Salvare l’infanzia La Lapis è nata dall’esigenza di affrontare un problema, la dispersione scolastica, e quei suoi drammatici corollari che si chiamano lavoro nero e criminalità minorile – Ora stiamo percorrendo le aree di crisi e di malessere: dalle risposte che riceviamo emerge l’immagine di un paese che ancora tollera gravi limitazioni ai diritti dei bambini – Ma emergono anche disponibilità, entusiasmo, volontà di cambiare
Gentili lettori, mi hanno detto che spetta a me presentare questo primo numero della rivista partorita dalla nostra associazione. In realtà parla da sola la problematica unica, specifica che qui trattiamo e cioè l’evasione dall’obbligo scolastico con tutti gli annessi e connessi che sono spesso lavoro nero e criminalità minorile. Per questo siamo nati sei mesi fa, per questo abbiamo avviato un paziente lavoro di ricerca e indagine, di contatto e di denuncia. Cercando contemporaneamente il contatto con la base che subisce il malessere e il vertice che cerchiamo di sollecitare perché avvii a soluzione i problemi. Incalzando con le nostre lettere sindaci, funzionari, generali, ministri e presidenti. Nel nostro paese, tra strutture scolastiche inadatte per i portatori di handicap, tra incompetenze specifiche che ostacolano l’inserimento dei piccoli stranieri nel nostro tessuto sociale, tra vittime dei pedofili e vittime innocenti della criminalità organizzata nelle cosiddette aree a rischio, soprattutto dico io di morir di fame dato che i genitori sono entrambi disoccupati, i bambini non se la passano per niente bene. Vorremmo riuscire a salvarli almeno dalla strada. Questa rivista, come l’associazione Lapis medesima, è da considerarsi un vero e proprio "miracolo". Non crediate che io stia scherzando, in Italia la buona volontà, anche se legata alla gestione di problematiche sociali di elevata importanza, non paga, se a promuovere notevoli iniziative come questa sono dei semplici cittadini completamente scollegati da logiche di partito o affiliazioni a gruppi particolari. E’ difficilissimo per una persona qualunque operare attivamente dove le strutture sono carenti, direi impossibile a meno che quella persona non prenda in seria considerazione l’ipotesi di doversi rovinare sia economicamente che moralmente. Ti può capitare per esempio di dover finanziare da solo l’organizzazione di un congresso nazionale. Moralmente perché capisci che a monte di tutto ciò che ti succede c’è una atavica diffidenza tutta italiana, una diffidenza, una incredulità, una grande perplessità tipica di chi considera impossibile che a qualcuno non solo non importi di fare il furbo speculando sulla buona fede altrui, ma addirittura sia tanto "fesso" da investire del proprio per una causa pubblica. Sempre all’insegna della buona volontà sono i viaggi che come presidente non solo nominale ma fortemente attiva e motivata intraprendo assieme ai miei collaboratori in tutto il territorio nazionale. Visitando città per città i rappresentanti non soltanto istituzionali o del mondo della scuola ma dei sindacati e dell’area del volontariato cattolico e laico. Il tutto per avere una panoramica non unicamente fatta di freddi dati, ma anche di conoscenza umana diretta e locale della problematica da noi trattata. Arezzo, così strategicamente ubicata in mezzo all’Italia, sta diventando grazie alla Lapis il più importante centro di documentazione, analisi e incontro tra quanti come noi hanno a cuore il presente dei bambini, quindi il futuro di una società civilmente più avanzata.
Per una scuola libera e aperta
Intervista al prof. Marcello Bernardi, pediatra e libero docente di puericultura e auxologia, autore di Gli imperfetti genitori, Il nuovo bambino, L’avventura di crescere – Bisogna "deregolare" l’istituzione scolastica – Il richiamo alla lezione di Alberto Manzi Professor Bernardi, in un suo libro mi ha colpito particolarmente una frase: "cari genitori, io mi auguro che i vostri figli siano meglio di voi". Quello che tutti ci auguriamo è che l’umanità migliori, perché così com’è fa schifo.
Nei viaggi che sto facendo in giro per l’Italia mi sono resa conto dell’enormità del problema della dispersione scolastica. Lei che ne pensa? Guardi, nella mentalità comune la scuola dà cultura. Naturalmente non è vero però questa è la mentalità corrente. Secondo punto fondamentale: la cultura non serve per far soldi e neanche per fare potere, per cui la scuola arriva dopo qualsiasi tipo di valore sociale. Un tale, un profeta chiamato Gesù, diceva "voi potete seguire due padroni, o Dio o Mammona. Se seguirete l’uno dovrete abbandonare l’altro". Noi abbiamo scelto Mammona ovvero il vitello d’oro: ma per i soldi la scuola non serve, la cultura non serve. In realtà la scuola non dà cultura, ma questo la gente normalmente non lo sa. Per cui i figli delle aree privilegiate vanno a scuola solo per avere il titolo di studio e a quelli delle aree depresse della scuola frega niente: credono che la scuola dia cultura e della cultura non sanno che farsene.
