La
“buona scuola” del governo Renzi non piace a molta
parte degli insegnanti e agita il mondo politico– Non a
caso l'hanno salutata uno sciopero massiccio, un mare di
polemiche, una sollevazione che dalle piazze si è
trasferita in parlamento – Dunque il progetto di riforma
ha subito qualche ritocco: ispetto alla controversa
formulazione originaria si è cercato di correre ai
ripari, alcune asperità del provvedimento sono state
smussate
Ogni
volta che in Italia si parla di riformare la scuola, partiti
e sindacati affilano le armi. É accaduto anche stavolta, la
“buona scuola” proposta dal governo è rapidamente
diventata un oggetto di aspra contesa politica. Anche perché
si è rivelata subito largamente impopolare: lo dimostra il
massiccio sciopero del 5 maggio, quando due terzi degli
insegnanti hanno, come si dice, incrociato le braccia
paralizzando l'attività didattica. Ai cortei degli
insegnanti, che protestavano in particolare contro la
scomparsa degli scatti d'anzianità sostituiti dalle
valutazioni di merito, contro la mancata assunzione di
“tutti” i precari e contro la figura del
preside-manager, si sono affiancati quelli degli studenti,
soprattutto intenzionati a contestare i previsti favori alla
scuola privata.
Da
questa prova del fuoco, il disegno di legge esce
drasticamente modificato. Il testo uscito dalla camera dei
deputati, in vista di un ulteriore passaggio sotto le forche
caudine in senato, differisce dalla versione originaria su
alcuni punti particolarmente controversi. A cominciare dal
ruolo dei presidi, che avrebbero dovuto gestire la “buona
scuola” con criteri manageriali e poteri pressoché
assoluti: ora quel ruolo è stato ridimensionato. I
dirigenti d'istituto non potranno più agire in beata
solitudine, le loro decisioni dovranno passare attraverso il
vaglio dei consigli d'istituto. Poiché il malumore non è
rientrato nonostante questo sostanziale ritocco, il governo
ha fatto sapere che si può prendere in considerazione la
possibilità di limitare a due i mandati consecutivi dei
presidi.
Retromarcia
anche sul tema degli scatti: ora restano tutti e cinque
mentre scompaiono gli scatti di merito. Il merito sarà
remunerato in altra maniera, è infatti prevista la
possibilità, da parte del preside, di premiare
economicamente ogni anno il cinque per cento dei docenti:
ovviamente quelli che lo avranno meritato per il particolare
impegno da valutarsi d'intesa con l'organo collegiale. Allo
scopo saranno disponibili duecento milioni l'anno. Inoltre
gli insegnanti riceveranno cinquecento euro l'anno per
l'aggiornamento.
Per
quanto riguarda il nodo delle scuole paritarie (si tratta in
pratica degli istituti scolastici religiosi), come è noto
il riformatore deve fare vi conti con il vincolo
costituzionale. La nostra Carta stabilisce infatti che
l'insegnamento è libero, ma la scuola privata non deve
gravare sui conti dello Stato. Di fatto lo farà in modo
indiretto: è infatti prevista la detraibilità delle rette,
fino a un ammontare annuo di 400 euro per studente. In
compenso si garantisce un credito d'imposta a quei privati
che vogliano investire nella scuola, pubblica o privata che
sia: attraverso nuove costruzioni o manutenzioni, o la
promozione di progetti particolari.
Infine le nuove assunzioni. Qui il governo indica
l'ansimante bilancio pubblico: il limite è invalicabile,
impossibile andare oltre i centomila nuovi docenti
regolarizzati. Poi, gradualmente, tutti gli altri precari
potranno tentare l'accesso alle cattedre di ruolo attraverso
le normali modalità di assunzione. Il dibattito va avanti,
la mobilitazione anche, nella scuola febbricitante gli
scrutini sono a rischio. Mentre il presidente del consiglio
come è sua abitudine mostra ottimismo, il destino della
riforma rimane precario. Purtroppo le vere problematiche sul
tappeto rimangono sullo sfondo: è giusto che si discuta,
ovviamente, ma si vorrebbe che non lo si facesse soltanto
nell'ottica politica e sindacale, ma con la priorità della
didattica e dell'efficienza formativa.
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r. f. l.
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