É
l'alternativa che in questi tempi di crisi incombe su
molte istituzioni educative nel mondo intero – Il caso
dell'istruzione formativa in Spagna, dove si registrano
due tendenze contraddittorie: da una parte scuole che si
uniscono, dall'altra una nuova offerta personalizzata e
attualizzata – E il caso di Chicago, USA, dove la
fusione di istituti scolastici resi ipertrofici
dall'evoluzione demografica migliora i bilanci pubblici,
ma può creare notevoli disagi sociali
“Le
scuole nate dalla crisi”, titola El País. Il
quotidiano madrileno si riferisce a un fenomeno nuovo,
determinato dalla crisi economica, che in Spagna imperversa
più virulenta che altrove, ma al tempo stesso in apparente
contraddizione con la crisi stessa. Nel campo della
formazione professionale si verifica infatti la coincidenza
di istituti che chiudono, o tentano la sopravvivenza
attraverso la fusione con altre scuole, e di una nuova
offerta che tiene conto proprio delle coordinate sociali e
occupazionali della crisi. Questa offerta si rivolge ai
disoccupati proponendo loro una vera e propria reinvenzione
professionale fondata sulle esigenze del mercato
attentamente monitorate.
A
questa offerta corrisponde una domanda assai diffusa. El
País riferisce la constatazione del direttore di una di
queste scuole: storicamente, in tempi di crisi, la prima
cosa che fa un disoccupato è investire il suo sussidio
proprio nella formazione. Nella speranza che la crisi prima
o poi finisca, si gettano in questo modo le basi per essere
professionalmente pronti al momento della ripresa. Dunque
nelle circostanze attuali, con tanta gente che perde il
lavoro, si pone la necessità di corrispondere a questa loro
attese: e non sempre gli istituti tradizionali di
formazione, pubblicamente sovvenzionati dallo stato, sono
all'altezza di questa sfida. Spesso offrono programmi
datati, del tutto avulsi dalla realtà contingente e dalle
prospettive realistiche di occupazione.
Di
qui il singolare fenomeno delle nuove scuole sorte nelle
città spagnole, in contrasto con le tante che scompaiono o
cercano la salvezza unendosi ad altre. Quest'ultima tendenza
è prevalente in molti paesi. Negli Stati Uniti, per
esempio. Il New York Times riferisce il caso di
Chicago, dove un massiccio programma di ristrutturazione del
sistema scolastico prevede la chiusura di alcune decine di
scuole pubbliche, che dovrebbe far risparmiare cinquecento
milioni di dollari nel prossimo decennio. Naturalmente gli
alunni degli istituti condannati saranno trasferiti in altre
scuole. Il quotidiano cita il caso di una scuola primaria in
un disagiato quartiere periferico, intitolata all'educatrice
e attivista dei diritti civili Mary Mc.Leod Bethune. Potrebbe
ospitare quasi ottocento ragazzi ma ce ne sono soltanto 377,
a causa del declino demografico locale, per il 98 per cento
afroamericani e provenienti da famiglie di modeste
condizioni.
Ora
questi ragazzi dovrebbero trasferirsi un miglio più in là,
nella scuola che porta il nome di John Milton Gregory,
fondatore e primo rettore della prestigiosa University of
Illinois. Ma le famiglie degli alunni destinati al trasloco
sono in fermento: per loro la scuola Bethune è sempre stata
un punto di riferimento, con docenti pronti a intervenire
ogni volta che si manifestavano problemi personali legati a
condizioni di emarginazione, droga per esempio. Inoltre le
classi avevano una consistenza media di diciassette alunni:
nella nuova sede saranno evidentemente molto più affollate.
E poi, come funzionerà il contatto dei ragazzi della
Bethune con quelli della Gregory, mediamente più agiati e
prevalentemente bianchi? Non si rischia il cortocircuito? Le
autorità scolastiche rispondono a queste obiezioni
proponendo un piano di transizione volto a garantire
l'integrazione sociale. E ricordando che il melting pot,
il crogiolo etnico che ha definito l'identità americana,
comincia proprio nella scuola.
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f. s.
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