Mi diceva un sindacalista che molti ragazzi alla fine dell’obbligo scolastico non sanno nemmeno riempire un bollettino postale. Questo è il primo tempo oscuro della scuola contro il quale Alberto Manzi si è scagliato infinite volte: "La scuola non insegna, la scuola non fa cultura, la scuola è una continua ripetizione di nozioni mummificate e inutili". Manzi diceva che se uno non è mosso dalla curiosità di scoprire, dal desiderio di imparare, non impara. Nella scuola si fa di tutto per mortificare il piacere dell’apprendimento.
Come si può venire a capo di un simile problema? Secondo me ci sono due punti fondamentali. Primo: che i genitori si comportino da persone civili, che non sopravvalutino il "possesso", che non abbiano voglia di diventare tutti ricchi, che guardino con pari rispetto al ricco e al povero. Il secondo punto è cambiare la scuola, ma cambiarla davvero, cioè dare alla scuola la possibilità di andare incontro alle singole curiosità degli allievi.
Mi meraviglia molto il fatto che quasi tutti gli insegnanti che ho incontrato ignorino opere come "I ragazzi di Sommerhill", un libro così importante dal punto di vista educativo. C’era una professoressa di Lettere della mia nipotina al liceo che chiamava Isabel Allende "Allend". E qualcuno fece questa osservazione: "guardi che non si dice Allend". "Ah, rispose, ma io l’inglese non lo so". Non sanno nemmeno distinguere lo spagnolo dall’inglese. Ecco, questa è la scuola.
Che cosa si può fare per cambiare questo stato di cose? Io qualche idea ce l’avrei. Ecco: diminuire il potere dei provveditorati, diminuire la burocrazia, aprire la scuola con la possibilità di stabilire contatti con l’esterno. La scuola deve essere uno strumento nelle mani di ogni singolo ragazzo, che deve trovarci qualcosa di adatto ad appagare la sua sete di sapere. Questo deve essere la scuola e non altro, quindi niente graduatorie, niente voti, niente ordini di studio, niente classificazioni, niente burocrazia, niente gerarchie: tutto questo è roba che va buttata via.
Ho visto scuole, a Bari per esempio, che sembrano carceri. Mi hanno detto che ci sono le sbarre perché altrimenti entrano i ladri… Cose incredibili, e pensare che le vere scuole, quelle dei peripatetici, non erano al chiuso. Erano sulla pubblica piazza, nella strada, nel giardino, nella campagna. I grandi maestri non hanno mai insegnato in un edificio scolastico.
Come potrebbe questo discorso essere applicato ai tempi nostri? Questi ragazzi affidiamoli a delle persone serie, che ognuno si scelga l’insegnante di italiano, di matematica, ecc. e vadano in giro e guardino e discorrano e imparino un po’ per volta in base alle proprie professioni. A proposito dei programmi: io ho fatto il liceo classico, ho studiato il greco, di questo non mi ricordo nemmeno una parola, come se non l’avessi mai fatto. Ricordo invece benissimo il latino perché mi piaceva.
Quindi bisogna stimolare l’interesse nei ragazzi. Infatti pretendere che si studi algebra quando ci si occupa di storia della filosofia è sbagliato. Solo quando incontriamo un genio alla Leonardo da Vinci questo è possibile. E poi smettiamola con queste carceri, perché le scuole sono carceri. Basiamoci sul reciproco rispetto, sul rispetto delle esigenze altrui. Io vorrei che il nome di Alberto Manzi fosse qui ricordato, perché si è battuto per una nuova concezione della scuola. Qui bisogna cambiare tutto e rendersi conto che da una parte dobbiamo spogliarci della ignobile e vergognosa sete di denaro, dall’altra cominciare a capire che la scuola deve essere completamente diversa da quella che abbiamo.
