Anche
in Francia si discute animatamente attorno alle proposte
di riorganizzazione scolastica: ora tocca alla riforma
dell'istruzione secondaria – Come sempre si fronteggiano
due schieramenti: da una parte i conservatori fedeli alla
tradizionale trasmissione del sapere, dall'altra i
progressisti che insistono sul ruolo maieutico del docente
– Il caso della storia: l'insegnamento va organizzato
per temi o attraverso il classico approccio cronologico?
La
ministra Najat Vallaud-Belkacem, responsabile
dell'educazione nazionale nel governo diretto da Manuel
Valls, ha presentato la proposta di riforma del collège,
l'istruzione secondaria, e come capita in Francia, non
diversamente dall'Italia, ogni volta che si mette mano
all'organizzazione della scuola, la discussione infuria. In
Francia, scrive Samuel Laurent su Le Monde, si usa
“scontrarsi a proposito dei metodi educativi”. Accade
ogni volta che si parla di riforme scolastiche, e anche
stavolta il crinale ideologico divide due schieramenti ormai
consueti. Da una parte abbiamo i cultori della tradizione.
Per loro la dialettica dell'istruzione si riduce a uno
schema molto semplice: l'insegnante deve trasmettere il
sapere, l'allievo lo deve apprendere. Inoltre i
tradizionalisti sono favorevoli alle classi speciali per i
ragazzi più dotati. Sul fronte contrapposto i progressisti,
fautori di un approccio maieutico, sostengono che il docente
deve piuttosto condurre per mano l'allievo sui sentieri
della conoscenza, insegnargli a pensare, a imparare per
conto suo.
Le
accuse che i due gruppi si scambiano illustrano con
efficacia le rispettive posizioni: secondo i progressisti
l'altra scuola di pensiero è inaccettabilmente elitaria e
tende a perpetuare le diseguaglianze sociali creando una
scuola a due velocità; a loro volta i tradizionalisti
accusano la controparte di “egualitarismo”, che sarebbe
la versione patologica di quella égalité che è uno
dei valori espressi nella triade consegnata al mondo dalla
rivoluzione francese. Naturalmente l'intransigenza
ideologica rischia di mancare qualsiasi obiettivo, per cui
lo sforzo dei riformisti cerca per quanto possibile di
conciliare i due approcci così poco conciliabili, che nello
spettro politico nazionale si riflettono nel contrasto fra
una destra incline alla tradizione e una sinistra
tendenzialmente innovatrice. Ma è proprio l'innovazione a
determinare accanite resistenze: un ex ministro
dell'educazione nazionale, Luc Chatel, sostiene che il
“metodo pedagogista” tipico della corrente progressista
ha fallito, e che bisogna farla finita con l'ipocrisia
egualitaria.
Un
ambito nel quale la contrapposizione delle due scuole di
pensiero è particolarmente visibile è l'insegnamento della
storia. Da una parte la visione tradizionale, la vicenda
storica raccontata e insegnata attraverso lo schema
cronologico: è l'approccio che gli studiosi delle Annales
schernivano come histoire-bataille, e che ai loro
occhi riduceva la grande lezione del passato a un'arida
successione di date. A questo modo di considerare la storia
si contrappone l'idea di un insegnamento non più legato
alla semplice cronologia ma articolato per temi. I
tradizionalisti insistono anche sul valore formativo della
conoscenza storica, alla quale consegnano la finalità di
creare buoni e orgogliosi cittadini: per questo sostengono
che non si deve dare troppo spazio alle pagine meno
gloriose, più in generale “meno francesi”. Sul
dibattito si esercita anche la pressione dell'attualità.
Alcuni anni or sono alcuni insegnanti di storia
manifestarono pubblicamente contro l'esclusione dai
programmi della civilizzazione islamica. Oggi, al contrario,
molti protestano contro il fatto che questo capitolo di
storia è diventato obbligatorio nel ciclo secondario. Il
fatto è che i tempi sono cambiati: non a caso l'islam è
ormai la seconda religione in Francia, con quasi cinque
milioni di praticanti, e al vertice dell'educazione
nazionale c'è una ministra di origine marocchina.
La
stessa autonomia delle scuole secondarie, che la riforma
proposta dal governo Valls intende accrescere affidando ai
singoli istituti la facoltà di decidere fino a un quinto
del curriculum disciplinare, contribuisce ad alimentare il
dibattito. Si teme infatti, sul fronte progressista, che la
maggiore autonomia intenda nascondere l'obiettivo reale di
ridurre i costi e le cattedre, e che si voglia avviare una
fase di concorrenza fra le scuole in un'ottica di mercato
neoliberista. Con accenti simili a quelli che in Italia
hanno investito la “buona scuola” del governo Renzi, si
prendono le distanze da una riforma accusata di trasformare
i presidi in gestori d'impresa con pieni poteri non soltanto
sull'amministrazione ma anche in ambito educativo.
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a. v.
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