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Interventi al Forum>Prof.ssa Luciana Bellatalla Intervento del gennaio 2003 Prof.ssa Luciana Bellatalla dell'Università di Ferrara, dove insegna Storia della scuola e delle istituzioni educative.
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(Presentiamo questo contributo per gentile concessione
della rivista Ricerche Pedagogiche, che l'ha pubblicato
nel numero 144-145, luglio-dicembre 2002. Ringraziamo il direttore della
rivista, prof. Giovanni Genovesi) |
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Bambino
ritrovato o pedagogia espropriata? Luciana
Bellatalla A
dispetto del suo nome, la pedagogia non ha come oggetto diretto e
primario il bambino eppure essa non ne può prescindere: nella definizione
del suo oggetto, infatti, essa non può non preoccuparsi anche
delle condizioni attraverso le quali tale oggetto, una volta
costituitosi logicamente, può esplicare le categorie che lo definiscono.
Di qui l'interesse per le varie età della vita umana, ivi compresa
l’infanzia, per verificare come, nei vari momenti, l'uomo possa
rispondere a quell'istanza migliorativa (di sé e del mondo) che è
l'educazione. In questa prospettiva, ogni età della vita finisce per
essere - da un punto di vista pedagogico - non un oggetto a sé stante
di studio, bensì un medium, attraverso cui si dispiega
l'educazione. Ogni età della vita e, in particolare, l'infanzia può
essere letta addirittura come metafora dell'educazione stessa. L'Emilio
di Rousseau, scandito in parti che corrispondono alle varie età del protagonista,
può essere assunto come modello di quanto detto. La tesi, per cui
"la natura vuole che i fanciulli siano fanciulli prima di essere
uomini", sebbene sia stata letta come l'atto di nascita d'una
psicologia dell'età evolutiva e d'una pedagogia che l'asseconda, di
fatto indica due categorie dell'educazione: la processualità e la necessità,
che emerge appunto da un paradigma dato dalla natura. Oltre un secolo
dopo, sulla strada aperta da Rousseau, John Dewey sottolineerà il
valore di due doti infantili, l'immaturità e la plasticità[1],
come condizioni della crescita continua dell'uomo. Anche in questo
caso, centro del discorso deweyano è l'educazione, la quale, in quanto
processo senza fine né fini, dovrebbe garantire una "crescita in
infantilità", consentendo a ciascuno di mantenere aperte
le proprie potenzialità ed inalterata la propria adattabilità. Il
bambino cui la pedagogia si richiama - a partire da Platone - non è
solo, dunque, un'astrazione, ma anche una metafora, perché suggerisce
tutte le condizioni su cui l'educazione può costruirsi. Il bambino è
caratterizzato, infatti, positivamente, da curiosità, da
spirito di avventura, da apertura al nuovo, da fiducia nell'adulto, da
plasticità; e, negativamente, come il suo etimo mette in luce,
non sa parlare, è debole, balbetta, è timido ed incapace di scelte
autonome; la sua debolezza ne fa un essere dipendente da altri, indicando
in ciò un'altra delle categorie definitrici dell'educazione e, quindi,
la dialogicità. Per secoli l’aspetto negativo è stato enfatizzato
ed ha condannato l'infanzia ad essere subalterna, anche perché tale
subalternità era, in qualche modo, rinforzata da una struttura
autoritaria della società intera. La stessa etimologia del termine magister,
a cui i fanciulli venivano affidati, indica la superiorità di chi
insegna e può, pertanto, pretendere piena obbedienza e grande
rispetto. Eppure, anche nei secoli in cui il bambino non riceveva
attenzione o era considerato un minus habens che doveva conformarsi
al modello adulto, gli aspetti positivi dell'infanzia erano compresi
e "sfruttati". Non penso solo all'immagine lockiana della tabula
rasa, ma anche e soprattutto alla rigorosa disciplina gesuitica,
volta a "modellare” gli alunni fin dall'infanzia. Del resto, la
metafora del bambino-pianta (già presente in Comenio) ha avuto un
successo duraturo nella pubblicistica pedagogica[2]. Accanto
ai pedagogisti, ci sono genitori, maestri, educatori, operatori
sociali, psicologi, sociologi, che guardano ai bambini e non al
Bambino, perché analizzano situazioni concrete, osservano comportamenti,
cercano strategie operative, organizzano comunità formative. La
prospettiva dei pedagogisti e quella degli altri ricercatori o
operatori è necessariamente e qualitativamente diversa. Ancora Dewey
nel 1916 esprimeva bene la diversità di questi orientamenti, quando
scriveva: "Solo persone come i genitori, i maestri ecc., hanno
degli scopi, non un'idea astratta come l'educazione. Per
conseguenza i loro propositi variano all'infinito, cambiano col crescere
dei bambini, e col crescere dell'esperienza di chi insegna. Anche gli
scopi più validi, se definiti in parole, come parole faranno più male
che bene, a meno che non si riconosca che non sono scopi, ma
piuttosto suggerimenti agli educatori su come osservare, come
prevedere, come scegliere nel liberare e dirigere le energie contenute
nelle situazioni concrete nelle quali si trovano[3].