Il boomerang di Barra
In uno fra i quartieri più disagiati di Napoli, il successo di un’azione che smuove l’apatia e la rassegnazione – Il coinvolgimento delle famiglie nella vita della scuola – Intervista alla dott.ssa Marina Esposito, direttrice del 48° circolo didattico, animatrice dell’iniziativa
So che porti avanti un progetto europeo sulla dispersione scolastica, parlamene. Ho avuto risultati superiori alle aspettative: è nato tre anni fa, è stato approvato e finanziato dall’Unione Europea. Si rivolge a venti genitori con un corso che dura ottanta ore per tre o quattro mesi. E’ meraviglioso l’effetto che ha avuto questa iniziativa nel mio circolo e negli altri circoli di Napoli. Questo corso è rivolto a genitori, prevalentemente sono madri, che vivono in zone a rischio, con gravi problemi dal punto di vista socioculturale, economico. Queste persone hanno bisogno di autostima, non hanno una serie di strumenti per poter vivere la loro vita quotidiana da cittadini, non hanno spazi di incontro, di socializzazione, di scambio, di crescita. La loro vita si svolge secondo una routine che prevede degli atti stereotipati che lasciano poco spazio alla persona.
Immagino che le caratteristiche sociali della zona influiscano sulla possibilità di affrontare questo problema. Proprio queste caratteristiche socioculturali hanno determinato l’attribuzione dei finanziamenti, sono stati attivati solo per poche zone, solo per quelle ad alto rischio, c’è una selezione già dall’origine. Queste persone hanno ricominciato a credere in se stesse. Si sono organizzate, hanno costituito un’associazione che ha sede nella scuola.
Come si chiama questa associazione? Boomerang: azioni che ritornano. Questo è il senso di tutto il corso. Fanno parte dell’associazione non solo i genitori che hanno fatto il corso, è quindi un punto di aggregazione sociale. Queste persone hanno capito come si partecipa alla vita della scuola rispettando i vari ruoli, e tutto questo al di là dei contenuti. Hanno appreso delle nozioni di carattere giuridico, sulle istituzioni, soprattutto a livello locale. Volevo dare a queste persone sia gli strumenti per poter vivere consapevolmente la loro vita di cittadini, sia strumenti di tipo relazionale, comunicativo, per poter leggere dei comportamenti e poter dare delle risposte prima di tutto ai figli e poi agli altri. Tutto questo con l’aiuto dei nostri insegnanti, degli psicologi, ma soprattutto grazie al confronto che ti permette di scoprire come l’altro, parlando, ti possa dare una grande ricchezza. Di capire che il gruppo è forte, che il gruppo fatto di persone sane può contrastare, deve contrastare quella parte di società che sana non è…
Che tipo di attività fanno, oltre a questa? Fanno attività di animazione con i bambini, ora sto organizzando anche attività extrascolastiche con gli insegnanti della mia scuola. Loro collaborano in qualità di animatrici, anche perché hanno acquisito alla fine del corso un attestato come operatori di comunità. Molte di loro, che non avevano che non avevano nemmeno la licenza elementare, hanno fatto anche l’esame di terza media. E’ stata un’esperienza notevole soprattutto dal punto di vista umano e sociale. Il primo anno, per esempio, operavamo in una zona disperata dal punto di vista socioculturale, sempre qui a Barra, in via Ma stellone. Gente che vive in condizioni incredibili, ma quando acquisiscono fiducia nell’altro gli si affidano completamente. Certo è molto difficile perché c’è una diffidenza di fondo… Inoltre molti bambini riportano nella scuola il malessere dell’ambiente in cui vivono, quindi risultano aggressivi, non motivati. Qui nel plesso centrale in cui operiamo ora è diverso, perché c’è più eterogeneità quindi maggior possibilità d’azione.
Che cosa pensi dei progetti di cui si parla, volti a istituire incentivi in denaro e carriera per gli insegnanti che operano in zone come la tua? Credo che sia un fatto molto positivo, purché a monte ci sia una selezione, nel senso che si devono accertare prima le capacità di questi docenti. Infatti nelle zone a rischio arrivano sistematicamente gli insegnanti ultimi in graduatoria: proprio dove c’è maggior bisogno di personale qualificato e motivato. Come sai la scelta della sede viene fatta in ordine di graduatoria, e sede come la mia sono disagiate non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello logistico, si tratta generalmente di periferie difficilmente raggiungibili. L’insegnamento della lingua straniera qui per esempio non si può fare. Io ho una sola insegnante, che abita qui, per sette classi. C’è un incentivo per chi va nelle piccole isole o in alta montagna, a maggior ragione mi pare che debba esserci per chi viene in posti come questo.
