso. Rispetto a
questo anche qui innanzitutto mancano le figure professionali. La
Sicilia è una delle poche regioni dove nonostante il grosso
problema minorile non è riconosciuta la figura dell’educatore di
strada. Questa figura professionale nuova non è prevista né
dall’università né dalle istituzioni, per cui queste figure, che
dovrebbero essere mediatrici fra la società e la scuola o non
esistono, o sono figure improvvisate che vengono pagate due soldi,
con un gettone di presenza. Del resto la presenza degli educatori di
strada non è sufficiente se tutto questo poi non è inserito in un
progetto lavorativo, di inserimento lavorativo alternativo. Perché
a Salvatore non posso dire vai a scuola, e poi, i soldi per
mantenere la famiglia o per campare chi te li dà? E la scuola, che
cosa ti promette? Ecco, io concludo… con l’augurio e
l’auspicio che questo confronto su queste tematiche
particolarmente delicate possa avere un riscontro non solo
nell’ambito accademico ma anche nell’ambito istituzionale per la
soluzione di questi problemi. ( 6 – continua )
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