Ovviamente - in virtù delle loro diversità - questi ordini di
riflessioni e le varie prospettive hanno tutte una loro validità e
possono tutte collaborare non solo ad una migliore comprensione del
microcosmo infantile, ma anche ad una più ampia definizione dei
legami dialettici tra questo microcosmo ed il sistema sociale (con
tutti i suoi sotto-sistemi) a cui è legato ed in cui è inserito. Le
strategie di apprendimento/insegnamento; la vita in atto della scuola;
scelte di politica sociale e culturale possono trarre vantaggio da
queste sinergie al fine di un miglioramento nella qualità della vita
dei singoli e dei gruppi. L'Italia mostra negli ultimi vent'anni un
indubbio progresso in questo senso: si pensi alla trasformazione del
“Nido" da parcheggio a servizio sociale e da questo a vera e
propria occasione educativa e formativa per la primissima infanzia ed
i genitori; si pensi alla nascita di centri per famiglie, che, a far
perno sull'infanzia ed i suoi bisogni, hanno realizzato interessanti
esperienze intergenerazionali e di educazione in età adulta; si
pensi infine all'interessante ed innovativa Legge Turco del 1997.
Tutte queste iniziative tendono certo ad un progetto educativo e
non sono estranee ad una concezione pedagogica dell'infanzia. Si trovano
o dovrebbero trovarsi ad interagire necessariamente con la
prospettiva pedagogica, pur partendo da considerazioni di altro genere
ed avendo finalità esplicite ed intenzionali non immediatamente
formative. Il problema non sorge dall'interazione tra prospettive diverse,
bensì dall'ormai consolidata abitudine, testimoniata da saggi
specialistici e dalle incursioni dei giornalisti nei territori propri
dell'educazione, a presentare ogni tipo di analisi dell'universo
infantile e dei suoi annessi come pedagogica: o direttamente o
indirettamente, per le conseguenze che certe analisi hanno sull'educazione.
Due esempi espliciti di questo atteggiamento vanno ricercati nella
psicologia e nella sociologia, considerate le strade maestre per
accedere all'universo del bambino. In questa prospettiva, psicologia e
sociologia hanno finito per diventare le ancelle d'una concezione
sociale e politica, che tende a sussumere sotto le proprie categorie
quanto prende in considerazione, per darne giustificazione o,
peggio, per autogiustificarsi. Questo diffuso interesse per
l'infanzia, per lo più ridestato da esecrabili fatti di cronaca, ma
anche da impegni (più formali che sostanziali) di governi o di
organismi internazionali, dovrebbe essere salutato con soddisfazione.
Infatti, da decenni, si va lamentando la freddezza del mondo occidentale
così povero di valori (etici e fondativi) e di attenzione verso le
fasce sociali deboli, come bambini e vecchi. Certo, tra pedofilia,
omicidi, malattie e lavoro minorile, non c'è davvero di che gioire.