Pensi che la scuola nel suo insieme sia attrezzata per affrontare il problema dell’evasione dell’obbligo, che fra l’altro si vuole elevare come sai a dieci anni? Non può fare tutto la scuola, perché spesso alla base dell’evasione c’è un problema molto più ampio. Non è la scuola che origina l’evasione, o l’insuccesso scolastico: può capitare che la scuola non riesca a dare risposte adeguate, non riesca a leggere i bisogni reali che vengono da questi bambini, da queste famiglie, però la scuola non può farcela da sola. Ci vogliono degli interventi interistituzionali, ci vuole un rapporto più stretto con le altre istituzioni che hanno dei compiti specifici.
Per esempio? Comuni e servizi sociali, ASL con assistenza psicologica, perché quando si parla di zone a rischio si parla di una gamma di problemi che sono di ordine economico, sanitario, assistenziale, psicologico. La scuola ha certamente il suo ruolo ma c’è necessità di raccordi e interventi integrati, concertati.
Pensi che sanzioni più gravi per chi non manda i bambini a scuola possano aiutare? E’ un problema di cultura non di sanzioni, e purtroppo è molto difficile cambiare la cultura. Una pena amministrativa serve a poco se la famiglia non ha nessuna considerazione per la scuola. Certo può aiutare, può essere un primo passo ma non è sufficiente, è l’atteggiamento che deve cambiare.
Ti sei mai rivolta ai carabinieri per far venire dei ragazzi a scuola? Non c’è stata occasione di mobilitare i carabinieri, noi lavoriamo con degli assistenti sociali, con degli insegnanti che vanno anche a casa dei bambini a prenderli. Telefoniamo anche cinquanta volte al giorno, alla fine non ce la fanno più, ce li portano per disperazione. I carabinieri possono essere l’ultima carta, non un atto ordinario perché altrimenti si veicola un messaggio che non è quello giusto: non si deve venire a scuola per forza,devi capire che è importante, ci devi credere. Il genitore deve capire che quando la scuola lo chiama è per risolvere un problema del figlio, utilizzando la propria visione delle cose per puntare insieme a un obbiettivo comune che è il bene del bambino. Vedi, io ho bisogno del rapporto con la famiglia…
I bambini invisibili di Catanzaro
Un’Associazione a tutela dei minori contro le inefficienze amministrative e le lungaggini burocratiche – Un "filo diretto" per la segnalazione di casi di abuso o disagio – Una serie di attività formative, informative, integrative
Nel 1985 un gruppo di volontari ha costituito in Catanzaro l’Associazione "Tribunale per la difesa dei diritti del minore" con lo scopo di tutelare con azioni di prevenzione, di sostegno, di difesa e di sensibilizzazione i diritti dei minori e segnatamente quelli sanciti nella "Carta dei diritti del Fanciullo" dell’ONU: diritto alla famiglia; diritto ad una istruzione adeguata all’età e alle esigenze individuali di ciascuno; diritto a fruire di spazi adeguati per il soddisfacimento delle sue esigenze all’interno della città; diritto del minore che intraprende attività lavorativa alla tutela psicofisica, oltre alla tutela di tutti i diritti stabiliti dalla legge; diritto alla salute. In attuazione delle sue finalità l’Associazione si propone i compiti statutari di: a) promuovere ogni iniziativa atta a garantire il rispetto di tutti i diritti a questo riconosciuti; b) prevenire ogni abuso, fornire soccorso e assistenza ai minori vittime di violenza, di maltrattamenti, di abbandono; c) sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere interventi adeguati presso le autorità competenti ogni qualvolta sia disattesa una legge dello Stato o essa sia manifestamente insufficiente; d) svolgere attività di ricerca e di informazione, raccogliere documentazione sulla problematica dei diritti del minore in ogni ambito e in ogni situazione, istituzionale o non, nella quale si verifichino episodi che possono attentare all’integrità corporea, allo sviluppo fisico, affettivo, intellettuale e morale del minore. All’Associazione aderiscono circa 100 soci che vi operano offrendo parte del loro tempo libero, la loro specifica prestazione professionale e un contributo mensile che le garantisce l’autofinanziamento. Dal 1988 è in funzione un servizio telefonico continuato, il "Filo diretto per l’infanzia" che raccoglie segnalazioni di casi di abuso e di disagio che provengono dalla città e, in una certa misura, dalla provincia e dalla regione. I casi segnalati vengono studiati da un apposito gruppo di lavoro che, secondo l’opportunità, tenta un intervento operativo attivando le istituzioni competenti. Gli stessi casi vengono classificati, schedati e archiviati in un servizio di documentazione che è la base per l’attivazione di un monitoraggio del disagio minorile relativo al territorio in cui l’Associazione opera. Sulla base di tale documentazione l’Associazione ha organizzato nel 1995 un convegno di studio "Bambini invisibili", con