FOGLIO LAPIS - GIUGNO - 2012

 
 

Ottantacinque anni dopo il capolavoro di Fritz Lang, in cui si esplorava il presente immaginandone la proiezione futura, il regista canadese David Cronenberg lo cita implicitamente nel titolo del suo film – Dove l'esplorazione del nuovo presente, quello che oggi ci avvolge e ci tormenta, viene tentata da un protagonista che si rispecchia nei suoi interlocutori – Ma ognuno parla per sé, ignorando la verità di Socrate: “Il dialogo è il sommo bene”

 

Dal 25 maggio scorso Cosmopolis, l'ultima pellicola di David Cronenberg, è in proiezione nelle sale cinematografiche italiane. Un film sul presente ambientato nel futuro, un futuro prossimo che subisce le scosse delle trasformazioni ingombranti alle quali corre incontro. Chiaro il riferimento del titolo a quel Metropolis di Fritz Lang che così bene catturò gli spettri sociali avvertiti negli anni Venti del secolo scorso, trasposti in quel caso in epoca di molto posteriore, al punto da fare del film un modello per le future pellicole di fantascienza. Da Metropolis a Cosmopolis: niente più zone franche lasciate all'immaginazione, adesso l'apocalisse sembra investire la totalità degli spazi che conosciamo, sembra non lasciare scampo, perché è di apocalisse di un mondo, o, meglio, di un “modo”, che si parla. 

Un' apocalisse che non è pirotecnica ma quasi annoiata e che si realizza nella vocazione al suicidio del protagonista, il miliardario e giovanissimo Eric Packer, un personaggio-cosmo che viene indagato in ogni sfaccettatura, a tratti spietatamente, a tratti con indulgenza. Gran parte delle scene sono ambientate all'interno dello spazio claustrofobico ma pieno di comfort della sua limousine, e gli incontri che vi avvengono con una lunga serie di personaggi sembrano talvolta mirare alla rappresentazione della coralità delle voci nella psiche del protagonista. Protagonista che è microcosmo speculare al mondo che lo circonda. 

Un film sul tempo, che partendo dall'immagine delle oscillazioni della Borsa parla di un presente che corre su binari strettissimi fatti di millesimi di secondi e che è schiacciato dal futuro che lo invade continuamente. Gli individui, che siano agiati come il protagonista o che siano poveri e disperati come il suo principale “antagonista” (o alter-ego), restano incastrati nella morsa di questa corsa convergente di secondi con tutta la loro sensibilità e interiorità. Interiorità contraddittorie e contraddette da un ambiente che non le accoglie, sensibilità che, dopo tanto accumulare, di tanto in tanto esondano in modo irragionevole e si manifestano, distorte e incapaci di comunicare fra loro o di collaborare, destinate a rimanere folli e autoreferenziali pur nella drammatica esigenza di rivolgersi all'esterno, un esterno che è stato troppo a lungo “claustrofobico ma pieno di comfort” come la limousine, forse. 

Il film è quasi interamente composto da dialoghi, eppure non vi è praticamente alcun momento che sia realmente dialogico. Il rito del dialogo appare come atto finalizzato che si esplicita in un quasi afferrare un'altra persona e davanti ad essa “cedere” a se stesso e a quegli aspetti di sé cui si deve continuamente rinunciare e che devono continuamente essere combattuti pur di incastrarsi, in una posizione o in un'altra, nel serratissimo meccanismo sociale. L'altra persona non sente e non vede, attende il suo turno.

La messa da requiem di un sistema, il nostro economico e sociale, resa monotona e insieme avvincente dal veramente affine comportamento melodico di ogni sezione di strumenti in rappresentanza degli elementi; elementi disparati che si sistemano ordinati in un'ellittica e annoiata caduta verso un nulla ammiccante. 

É l'intreccio tra due caratteristiche a definire un'opera d'arte. Il suo grado di risposta e sensibilità in relazione all'atmosfera del presente in cui viene creata ed il suo riferimento ad una matrice “umana” che è antica e immutabile. Matrice umana che è qui quella che si corre disperatamente incontro senza riuscire a vedersi, in questo presente nebbioso nel quale è impresa difficilissima quella di trovare persone che siano abituate al dialogo. La mancanza del dialogo e di ciò che presuppone è uno dei problemi strutturali della stessa fruizione media della cultura contemporanea, che si parli di arte o di educazione civica, che poi è lo stesso.

                                                          Laura Venturi 
                                         

    


                                                  

 
 

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