Tornare a parlare del bambino, dei suoi diritti, delle sue caratteristiche
e tornare a parlarne con frequenza, insistenza e da vari media,
sembra un segnale interessante e significativo di un'infanzia
ritrovata. Ma è nel contempo anche il segnale di una finalmente
diffusa coscienza pedagogica? Purtroppo, a ben guardare, questi interventi
sull'infanzia sono ulteriori contributi a quella delegittimazione del
sapere pedagogico, che in Italia, a partire da Gentile, è stata
portata avanti in maniera costante e ricorrente. Nel 1900, Gentile
aveva affermato, nella sua memoria Sul concetto scientifico di
pedagogia, che la pedagogia, al di fuori della legittimazione/riduzione
filosofica, era una res omnium e, pertanto, una res nullius.
Oggi potremmo riprendere la definizione gentiliana di pedagogia
come res omnium, in quanto da più parti - e le cronache giornalistiche,
con i vari Panebianco e Barbiellini Amidei, lo documentano - si è inclini
a discutere di problemi connessi a questa scienza e tutti si sentono
autorizzati a parlarne. Il
problema può partire proprio dal saggio di Postman[4],
che qualche decennio fa denunciava la scomparsa dell'infanzia in un
secolo, per il quale pure era stata coniata la definizione di secolo
dell'infanzia. L'analisi di Postman è suggestiva, perché legge la
formazione e, per converso, la scomparsa dell'idea di infanzia in
relazione allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Così, da un lato,
l’invenzione della stampa avrebbe - secondo la sua interpretazione -
determinato la nascita di un mondo simbolico, in grado di sostenere non
solo una gerarchia sociale ed intellettuale, ma anche la separazione
e, quindi, la separatezza tra le varie età della vita, dall'altro
lato, la diffusione della televisione distrugge questo mondo
simbolico e, rivelando la vita realisticamente, scaccia i bambini
dall'Eden dell'infanzia. Sebbene Postman confidi molto nella scuola
per contrastare questa degenerazione, nondimeno la sua analisi
riguarda il bambino come costruzione sociale e, di riflesso, come
problema. All'educazione si arriva, dunque, se vi si arriva, per una
via non pedagogica. E, anzi, la stessa considerazione di stampa e
televisione (e specialmente di quest'ultima) è basata sull'uso
corrente di tali mezzi. Soprattutto per la televisione, non si tratta
della potenzialità della sua comunicazione, ma del suo linguaggio,
non del rapporto immagine/immaginazione, bensì di come una televisione
commerciale gestisca e manipoli l'informazione. Postman registra la
situazione in atto, su cui costruisce le sue critiche, ma non riesce a
dare alla sua argomentazione alcun carattere pedagogico, giacché - e lo
dice esplicitamente - alla pars destruens egli non sa opporre
alcuna pars construens, quella, appunto, che avrebbe potuto
nascere da un concetto ben fondato di educazione e, quindi, da una
prospettiva pedagogica. Se,
poi, da analisi generali si passa ad analisi più specifiche, la situazione
addirittura si aggrava. Talora, infatti, non solo la pedagogia è
estranea a descrizioni, analisi e proposte, ma finisce anche per non
aver neppure più motivo di esistere all'interno di tali
argomentazioni. È il caso dei saggi di Silvia Vegetti Finzi[5]
che, riconducendo ogni interpretazione della personalità del soggetto
adulto, da un lato, ad uno schema rigidamente freudiano e, dall'altro,
al gioco delle relazioni affettive (ancora interne a tale schema), dà
poche speranze alla processualità/progettualità dell'impegno educativo,
che è pensato e definito come sforzo di miglioramento e, perciò,
di trasformazione. Ma anche quando non ci si arrocca su schemi
interpretativi rigidi e meccanicistici, l'insidia antipedagogica è
sempre in agguato. Si pensi al lavoro di Lenzen[6],
dove il figlio è co-protagonista con la figura del padre: la documentazione
su cui lo studioso si basa è attinta dalla letteratura, dall’antropologia,
dalla filmografia, dalla teologia e dalla tradizione religiosa, ma mai
da riflessioni di tipo pedagogico. L'essere padre o figlio o bambino,
non è sempre e solo riconducibile al piano culturale o sociale,
poiché indica anche una delle condizioni di possibilità del rapporto
educativo e della sua dialogicità. Se Postman intravede almeno il problema
educativo, se non quello pedagogico, saggi come quelli appena citati
escludono la possibilità di interagire con la prospettiva pedagogica.