il patrocinio della Regione Calabria e con l’intervento di esperti noti in campo nazionale. Del convegno è stata anche curata la pubblicazione degli atti. L’Associazione è promotrice di varie attività rivolte al recupero di minori in stato di disagio e soprattutto alla prevenzione: campagna di sensibilizzazione dell’opinione pubblica con manifestazioni, mostre, spettacoli, etc.; coinvolgimento dei giovani studenti con inchieste, concorsi, attività in collaborazione con le scuole; attività di doposcuola nei quartieri della città, soprattutto in quelli considerati più a rischio; attività informative di carattere ludico-formativo; corsi di formazione di operatori sociali nel campo del disagio minorile. L’Associazione è inoltre impegnata sia nella programmazione che nella gestione di progetti (nazionali e regionali) che prevedono interventi specifici per i minori: come ad es. quelli che ogni estate vengono programmati in collaborazione con l’Amministrazione comunale. Da segnalare infine, nel quadro degli interventi rivolti alla prevenzione, la realizzazione di un vademecum su CD-ROM destinato ai minori, ma rivolto anche al coinvolgimento di insegnanti, operatori, esperti. Grazie alle esperienze finora fatte l’Associazione ha potuto verificare la vastità e le urgenze dei bisogni relativi al settore dei minori in un territorio a rischio come quello calabrese; ha potuto anche prendere atto delle disponibilità presenti in larghi settori dell’opinione pubblica e delle reali possibilità di coinvolgimento di molte persone. Non altrettanto si può dire per quanto concerne il settore istituzionale, soprattutto le amministrazioni locali e gli organismi politico-rappresentativi. Anche qui è possibile talora incontrare disponibilità a livello personale, ma troppo gravi sono ancora le carenze dovute all’assoluta assenza di una tradizione rivolta all’intervento programmato nel campo dei diritti sociali. Un’Associazione di volontariato è destinata pertanto a scontrarsi con l’inefficienza, l’incompetenza, la scarsa sensibilità di molti amministratori, oltre che con le complicazioni e le lungaggini di ordine burocratico. Il risultato è che le stesse domande vengono ripetutamente avanzate senza ottenere risposta, mentre nel frattempo cambiano gli interlocutori per avvicendamenti politico-amministrativi. Le pie intenzioni dimostrate da qualche volenteroso restano opera morta e intanto il disagio minorile cresce, la domanda di luoghi d’incontro, di svago, di crescita culturale e sociale resta inevasa mentre tanto patrimonio pubblico, potenzialmente utilizzabile a tal fine, va in malora, riservato a imperscrutabili disegni politico-clientelari.
Antonio Ameduri – Ugo Libri
I ragazzi malati di ‘ndrangheta
L’esperienza del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria – La criminalità giovanile e la dispersione silenziosa – Il necessario risanamento sociale deve partire dalla scuola A Cinquefrondi due minorenni cadono vittime di un feroce agguato i cui autori sono anch’essi minorenni. In un centro vicino, Cittanova, qualche tempo fa alcuni ragazzi si spararono addosso dopo una lite all’uscita di una sala giochi. E poi ancora tanti episodi di omicidi, violenze, stupri che hanno visto minori e giovanissimi della provincia di Reggio Calabria coinvolti in fatti delittuosi. Sono ormai tanti, troppi, i ragazzi di questo territorio che hanno come punto di riferimento la regola mafiosa, i comportamenti violenti, spesso introiettati all’interno della stessa famiglia di appartenenza. Sono i ragazzi malati di ‘ndrangheta, non più a rischio ma a certezza di entrata nelle nuove leve della criminalità organizzata. Una criminalità che ha visto, grazie all’azione della magistratura e delle forse dell’ordine, decimate le sue fila e che ha grande bisogno di nuovi soldati pronti a sostituire in prima linea genitori, fratelli assassinati o carcerati. C’è nel territorio reggino, nei quartieri e nei paesi più degradati, un esercito di manovalanza composto per lo più da adolescenti e giovani che attendono nel mondo criminale, ragazzi già segnati da un destino mafioso fin dall’infanzia. Un ragazzino di 11 anni scrive in un tema: "io da grande voglio diventare mafioso, voglio uccidere i giudici, i poliziotti e i carabinieri e cercare di non farmi prendere". I dati sui minori denunciati per vari reati non danno da soli una rappresentazione adeguata del fenomeno della devianza giovanile in quanto rappresentano sola la punta dell’iceberg. Il sommerso della criminalità giovanile ha uno spessore ben diverso. Spesso le forze dell’ordine riconoscono di non poter indagare sui minori autori di reati lievi, come furti, atti vandalici (molto diffusi per esempio questi ultimi verso le scuole e gli edifici pubblici) perché impegnati in indagini per fatti più gravi. Secondo i dati forniti dalla Procura della Repubblica sono circa 600 l’anno i minori della provincia