La
pandemia ha accelerato la transizione verso le nuove tecnologie.
Sapersi destreggiare con il computer è insieme
una necessità e un diritto. Un luogo comune da
smentire: non è vero che i giovani possano mediamente
considerarsi “nativi digitali”
Il
tema della digitalizzazione, che interessa ormai quasi tutti
i settori del nostro vivere quotidiano, dalla scuola alla
pubblica amministrazione, dalla cultura alla salute al commercio,
fino a coinvolgere i rapporti sociali e di lavoro, in questo
periodo di pandemia da Covid 19 ha subito un rapido processo
di accelerazione. Che del problema vi sia una sensibilità
non solo a livello nazionale ma europeo è testimoniato
dalla relazione DESI (Digital Economy and Society Index)
pubblicato dalla Commissione europea in cui si fa il punto,
fra le altre cose, del capitale umano digitale europeo,
ovvero il livello di competenze digitali in possesso dalla
popolazione di ogni Paese membro.
Il
rapporto 2020 indica una media europea di competenze in
lento progresso, pari a circa il 49%. Tale livello, come
è facilmente prevedibile, varia da Paese a Paese,
e va da un massimo dell’88% in Finlandia, al 63% nei
Paesi Bassi, 56% in Germania, 47% in Francia. L’ultimo
posto lo occupa purtroppo l’Italia, con il 32%.
Anche
la relazione Digital Education Hackathon, presentata a novembre
2020, se da una parte ha dimostrato l’importanza delle
soluzioni digitali per l’insegnamento e l’apprendimento,
dall’altro ha fatto emergere le carenze esistenti.
Spunti su cui riflettere e da prendere in considerazione
nelle strategie di sviluppo tecnologico per il futuro del
nostro Paese, anche alla luce degli ingenti investimenti
compiuti in infrastrutture digitali per l’istruzione
e la formazione.
Interessante
è anche notare come contrariamente alla percezione
diffusa che i giovani di oggi appartengano a una generazione
di "nativi digitali", i risultati dell'indagine
OCSE indicano che molti di loro non sviluppano competenze
digitali sufficienti, a prescindere dal paese di appartenenza.
Dati confermati anche dalla prima indagine pilota sulla
povertà educativa digitale realizzata recentemente
in Italia da Save The Children in collaborazione con il
Cremit. I dati OCSE indicano, inoltre, che gli insegnanti,
nei paesi dell'UE, sono raramente formati sull'uso delle
tecnologie dell'informazione e della comunicazione (TIC)
e che segnalano una dilagante necessità di formazione
nel loro utilizzo per l'insegnamento.
Il
programma Digital Europe intende contribuire a sostenere
la ripresa dell'Unione, duramente colpita dalla pandemia
di Covid-19, affiancandosi agli strumenti previsti dal Recovery
Fund e al Green deal europeo. L’obiettivo del programma,
che intende coprire un arco di tempo fino al 2027, è
mettere in atto un intervento pubblico a sostegno dei settori
tecnologici in rapida evoluzione, come il calcolo avanzato,
la gestione dei dati, la cybersicurezza e l'intelligenza
artificiale. L'adozione di un programma a livello UE è
necessaria non solo per pianificare e finanziare congiuntamente
interventi comuni, ma anche per garantire che i vantaggi
derivanti dalle nuove tecnologie digitali siano pienamente
condivisi in tutta l'Europa.
Siamo
convinti che il digitale sia la strada maestra perché
si possa costruire una società più moderna
e inclusiva e che oggi, più che mai, essere digitalmente
competenti sia oltre ad una necessità anche un diritto
imprescindibile. Ma tale diritto per essere esercitato richiede
l’adozione di azioni strutturali e permanenti, nonché
di un costante impegno di sviluppo e adeguamento delle capacità
digitali possedute o da acquisire. Interessante al riguardo
è la recentissima istituzione, nel nostro Paese,
del Servizio Civile Digitale, che intende investire sui
giovani, sulla loro formazione e sul loro ruolo di cittadini
attivi, quali vettori di cambiamento e li reputa capaci
di trasmettere ai loro concittadini le competenze necessarie
per non precipitare nell’esclusione digitale e sociale.
Clemente Porreca
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