Si può anche per loro, certo, parlare di educazione o di formazione,
ma i fondamenti di tali processi sono estranei al piano pedagogico:
l'educazione delle passioni, un sano contesto relazionale o, secondo
i casi, l'attenzione ai condizionamenti ed alle condizioni sociali,
culturali, antropologiche, d'un determinato periodo, o d'un determinato
mondo, come se questi elementi avessero vita propria e non fossero il
frutto di significative interazioni. Non
mancano neppure saggi o ricerche in cui la prospettiva, chiaramente
non pedagogica di partenza, finisce, pagina dopo pagina, per essere
giustificata, nel corso dell'argomentazione, come se fosse o potesse
diventare pedagogica, nella misura in cui le tesi discusse hanno,
direttamente o indirettamente, a che fare con l'educazione e si
traducono o possono tradursi in consigli ed in suggerimenti per genitori
o insegnanti. Come esempio di questa confusione di piani, ricordiamo
il breve volume di Roberto Volpi, dal suggestivo titolo I bambini
inventati[7].
L'autore è un esperto di statistica ed analizza i catastrofici ed
allarmanti dati che giornali e televisioni quotidianamente ci danno
circa la condizione infantile in Italia e nel mondo, dal punto di vista
di sua competenza. Il lavoro dello statistico è eccellente:
contestualizzando i dati ed analizzandoli in maniera comparata con
quelli di altri anni o di altri periodi, Volpi conclude che il bambino
dei mass-media è "inventato", perché esasperato ed
enfatizzato ad arte al fine di commuovere, spaventare e coinvolgere chi
riceve le notizie[8].
Il bambino di oggi, almeno nel mondo occidentale, di fatto è più sano,
più curato, più amato, più protetto, più scolarizzato non solo
rispetto a qualche generazione fa, ma rispetto anche a pochi anni or
sono. Pare che i dati allarmistici, in qualche modo, vengano a
tacitare, sollecitando attenzione e cura per i minori, la coscienza di
adulti, nei fatti sempre meno interessati al bambino. Di qui considerazioni
(scontate) sull'egoismo della vita di oggi, a misura di adulto e non
di bambino, anzi di un bambino costretto entro recinti sempre più
stretti, eretti in nome di una presunta protezione e di una
sbandierata attenzione che, di fatto, mascherano non tanto
indifferenza quanto volontà di segregare ed allontanare l'infanzia
dal mondo dei grandi. Si apre così la strada a proposte educative ed a
suggerimenti operativi[9],
non originali e diffusi da molti anni nella pubblicistica sulla
condizione infantile. Si tratta di proposte per le quali, sebbene il
Volpi non si arroghi il titolo di pedagogista, nondimeno la pedagogia
è chiamata in causa: "Non sono che alcune proposte. Per di più,
come è facile vedere, tutte spostate maggiormente sul piano
formativo-educativo, e che non riguardano - non direttamente, almeno -
le famiglie. Soltanto per far toccare con mano come non manchino
esigenze reali nelle quali far fronte e capaci, se perseguite, di assorbire
operatori e tecnici che oggi vagano in ambiti di dubbia consistenza e
di ancor più dubbia efficacia pedagogico-educativa" (cit., p. 171; il corsivo è mio). In questa affermazione - come, del resto,
nell’impostazione di tutto il saggio - è chiaro il passaggio
(teoricamente indebito) da considerazioni estranee all'educazione a
considerazioni di tipo educativo. Di più, in questo passaggio diventa
evidente l'abitudine diffusa a confondere il piano pedagogico con
quello educativo, riducendo il primo al secondo. Anche il recentissimo volume (già citato) di Rosanna Bosi dal titolo Pedagogia
al nido, tra l'altro esplicitamente dedicato agli studenti
universitari del corso di "Pedagogia generale", testimonia
questa confusione terminologica che rimanda ad una ben più
preoccupante confusione teoretica[10].