denunciati all’autorità giudiziaria, negli ultimi 5 anni circa tremila. Un dato meno allarmante di quelli provenienti da altre zone come Catania, Bari, Napoli ma altrettanto preoccupante se si considera la "qualità" dei reati. Crescono infatti le estorsioni, le rapine, la detenzione di armi, i reati contro la persona, e in genere quei reati che segnano una adesione strutturale alla criminalità organizzata. Vi sono coinvolti ragazzi ormai inseriti negli organici delle cosche e sfruttati come manovalanza di facile reperimento anche perché destinatari di un regime penale attenuato. In una situazione come quella calabrese dove la ‘ndrangheta ha una connotazione fortemente familiare la cooptazione dei minori diviene quasi naturale e solo un massiccio investimento in chiave educativa può strappare questi ragazzi ad un destino criminale. Nell’esperienza del Centro Comunitario Agape, che fin dagli anni ’70 ha cercato di dare delle risposte innovative al disagio minorile nel territorio reggino, il ruolo della scuola è subito emerso nella sua importanza rispetto ai processi di crescita di questi minori. Nelle storie di vita dei tanti ragazzi accolti o conosciuti all’interno dei servizi della giustizia minorile si è potuto constatare, accanto ad altri fattori, quanto ha inciso nelle scelte di devianza una carriera scolastica irregolare, spesso fatta di abbandoni, di ripetente, di prolungate assenze. Dai dati relativi al livello di scolarizzazione di questi minori nella provincia di Reggio Calabria emergono elementi significativi: dei ragazzi transitati negli ultimi anni dai Centri di prima accoglienza del Ministero di Grazia e Giustizia il 14,7% è analfabeta, il 32,4% ha la licenza elementare, il 35,3% la licenza media e solo il 17,6% frequenta la scuola superiore. L’imponenza di tali percentuali si commenta da sola e fa giustizia di tanti luoghi comuni che vorrebbero minimizzare il fenomeno della dispersione scolastica, che certamente è un fenomeno complesso che tra l’altro non si può identificare soltanto nell’abbandono scolastico. C’è per esempio il problema della cosiddetta dispersione silenziosa che non si esprime nel visibile abbandono e che riguarda tutti quei ragazzi che gli insegnanti definiscono pigri, poco interessati alla scuola, demotivati allo studio e che vengono tollerati in classe purché non disturbino. Non è un caso che il 50% dei candidati (dato Istat) viene licenziato all’esame di terza media con la votazione di sufficiente. Paradossalmente per alcuni di questi ragazzi sarebbe forse preferibile l’abbandono e la ricerca di nuove strade (in cui è possibile che trovino un minimo di gratificazione) a questa passiva attesa dell’esaurimento dell’età dell’obbligo scolastico in una situazione di totale caduta dell’autostima e di marginalità assoluta. Nell’esperienza di Agape emerge una funzione selettiva della scuola che riproduce ed amplifica lo svantaggio e potenzia il fenomeno della espulsione dai processi formativi. Dalle esperienze di vita dei ragazzi accolti in affidamento familiare, nelle comunità ci si trova di fronte ad una incapacità della scuola ad occuparsi dei ragazzi con difficoltà a capire i processi, le relazioni, i significati, le motivazioni che li accompagnano. Certamente la scuola ha subito una grande trasformazione nel divenire scuola di massa, scuola di tutti e grandi sono stati gli sforzi per arrivare ad una scolarizzazione quasi al 100%. Ma la scuola, che secondo l’etimologia greca vuol dire "agio", è fonte di benessere per i ragazzi oppure mantiene ancora caratteristiche che creano "malessere educativo", ovvero disagio? L’esperienza ci dice che soprattutto al Sud la risposta è spesso negativa per un sommarsi di fattori che vanno dalla precarietà dell’edilizia scolastica al problema dei trasporti, alla carenza di servizi sociali che possano realmente garantire il diritto allo studio. Alcune leggi nazionali come la 216/91 e la 285/97 danno risorse o strumenti anche alle scuole per migliorare la propria offerta educativa, per coinvolgere le famiglie, gli enti locali, il volontariato in progetti di prevenzione e in attività extrascolastiche. Trattasi di opportunità da cogliere e valorizzare ma ancora siamo lontani, per es. in termini di risorse economiche, da quegli interventi capillari e consistenti che l’emergenza minorile richiederebbe in particolare in regioni come la Calabria priva di uno zoccolo minimo di servizi sociali ed educativi-culturali. In particolare se si vuole pensare seriamente a debellare il fenomeno mafioso bisogna accompagnare le politiche repressive con altri interventi di risanamento sociale a partire dalle nuove generazioni. C’è bisogno di una presenza dello Stato che agli occhi dei ragazzi del Sud non si presenti solo attraverso la divisa dei carabinieri ma anche attraverso una scuola che funzioni, un territorio che dia opportunità di socializzazione e di crescita.
