Ottantacinque
anni dopo il capolavoro di Fritz Lang, in cui si esplorava
il presente immaginandone la proiezione futura, il regista
canadese David Cronenberg lo cita implicitamente nel
titolo del suo film – Dove l'esplorazione del nuovo
presente, quello che oggi ci avvolge e ci tormenta, viene
tentata da un protagonista che si rispecchia nei suoi
interlocutori – Ma ognuno parla per sé, ignorando la
verità di Socrate: “Il dialogo è il sommo bene”
Dal
25 maggio scorso Cosmopolis, l'ultima pellicola di David Cronenberg, è in proiezione
nelle sale cinematografiche italiane. Un film sul presente
ambientato nel futuro, un futuro prossimo che subisce le
scosse delle trasformazioni ingombranti alle quali corre
incontro. Chiaro il riferimento del titolo a quel Metropolis
di Fritz Lang che così bene catturò gli spettri sociali
avvertiti negli anni Venti del secolo scorso, trasposti in
quel caso in epoca di molto posteriore, al punto da fare del
film un modello per le future pellicole di fantascienza. Da Metropolis
a Cosmopolis: niente più zone franche lasciate
all'immaginazione, adesso l'apocalisse sembra investire la
totalità degli spazi che conosciamo, sembra non lasciare
scampo, perché è di apocalisse di un mondo, o, meglio, di
un “modo”, che si parla.
Un'
apocalisse che non è pirotecnica ma quasi annoiata e che si
realizza nella vocazione al suicidio del protagonista, il
miliardario e giovanissimo Eric
Packer, un
personaggio-cosmo che viene indagato in ogni sfaccettatura,
a tratti spietatamente, a tratti con indulgenza. Gran parte
delle scene sono ambientate all'interno dello spazio
claustrofobico ma pieno di comfort della sua limousine, e
gli incontri che vi avvengono con una lunga serie di
personaggi sembrano talvolta mirare alla rappresentazione
della coralità delle voci nella psiche del protagonista.
Protagonista che è microcosmo speculare al mondo che lo
circonda.
Un
film sul tempo, che partendo dall'immagine delle
oscillazioni della Borsa parla di un presente che corre su
binari strettissimi fatti di millesimi di secondi e che è
schiacciato dal futuro che lo invade continuamente. Gli
individui, che siano agiati come il protagonista o che siano
poveri e disperati come il suo principale “antagonista”
(o alter-ego), restano incastrati nella morsa di questa
corsa convergente di secondi con tutta la loro sensibilità
e interiorità. Interiorità contraddittorie e contraddette
da un ambiente che non le accoglie, sensibilità che, dopo
tanto accumulare, di tanto in tanto esondano in modo
irragionevole e si manifestano, distorte e incapaci di
comunicare fra loro o di collaborare, destinate a rimanere
folli e autoreferenziali pur nella drammatica esigenza di
rivolgersi all'esterno, un esterno che è stato troppo a
lungo “claustrofobico ma pieno di comfort” come la
limousine, forse.
Il
film è quasi interamente composto da dialoghi, eppure non
vi è praticamente alcun momento che sia realmente
dialogico. Il rito del dialogo appare come atto finalizzato
che si esplicita in un quasi afferrare un'altra persona e
davanti ad essa “cedere” a se stesso e a quegli aspetti
di sé cui si deve continuamente rinunciare e che devono
continuamente essere combattuti pur di incastrarsi, in una
posizione o in un'altra, nel serratissimo meccanismo
sociale. L'altra persona non sente e non vede, attende il
suo turno.
La
messa da requiem di un sistema, il nostro economico e
sociale, resa monotona e insieme avvincente dal veramente
affine comportamento melodico di ogni sezione di strumenti
in rappresentanza degli elementi; elementi disparati che si
sistemano ordinati in un'ellittica e annoiata caduta verso
un nulla ammiccante.
É
l'intreccio tra due caratteristiche a definire un'opera
d'arte. Il suo grado di risposta e sensibilità in relazione
all'atmosfera del presente in cui viene creata ed il suo
riferimento ad una matrice “umana” che è antica e
immutabile. Matrice umana che è qui quella che si corre
disperatamente incontro senza riuscire a vedersi, in questo
presente nebbioso nel quale è impresa difficilissima quella
di trovare persone che siano abituate al dialogo. La
mancanza del dialogo e di ciò che presuppone è uno dei
problemi strutturali della stessa fruizione media della
cultura contemporanea, che si parli di arte o di educazione
civica, che poi è lo stesso.
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Laura Venturi
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