Lo
studente che copia si trova spesso circondato da un clima
di bonaria tolleranza, mentre quello che lascia copiare è
considerato un campione di altruismo – Eppure, a
considerare la cosa da un punto di vista strettamente
didattico, si tratta di comportamenti scorretti – E per
di più tali da ingenerare surrettiziamente una sorta di
cultura dell’illegalità: che con i tempi che corrono
non è proprio il massimo come offerta formativa – Ma
ora c’è chi reagisce
Prima
un saggio pubblicato dalla prestigiosa editrice Il Mulino:
“Ragazzi, si copia”, di Marcello
Dei, con un sottotitolo illuminante: “A
lezione di imbroglio nelle scuole
italiane”. Poi
la levata di scudi di un gruppo di docenti e capi
d’istituto di Firenze. Comuni la preoccupazione e
l’appello: insomma, vogliamo finirla con il malvezzo di
tollerare chi copia, di considerare questa abitudine al più
come una colpa lieve, magari come una prova di destrezza? E
pensare che nelle scuole americane gli studenti non soltanto
s’impegnano a non copiare e non far copiare, ma
addirittura a denunciare simili comportamenti. Il codice
giacobino della delazione per risanare non la società
minacciata dai realisti, com’era la preoccupazione di
Robespierre e compagni, ma la scuola insidiata da quella
lesione del principio di merito che è rappresentata
dall’attingere disinvoltamente a materiali e soluzioni
altrui.
Il
problema è antico e largamente radicato nella nostra
scuola. Chi scrive ricorda un ragazzo particolarmente forte
negli studi, nei lontani tempi del liceo, che durante i
compiti in classe veniva esiliato nel laboratorio di fisica:
doveva lavorare in assoluta solitudine, perché il suo
cameratismo gli rendeva impossibile respingere chi gli
chiedeva il classico “aiutino”. Insomma lasciava
copiare, contribuendo all’”imbroglio” di cui parla
Dei, e impedendo la corretta valutazione dei lavori di chi
li portava a termine servendosi di quella opportunità.
Di
più, il vizio coinvolge gli stessi insegnanti. Infatti il
gruppo di docenti fiorentini che abbiamo citato si rivolge
direttamente ai colleghi, invitandoli a “non fornire agli
allievi traduzioni o soluzioni” durante gli esami. È uno
scenario piuttosto familiare, quello del docente che si
aggira fra i banchi dispensando consigli e suggerimenti ai
ragazzi chini sui banchi. Alle prove Invalsi dell’anno
scorso gli insegnanti sono stati addirittura lasciati fuori
dalle aule: l’esperienza dell’anno precedente dimostrava
infatti che la loro presenza di fatto alterava, attraverso
gli “aiutini”, quella cristallina oggettività della
valutazione che sarebbe auspicabile.
Il
fatto è che la tolleranza e persino l’incoraggiamento
della copiatura s’iscrivono in un contesto ben noto dei
tempi nostri, fatto di buonismo e di indulgenza.
Probabilmente si annida nel retro-pensiero di chi si
comporta in questo modo il desiderio di compensare le molte
manchevolezze della scuola. Noi docenti non siamo stati
capaci di eseguire al meglio il nostro lavoro? E allora
almeno non infieriamo su quei poveri ragazzi, che colpa ne
hanno loro delle nostre manchevolezze? Del resto c’è
anche chi teorizza l’opportunità di lasciar correre: uno
che sa copiare, questa la formidabile intuizione, è uno che
nella vita saprà come cavarsela. Sarà, ma intanto la
tolleranza di questa abitudine è già un primo passo sulla
strada dell’illegalità: e questo proprio mentre si pone
giustamente l’accento sull’importanza di una seria
educazione ala legalità.
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f. s.
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