Mario Nasone
Dove la maggioranza è fuorilegge Secondo i dati forniti al convegno LAPIS dal direttore generale Maniaci, in alcune regioni oltre la metà della popolazione non ha frequentato gli otto anni di scuola dell’obbligo – Analfabetismo e analfabetismo di ritorno – Il progetto Calabria-Basilicata
Il 25 e 26 ottobre 1997 la neonata LAPIS organizzò ad Arezzo un convegno di studi sul tema Evasione scolastica, una sfida per la società. Iniziamo con questo numero di FoglioLapis la pubblicazione delle relazioni. Dobbiamo la prima al dott. Carmelo Maniaci, direttore generale dell’istruzione elementare al ministero della P.I.
Sono contento di trovarmi tra voi, in questa splendida città. Già da tanto tempo avevo intenzione di venirci e ringrazio la dottoressa Venturi di avermene offerto l’opportunità, invitandomi a questa manifestazione. L’occasione è stata preziosa per incontrare il dottor Alfonso Caruso, ottimo Provveditore, persona di grande cultura, vera risorsa per questa città. Noto volentieri la presenza, nelle file di fondo, di Ivo Senesi, sindacalista che ho avuto come controparte negli oltre venti anni di attività al Ministero in cui ho curato i rapporti con i Sindacati: consentitemi di rivolgergli un caro saluto. Ed un altro saluto, prima di entrare nel merito delle tematiche proprie del Congresso, desidero rivolgerlo al prof. Bracci, dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, che ho avuto la piacevole sorpresa di incontrare appena sono entrato. E’ stata una vera sorpresa in quanto ho sempre creduto che fosse sardo, mentre lui ha giustamente rivendicato la sua origine aretina. Mi trovo proprio bene in questa città, fra tanti amici… come a casa: la dott.ssa Marilena Venturi porta lo stesso nome di mia figlia e questo è un motivo in più di simpatia nei suoi confronti. La Libera Associazione per il Progresso dell’Istruzione affronta un problema che è al centro dei miei interessi da quando sono Direttore generale dell’Istruzione Elementare, trasferito dalla Direzione Generale dell’Istruzione Media non statale. E’ stata mia premura procurarmi subito i dati sull’analfabetismo e ciò che ho appreso è veramente angosciante. Non sono tanto i dati nazionali a risultare sconvolgenti, quanto quelli riguardanti alcune realtà del Paese, che superano qualsiasi pessimistica previsione: parlo di Catanzaro e di Cosenza, dove – è vergogna dirlo – la percentuale di analfabeti supera il 5%. Questa situazione sconfortante mi ha spinto a redigere un progetto di educazione per gli adulti – il Progetto nazionale assistito Calabria e Basilicata – per il quale è stato stanziato quanto più è stato possibile delle esigue risorse di cui la direzione generale dispone. Terremo prossimamente, a Catanzaro, una conferenza interdirezionale sull’educazione degli adulti. Abbiamo rivisto ab imis l’Ordinanza sull’educazione degli adulti e i risultati del lavoro mi hanno dato moltissima soddisfazione. Sono pervenuti apprezzamenti un po’ da tutta Italia, non soltanto dagli addetti ai lavori, ma anche da parte di organizzazioni, sindacati e libere associazioni. Mi farebbe piacere che si prendesse coscienza che il documento contiene molti elementi innovativi e rappresenta una rottura con il passato. Ho rappresentato al Ministro la necessità di poter disporre di ulteriori risorse in questo settore strategico e delicatissimo, indicando come via percorribile la costituzione di un organico aggiuntivo destinato all’educazione degli adulti. Nelle regioni più "deboli" del Paese – Calabria, Basilicata, Campania, Sardegna e, aggiungiamo, Puglia e Sicilia – oltre il 43% della popolazione non ha frequentato gli otto anni di istruzione obbligatoria previsti dalla Costituzione, quindi è considerarsi "fuori legge", ed è sfornito di diploma di licenza media. Sono cifre impressionanti: il 53,6% della popolazione residente in Basilicata e il 52,9% di quella residente in Calabria non hanno ottemperato all’obbligo scolastico, disattendendo il dettato costituzionale. Arezzo è vicino a Firenze, patria del grande Piero Calamandrei, estensore di parti fondamentali della Costituzione (vedasi art. 5), di quella parte con la quale si è