L'attenzione recente per l'universo infantile, dunque, lungi dal rimandare
ad una dimensione pedagogica e ad una sua diffusione (salutare per chi
intenda affrontare a tutto tondo e con piena consapevolezza le
questioni inerenti l'educazione, la formazione e l'istruzione),
sottolineano piuttosto una pericolosa linea di cedimento nella costruzione
di una scienza dell'educazione. La pedagogia - se considerata in una prospettiva
scientifica - assolve all’importante compito di elaborare un modello
teorico, storicamente fondato e logicamente coerente, di educazione.
Insomma, per dirla in termini più semplici, spetta alla pedagogia di
definire le condizioni, le categorie ed il senso secondo i quali certi
atti, fatti o eventi possono essere definiti e catalogati come educativi.
Per approdare a questa prospettiva sono occorsi secoli. E prima di
questa consapevolezza teoretica la pedagogia, anziché "madre"
è stata considerata "figlia" dell'educazione[11],
nel senso che è stata presentata come una forma di sapere descrittivo
del dato di fatto. Troppo a lungo la pedagogia, come la filosofia, è
stata una sorta di Nottola sacra a Minerva, "che vola sul far
della notte", cioè come una forma di conoscenza capace di
riassumere, comprendere, spiegare, ma non pre-vedere, anticipare,
proporre. Oggi, questa ansia, diffusa e condivisa, di rapportare scelte,
progetti e strategie alla qualità della vita sociale, chiedendo lumi
per lo più alla sociologia ed alla psicologia, riconduce ad un
primato dell’effettuale sul teoretico. Si chiede un'educazione-fotocopia
della realtà, in nome di una concretezza che impedisce all'elemento
dell'avventura nell'ignoto e della sfida al dato (propri naturalmente
e necessariamente dell'educazione) di germinare. Il pedagogista non ha
il compito ed il dovere di parlare di ciò che c'è, ma di proporre un
paradigma ideale; non deve cercare, come già Dewey sottolineava nel
1916, né di preparare alla realtà effettuale, né di additare
compensazioni al mondo sociale o a suoi squilibri, perché, consapevole
che ogni meta da raggiungere o raggiunta è solo un traguardo di poco
momento rispetto ad un processo e ad un progetto di più ampia portata,
non lavora e non può lavorare solo con la mente rivolta ai problemi del
presente: ogni limitazione, qualunque ne siano la natura e le
caratteristiche, per il pedagogista è una negazione dell'oggetto
stesso della sua scienza. Così il gran parlare di bambini e dei loro
diritti sta degenerando, nell'impossibilità di prestare loro un
ascolto pedagogicamente orientato e giustificato. Volpi è
soddisfatto d'avere quantitativamente rilevato e, di conseguenza, distrutto
il sensazionalismo dei mass media, laddove, per il pedagogista,
anche un solo disperso nella scolarizzazione o un solo bambino violato
mostra una crepa all’interno di un modello qualitativo, universale
proprio perché astratto e paradigmatico. Non si potrebbero dare due
prospettive più antitetiche. Il problema è, dunque, quello di
ri-aggiustare un quadro squilibrato e teoricamente frammentato. Si
tratta, innanzitutto, di determinare gerarchie di tipo logico-argomentativo.
