Come
rapportarsi con un ragazzo gravemente menomato che è
abituato a vivere rinchiuso in se stesso? - Come arrivare
alla vitale dialettica dell'interazione, del dialogo? -
Una trovata riesce infine a socchiudere questa porta fin
qui blindata dal costante rifiuto di agire – Il ragazzo
respingeva ogni tipo di strumento musicale, ora ne accetta
uno che lo incoraggia emettendo suoni con un semplice
contatto – Finalmente il ghiaccio è rotto
La
sala è piccola e dai colori insolitamente caldi per un
ospedale, intorno al tappeto centrale si raccolgono tamburi
di legno e latta, liuti e bastoni della pioggia, chitarre e
nacchere. G, un ragazzo spastico, autistico ed epilettico di
22 anni, sta per iniziare la sua terapia. G non parla, non
riesce ad emettere suoni comprensibili e presenta gravi
malformazioni fisiche. L’atteggiamento predominante è
quello di passiva sottomissione (preferisce il silenzio
all’emissione dei suoni che riesce a produrre, mentre
altri ragazzi con problemi simili non si fanno scrupoli
perfino a cantare), atteggiamento sottomesso che
probabilmente è stato costretto ad assumere per più di
venti anni della sua vita a casa dei genitori, alcolizzati e
violenti, che mai hanno accettato la sua natura di
diversamente abile.
Entra
accompagnato dalla terapeuta e appena lei abbandona il suo
braccio lui scivola via e si va a sdraiare per terra, in un
angolo della stanza, sorvegliando l’ambiente con occhi un
po’ spauriti. La terapeuta apre la seduta con un rito che
segna sempre l’inizio delle sue ore: accompagnandosi alla
chitarra intona una canzone del buongiorno, della quale
dedica una strofa ad ogni presente. Una al paziente, una a
se stessa e una alla tirocinante che assiste in disparte. Il
ragazzo dà segno di riconoscere perfettamente la parte di
canzone dedicata a lui e sorride, pur rimanendo sdraiato per
terra, incollato alla parete della stanza.
La
seduta prosegue con l’esecuzione di quella che la
terapeuta sa essere la canzone preferita di G, lui si tira
appena un poco su, quel tanto che basta per ondeggiare a
ritmo con gli arpeggi della chitarra. Tecnicamente, si è già
creata una prima forma di contatto, resa possibile dal
meccanismo del sentirsi riconosciuto (nei propri gusti,
nelle proprie preferenze).
Finito
il brano, la musicoterapeuta cerca di coinvolgere il ragazzo
in una forma di interazione “dialogica”. Inizia
costruendo una base, un tappeto ritmico-sonoro costante, per
creare un ambiente di protezione e sostegno (si pensi al
battito del cuore della madre nel grembo materno, alle
vibrazioni ritmicamente costanti dell’essere cullati,
all’effetto distensivo del rumore costante di un
rigagnolo). Su questo sottofondo cerca di instaurare un
dialogo: prende un tamburo e lo accarezza con le dita, prima
piano, poi più forte, e lo avvicina a G. In genere a questo
punto il paziente tocca istintivamente lo strumento e inizia
a interagire, ma G resta chiuso e spaurito, guarda da sotto
in su lo strumento e si limita a toccarlo nei punti
strutturali che non emettono alcun suono. La scelta è
cosciente, non se la sente di essere in alcun modo attivo.
Uno
degli obiettivi della terapia musicale con un paziente del
genere è ovviamente proprio quello di portarlo in una
dimensione dialettica di botta e risposta, in quanto lui non
pratica alcuna forma di comunicazione e, complice
l’atteggiamento remissivo che lo caratterizza, tende a non
esprimere in alcun modo le proprie reazioni e a sentirsi su
un costante piano di inferiorità.
Tamburo
e liuto vengono in qualche modo rifiutati: appena G sente la
pressione di un’aspettativa da parte della terapeuta fa un
sorriso timido e restituisce lo strumento, ben attento a non
suonarlo in alcun modo e a toccarlo solo nei punti
“muti”. E’ a questo punto che alla terapeuta viene in
mente di prendere uno strumento più ludico e semplice,
caratterizzato dal fatto di suonare in ogni sua parte al
minimo contatto. Si tratta del “water percussion”, un
tamburello a sezione cilindrica pieno di piccole palline di
metallo che si spostano e strusciano sulla membrana ad ogni
minimo movimento. G prende tra le mani lo strumento che gli
viene offerto e resta un attimo sconcertato dal primo suono,
emesso senza avvedersene.
Guarda
la terapeuta con occhi increduli e divertiti e la barriera
è rotta: inizia a muovere in mille e più direzioni lo
strumento e ascolta interessatissimo. Per svolgere questi
movimenti si tira su dalla posizione supina e si mette a
sedere in una posa molto più attiva. Dopo un po’ scopre
anche la funzione percussiva dello strumento che ha in mano,
e alterna momenti percussivi a momenti legati alla qualità
dei vari suoni prodotti dalle palline interne. La terapeuta
azzarda qualche cambiamento nella base che sta suonando,
prova, ad esempio, a realizzare un graduale crescendo di
volume e velocità. Dopo un paio di tentativi il ragazzo
inizia a cogliere questo tipo di variazioni e a reagire di
conseguenza secondo le leggi dell’interazione dialettica.
A volte asseconda e segue i crescendo, a volte imita, a
volte risponde in modo inatteso con un elemento contrario a
quello proposto.
Il paziente G è riuscito a superare la barriera che lo
teneva separato dalla comunicazione con il resto del mondo e
a sperimentare una forma di dialogo che segue tutte le
dinamiche di un dialogo verbale e che la musicoterapeuta sa
leggere nei suoi contenuti. Lo stato di paura è vinto e la
posizione del corpo passiva e scarica è stata sostituita da
una postura attiva. Dopo alcuni minuti di dialogo sorride e,
improvvisamente stanco, sceglie di tornare a distendersi, ma
prima di farlo sistema bene il tamburo e vi appoggia la
testa come su un cuscino, che continua a sfiorare con le
dita emettendo un flebile fruscio.
-
Laura Venturi
-
|