voluto garantire l’uguaglianza sostanziale, non solo formale, del diritto di accesso all’istruzione, che poi significa "promozione umana". "Compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli di ordine economico che limitando di fatto la libertà del cittadino ne impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Intendo sottolineare questo concetto perché mi sembra fondamentale. Tante volte mi sono chiesto perché il Costituente abbia voluto scrivere "persona umana": può forse esistere una "persona non umana"? non è già insito nel concetto di persona l’attributo di umanità? La partecipazione del cittadino alla vita dello Stato difficilmente può avvenire senza istruzione. Lo sapevano benissimo i nostri nonni e i nostri bisnonni che condizionavano il diritto di voto al possesso del diploma di quinta elementare. Raccontava mio padre, nato nel 1901, che mio nonno, nato nel 1857, era uno dei 19 elettori (per censo e per istruzione) del mio paese, che contava 4500 abitanti, e naturalmente erano tutti maschi poiché, come sapete, le donne allora non avevano diritto al voto. Solo attraverso la grande battaglia di un gruppo di donne meravigliose, tra le quali spicca Maria Montessori, il diritto al voto è stato esteso, nel 1946, anche alle donne. Allora le è stato concesso il privilegio – nonostante non fosse deputata – di mettere piede nell’emiciclo parlamentare. (Lo sapevate che nell’aula parlamentare possono entrare soltanto i deputati e i senatori?). Dopo questa digressione, riprendiamo il nostro tema. I dati allarmanti sull’analfabetismo, che hanno dato l’avvio al Progetto Calabria-Basilicata, non si riferiscono soltanto ai fenomeni vistosi di evasione dell’obbligo e di dispersione scolastica, ma anche analfabetismo di ritorno. Quanta gente è stata a scuola, ha completato l’obbligo, ma ha vissuto con disagio l’impegno di studio, senza poi coltivare la propria istruzione! Le conoscenze scolastiche, divenute sempre più carenti anche perché non stimolate nell’ambiente di lavoro, hanno creato quel divario tra formazione e istruzione che ha reso incerte, e poi insufficienti, le acquisizioni scolastiche! Altre due iniziative in favore dell’istruzione e della formazione in età adulta sono state promosse dalla Direzione Generale dell’Istruzione Elementare. Sono stati istituiti due gruppi di studio, uno per esaminare le problematiche connesse all’educazione degli adulti, l’altro per quelle inerenti l’educazione interculturale. Quest’ultimo progetto è connesso alla presenza in Italia di circa 1.200.000 stranieri: è un fatto importantissimo per la vita e le prospettive del nostro Paese. Dobbiamo imparare non solo a rispettare queste persone – ed è questo un aspetto fondamentale – ma anche a valorizzare il patrimonio culturale e di civiltà di cui loro sono portatori, perché sono per noi fonte di ricchezza. Io, figlio di emigranti, che conosco bene la realtà degli Stati Uniti, in cui sono sepolti mio padre e mia madre e dove vivono le mie sorelle e mio fratello, sono convinto che parte della grandezza degli Stati Uniti sia dovuta proprio all’apporto di civiltà degli immigrati di quel Paese. Gli emigrati italiani, all’inizio, erano trattati certamente molto peggio di come noi oggi trattiamo i cittadini stranieri che vivono in Italia. Soltanto dopo, gli Americani hanno capito il valore della cultura della popolazione che avevano accolto nel loro Paese. Noi non dobbiamo fare lo stesso errore. Noi apparteniamo ad un paese civile, dalle grandi tradizioni. Penso ad Arezzo come alle mille città d’Italia che ho visitato per il mio lavoro. Abbiamo una grande tradizione culturale, siamo un faro di civiltà nel mondo. E anche se siamo critici e ci lamentiamo dei lati negativi che inevitabilmente riscontriamo nel nostro vivere quotidiano, siamo orgogliosi di essere Italiani! Alfabetizzazione della società, formazione continua, educazione permanente per l’intero corso della vita… suonano come slogan, son diventati luoghi comuni, su cui però credo sia necessario insistere perché io spero entrino nella sensibilità e nella coscienza di ognuno. ( 1 – continua )
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