Il
susseguirsi di riforme del sistema educativo interpretato
come volontà di sostituire al tradizionale impianto
umanistico una visione esclusivamente tecnologica- Si
parla solo di competenze, non più di conoscenze.
Il ruolo dell'esperienza pandemica
Elisabetta
Trezza è una giurista che da anni s'interessa al
sistema educativo esaminandone l'evoluzione e criticando
fortemente la costante progressione di un modello digitale
che considera fine a se stesso. In un recente convegno da
lei organizzato a Roma, dal titolo Può la scuola
tornare a essere scuola?, non ha esitato a palare di “catastrofe
educativa”. I risultati, fa notare, sono sotto gli
occhi di tutti: scolari sempre più ignoranti, anche
se un giorno saranno ben provvisti di diplomi, imbarbarimento
linguistico, insegnanti depressi e mal pagati, genitori
rassegnati o del tutto ignari di quanto va accadendo.
Bisogna
dunque andare alla ricerca delle cause profonde di tutto
questo. Frezza le individua in una costante che a suo parere
ha determinato tutte le riforme e i tentativi di riforma
del sistema scolastico che si sono susseguiti negli ultimi
decenni, e che negli ultimissimi anni hanno subito un'accelerazione
potente. Nella sua visione si tratta di una linea univoca
dettata dall'alto, in particolare dalle centrali burocratiche
europee e garantita dagli apparati amministrativi nazionali,
con le loro circolari scritte in “una lingua parallela,
una lingua iniziatica, quasi esoterica” e non di rado
zeppe di contraddizioni. Circolari che del resto finiscono
molto spesso in un cassetto senza che nessuno le legga.
Il
tutto nutrito dal mito dell'innovazione fine a se stessa:
tutto quello che è nuovo è buono per definizione,
Ma se guardiamo ai risultati emerge chiaramente, secondo
Frezza, la necessità di cambiare rotta prima che
sia troppo tardi. La recente esperienza della pandemia non
ha fatto che peggiorare le cose, in particolare con la didattica
a distanza, offrendoci paradossalmente un'occasione di riscatto,
la possibilità di un risveglio delle coscienze che
potrebbe permetterci una salutare rimonta.
Nello
specifico, Elisabetta Frezza ha delineato i contorni di
questa evoluzione in un'intervista al sito “Casa del
Sole”. Il nocciolo del problema consiste nel fatto
che stiamo importando il modello anglosassone, compresi
i suoi fallimentari risultati. Un modello fondato sì
sul protagonismo degli alunni ma non sulla cura delle loro
capacità cognitive. Piuttosto che di conoscenze si
parla di competenze, e invertendo il rapporto fra mezzo
e fine si attribuisce all'informatica un ruolo esclusivo,
come se si trattasse non di uno strumento ma della misura
ultima di tutte le cose.
Al
fondo di questa situazione la ricercatrice ravvisa il rifiuto
di quell'intreccio fra umanesimo e scienze che ha forgiato
la nostra storia. Il sacrificio delle discipline umanistiche
conduce necessariamente all'ignoranza, per non parlare dell'omologazione
internazionale delle coscienze. Si registra infine una fretta
che rasenta il ricatto: la pressione a usare subito la pioggia
di denaro del Piano nazionale di resilienza e ripresa (Pnrr)
realizzando gli schemi suggeriti dall'alto.
Che
fare dunque? Pur nella critica radicale del sistema Frezza
non dispera, cita il caso di un liceo romano che ha visto
il consiglio d'istituto opporsi alle direttive ufficiali
affrontando il rischio del commissariamento. Ecco, questa
è la strada che indica: e se si potesse formare una
massa critica...
a. v.
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