FOGLIO LAPIS - MAGGIO 2002

 
 

Si chiamava Anthony e veniva da un villaggio indiano – Adottato da una famiglia italiana all’età di otto anni, è vissuto per altri otto a Firenze – Alla fine non ce l’ha più fatta: si sentiva diverso, incompreso, sbeffeggiato per quella sua pelle scura – Dieci giorni prima di uccidersi ha scritto una lettera in cui si scusa con i genitori adottivi, accusa la società e prima di tutto la scuola e avverte: il mondo sarà pacifico solo se risolverà la questione multietnica

 

Mi piaceva andare a scuola ma nessuno mi apprezzava, e la vita è tornata ad essere infernale come quando ero nel mio paese”. “Quando sono entrato alle superiori pensavo che questi anni li avrei passati più serenamente di quelli che avevo trascorso alle medie. Invece non ho trovato altro che solitudine, tristezza e tanti brutti voti”. Vita infernale, solitudine, tristezza: è il bilancio tracciato da un ragazzo di sedici anni che ha deciso di farla finita. Si chiamava Anthony, frequentava la prima classe di un istituto tecnico agrario e veniva dall’India. Otto anni fa aveva lasciato il paese asiatico, adottato da una famiglia italiana che vive a Firenze. Nella sua lettera di addio, Anthony ha parole di grande affetto per i genitori adottivi, con i quali si scusa per l’atroce decisione: “quando rientravo a casa ero il ragazzo più felice del mondo…” Ma subito fuori, l’inferno: “ogni volta che uscivo di casa la gente non faceva altro che insultarmi per il colore della mia pelle e mi sentivo un verme”.

Quando il ragazzo venne in Italia, si lasciava alle spalle un’infanzia fatta di miseria e privazioni. L’adozione lo aveva improvvisamente proiettato in un mondo di benessere, nel calore di una famiglia, in un ambiente sociale che gli garantiva un avvenire attraverso l’assistenza e l’istruzione. Già, l’istruzione. E’ difficile rileggere senza un brivido le parole di Anthony a proposito della scuola e delle proprie brucianti delusioni. Immaginiamoci quel ragazzino dalla pelle scura seduto al suo banco, quello stesso che dopo il suicidio i compagni hanno ricoperto di fiori, con in testa un terribile passato infantile e un grandissimo bisogno di amicizia, considerazione, affetto. Ora veniamo a sapere che più volte aveva parlato di suicidio ma nessuno lo aveva preso sul serio. Ma va’, tu vedi troppi film, così rispondevano ai suoi sfoghi. Perché evidentemente il suo male di vivere non era così evidente, era nascosto dentro, nelle pieghe di un’identità che non riusciva, ostacolata dall’ambiente ostile, a uscire dal bozzolo. Nel contrasto irrisolto fra un’infanzia asiatica povera di cibo e un’adolescenza europea povera di stima e di autostima. Diceva sul serio, purtroppo: Anthony si è ucciso davvero, un giorno di questa fredda primavera, stringendosi un cappio intorno al collo.

Dicono che poche settimane prima della morte, durante una gita scolastica a Urbino, Anthony si era divertito, aveva riso e scherzato con gli altri. C’era stato, è vero, un incidente all’inizio dell’anno. Un compagno aveva alluso al colore della sua pelle, e lui aveva reagito avventandoglisi contro. Poi c’era stata un’assemblea di classe per analizzare il caso e tutto era andato a posto: era solo una battuta e non m’importa delle battute, aveva detto. Nella sua ultima lettera, il ragazzo indiano allude a un insegnante troppo severo con lui. Il preside ci fa sapere che Anthony non andava poi così male, aveva qualche cinque ma si trattava di lacune facilmente colmabili. Ma forse, questa è una nostra ipotesi, lui sentiva la necessità di risultati più che buoni: per compensare il disagio, per riscattare quello che sentiva forse come un vizio d’origine indelebilmente impresso nel suo corpo. Infatti compagni e insegnanti ci dicono che pur essendo un tipo abbastanza estroverso non voleva assolutamente parlare dell’India, né delle esperienze infantili.

La lettera di Anthony ce lo mostra capace di esprimersi efficacemente e ben dotato sul piano intellettuale per i suoi sedici anni: nonostante il trauma del trapianto e forse in parte proprio per questo. Si interessava ai problemi della concordia fra i popoli: per esempio partecipando al progetto Coltiviamo la pace, che si propone di incoraggiare all’ombra degli ulivi toscani l’amicizia fra ragazzi israeliani e palestinesi. Si interessava anche a una grande questione nazionale di cui era parte in causa, quella degli immigrati, e nella sua lettera c’è un appello al presidente del consiglio che il destinatario farebbe bene a non trascurare: “voglio dire al presidente Berlusconi che il mondo potrà diventare pacifico se diventerà multietnico”. Per “mondo multietnico” intendeva probabilmente un ambiente sociale in cui nessuno viene irriso perché la sua pelle ha un colore inconsueto. Il suo era un invito alla concordia, alla tolleranza.

Sarebbe retorico dire che questa morte dovrebbe almeno servire a qualcosa, nell’epoca delle isterie xenofobe alimentate, ma non certo giustificate, da cronache fiammeggianti di guerra e di odio. Retorico e iniquo, perché il viaggio senza ritorno scelto da Anthony chiude per sempre la sua tragedia personale. Eppure la fine di questo ragazzo che non siamo stati capaci di integrare nel nostro mondo ci impone una volta ancora di prendere molto sul serio i problemi connessi con le adozioni e le immigrazioni, e il cortocircuito fra culture distanti che spesso ne consegue. Dobbiamo prenderli sul serio soprattutto nella scuola, che dovrebbe essere il luogo per eccellenza dell’integrazione. Quanto a Anthony, il meno che possiamo fare è cooptarlo fra i morti che ci appartengono, offrendo al suo povero ricordo il fiore di una consapevolezza responsabile.

 

                                                            Alfredo Venturi

 

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