Fra
le celebrazioni dell’unità nazionale un convegno presso
l’Università di Ferrara sul tema “La scuola
nell’Italia unita: quale eredità? Un bilancio 150 anni
dopo” – Specialisti italiani e stranieri si sono
interrogati sui molti nodi del nostro sistema educativo
– Che, a ben vedere, educativo non è mai stato, nel
senso che il suo basso profilo e la sua marginalità
istituzionale ne hanno sempre eluso la finalità
essenziale, favorire la scoperta e l’uso della
razionalità
In
principio, fatta l’Italia, ci si pose il problema di
“fare gli italiani”. Lo si affidò alla scuola (oltre
che all’esercito, che però si curava esclusivamente della
metà maschile, per di più ormai adulta, dell’universo
nazionale), visto che l’unità permetteva d’investire in
un organico sistema scolastico che la precedente
frammentazione del paese rendeva impossibile. Ma quel
progetto, “fare gli italiani”, per quanto importante era
riduttivo rispetto alle finalità potenziali di una scuola
moderna. Si partì dunque col piede sbagliato, e nei
successivi sviluppi non sarà certo il fascismo, nonostante
l’impegno pedagogico di Giovanni Gentile, a migliorare la
situazione. Certo, si fecero la scuola elementare di cinque
anni, le scuole speciali, l’istituto magistrale: ma
nell’insieme il sistema restò del tutto inadeguato:
nessun reale sforzo educativo, solo la meccanica
trasmissione di nozioni, di fatti non interpretati. Nozioni,
non idee; e quel vizio è rimasto. Il peccato originale di
quella che il pedagogista Giovanni Genovesi chiama
significativamente schola
infelix, compromette ancora oggi, dopo tanti tentativi
di riforma più o meno radicale, il nostro sistema
dell’istruzione.
Di
queste cose si è parlato lo scorso marzo, in esatta
corrispondenza con il centocinquantesimo compleanno
dell’Italia unita, presso l’Università di Ferrara, in
un convegno al quale hanno partecipato ricercatori
provenienti dal mondo accademico italiano e non soltanto
italiano. “La scuola nell’Italia unita: quale eredità?
Un bilancio 150 anni dopo”: questo il tema che proprio
Genovesi (docente di Pedagogia generale a Ferrara dove
dirige la SPES, Società di politica, educazione e storia, e
il Laboratorio di teoria e storia della scuola) ha
introdotto sottolineando sia l’essenzialità del rapporto
nazione-scuola, sia il carattere della scuola come “spia
macroscopica delle vicende nazionali”. Si sono affrontati
aspetti così disparati come l’utopia educativa di
Mazzini, il ruolo di opere come quelle di Stoppani, De
Amicis, Collodi, la proiezione all’estero dell’immagine
dell’Italia, la riflessione scolastica del processo
unitario e così via.
A
delineare la vicenda dell’istruzione nel primo secolo e
mezzo dell’unità nazionale è stato lo stesso Genovesi,
che è autore di una Storia
della scuola in Italia dal Settecento a oggi, Laterza,
2010. La premessa è una sconfortante presa d’atto: chi
organizza il sistema scolastico generalmente ne ignora fini
e funzioni. Non soltanto in Italia, ovviamente: ma in Italia
questa lacuna è particolarmente evidente. Piuttosto che
perseguire un ideale educativo, consistente nell’aiutare i
soggetti a transitare dalla natura alla cultura, a usare la
razionalità, a esaltare le potenzialità umane, si punta e
si è sempre puntato su obiettivi molto più modesti:
alfabetizzare, trasmettere nozioni, preparare al lavoro. La
meta non è mai stata un popolo di teste pensanti, ma di
cittadini disciplinati. Genovesi smentisce Pasquale Villari,
che addebitò il disastro militare del 1866
all’analfabetismo allora dilagante nel paese: in realtà
la colpa fu di una élite
alfabetizzata, ma proveniente da scuole “educativamente
inefficienti”.
La schola infelix, appunto: e non ha certo raggiunto una condizione
accettabile con le molte riforme successive alla Legge
Casati, che ne aveva gettato le basi due anni prima
dell’unità nazionale. La nostra è rimasta una scuola che
non fa cultura, un sistema meramente funzionale che manca
persino i suoi modesti obiettivi. Rimane dunque un miraggio
quella scuola veramente autonoma, veramente laica, che pure
le scienze dell’educazione ci offrono su un piatto
d’argento. Quella istituzione che per realizzare
l’ideale educativo deve sciogliere innanzitutto il nodo
della formazione docente. Auguriamoci almeno che non serva
un altro secolo e mezzo, perché la scuola italiana esca da
questa condizione di marginalità, sia riconosciuta come
espressione della ricerca scientifica, si liberi finalmente
della sua infelicità,
sia l’effetto e la causa di un’Italia davvero evoluta.
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a. v.
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