Affrontando problemi di educazione, qualunque sia il punto d'osservazione
privilegiato, la priorità spetta al pedagogista. Solo dopo aver
formulato in maniera chiara e distinta coordinate teoriche pedagogiche,
si potranno ascoltare le parole di psicologi, sociologi ed insegnanti,
nella misura in cui esse si inseriscono sul modello pedagogico e non
perché possano sostituirlo: poiché pedagogia, psicologia, sociologia
hanno oggetti diversi, quando si parla di educazione, è logicamente
necessario ed epistemologicamente corretto chiamare in causa la
pedagogia, che, come scienza, ha il pieno titolo a discutere sul suo
oggetto. In questa ottica, la metafora pedagogica del bambino può
consentire percorsi di attenzione, valorizzazione, compensazione e
miglioramento di individui singoli in situazioni specifiche e
determinate, laddove l'attenzione a casi particolari o a circostanze
altrettanto particolari rischia di perdere proprio quello sforzo di
universalità (tipico dell'educazione), ancorché si possano raggiungere
risultati singolari positivi. In
conclusione, si potrebbe dire, anche se in termini semplificativi, che
l'attuale battage della stampa (più o meno specializzata) sul
bambino sortisce un duplice, negativo effetto: non aiuta l'educazione
a ritrovare adeguatamente l'infanzia, perché non è sorretta da
un'altrettanto adeguata fondazione pedagogica; impedisce alla
pedagogia di presentarsi quale scienza dell'educazione, giacché la
espropria dei suoi compiti e soprattutto delle cornici interpretative
specifiche. Di fatto, questi recenti interventi non fanno che
rafforzare quel sensazionalismo che Volpi denuncia, senza intaccare
quell’indifferenza e quella negligenza verso i soggetti sociali più
deboli che a dispetto di statistiche correttamente lette e
decifrate le cronache quotidiane registrano. Del resto, quando si
parla di educazione, bisogna contemporaneamente fare anche i
moralisti, con ciò essendo convinti di esercitare una ragione pedagogica? [1]. Cfr. Democrazia e educazione, tr. it., Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 53-59. [2]. Cfr. O. Réboul, Il linguaggio dell'educazione, tr. it., Roma, Armando, 1986. [3]. J. Dewey, Op. cit., p. 137. [4]. Cfr. La scomparsa dell'infanzia (1982), tr. it., Roma, Armando, 1987. [5]. Cfr. Il bambino della notte. Divenire donna divenire madre, Milano, Mondadori, 1990 e Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme, idem, 1993. [6]. Cfr. Alla ricerca del padre, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1994. [7]. I bambini inventati. La drammatizzazione della condizione infantile oggi in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 2001. [8]. Su questo aspetto dell’uso distorto e ad effetto da parte dei mass mediadi di notizie sull’educazione e la scuola, cfr. anche G. Genovesi, A. Gramigna, A. Luppi, Mille giorni di scuola. L'istituzione scolastica sulle pagine de “La Repubblica”, Ferrara, Corso, 1994. [9]. Volpi propone che i bambini tornino a stare con i bambini e gli interventi educativi si riducano all'essenziale. Tale essenzialità educativa passa per tre punti: a. “ridurre l’eccesso di protezione”, b. “riabituare i bambini all’uso dello spazio aperto”; c. “mettere i bambini sempre più a contatto con l’altro, con la varietà, con il reale” (Op. cit., p. 164). [10]. Il sottotitolo del volume è significativo: Sentimenti e relazioni, cioè i due termini che, per l’Autrice, costituiscono i cardini di un lavoro educativo in un Nido non più considerato un parcheggio o un’istituzione sociale di appoggio alle famiglie, bensì una scuola sui generis. Il Nido come luogo di relazioni significative è, dunque, un’istituzione educativa particolare, che deve far leva sull’educazione emotiva ed affettiva. Di qui una definizione più generale: “Per pedagogia della relazione si intende una pedagogia che tiene conto non solo della complessità delle loro (dei bambini) relazioni e della loro estesa rete..., ciascuna delle quali richiede una specifica elaborazione pedagogica, ma anche della loro intensità emotiva e del loro significato critico nella fase evolutiva” (p. 92). [11].
Per queste definizioni di pedagogia, cfr. G. Genovesi, La
pedagogia dall’empiria verso la scienza, Bologna, Pitagora,
1999.
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