FOGLIO LAPIS - GIUGNO - 2010

 
 

Evviva la vita artificiale, ma solo a patto che la straordinaria invenzione vada nelle mani giuste – È la condizione perché la neonata specie, figlia del computer, possa davvero migliorare il mondo – Certo la questione etica s’impone: a chi tocca questa ardita manipolazione? – Proviamo a interrogare la poesia, questa ripida scala che precipita nel cielo e che forse verso l’alto discese Ulisse, che non fu fatto a viver come bruto…

 

– Bebe, te lo sai cos'è il futuro?

– Sì.

– Cos'è? Me lo dici, amore?

– Una stella.

Sono le battute iniziali tra la Bebe e la sua nonna, trasmesse a voce la mattina del 21 maggio 2010, quando il mondo ha appreso la notizia: "Creata la vita artificiale. Per la scienza una nuova era". Così Craig Venter ce l'ha fatta. Ha mantenuto la promessa fatta poco più di due anni fa, di fabbricare in laboratorio un organismo vivente, una specie figlia del computer che presto sarà utile all'uomo: "Ora che abbiamo imparato, per creare un cromosoma impiegheremo circa tre o quattro mesi. Ma vogliamo andare oltre e passare dai batteri alle alghe"… Pensiamo alla grande conquista e non alle possibili perversioni… Avrebbe risolto il problema degli androidi di Blade Runner, che morivano perché le loro cellule non avevano la capacità di ricostruirsi da sole. E l'intera vicenda crea ancora molta confusione nella mia testa. perché se credo che le grandi invenzioni nelle mani di persone intelligenti, buone e giuste, possono contribuire a migliorare il mondo, so anche che alcune grandi invenzioni, nelle mani sbagliate, sono state tragicamente distruttive…

– Chi deciderà quale vita possa essere creata e quale no?

       Questo è il problema…

 

La poesia è una ripida scala spalancata
fila verso il cielo come un uccello in picchiata
Fa paura salire:
se cadi fra una parola e l'altra puoi morire
È una scala senza parapetto, senza paracuore
la si sale da soli accecati dal sole
È una scala senza pareti laterali
salita barcollando da gente senza ali
La sosta non è prevista
o meglio, è ammessa la sosta in movimento
come fanno le stelle, come fa il vento
È una scala senza casa, senza muri
con un punto di partenza soggettivo e nessun punto di arrivo
Polmoni abituati all'aria devono respirare luce
e il sangue deve allungarsi nelle vene
e non più colare ma imparare a parlare.
A una certa altezza trovi il cerchio della luna
una grande nave bianca con le vele
la tua anima distesa sui campi come neve
È l'ultimo gradino conosciuto
poi solo vento e fiato
l'universo nero illuminato
Qualcuno a quel punto ancora sale
poggiando il piede su scalini senza scale
È l'uomo monocellulare
l'uomo di cristallo
che fa poesia come il mare fa il corallo.

Questo è L'Ulisse in patria. Il canto dell'uomo curioso più che uno sposo, amante della scoperta, dell'invenzione, che parte da Itaca, si propaga oltre Cefalonia, batte sul monte più alto di un'altra isola e torna indietro carico d'altri significati. Le sirene rimangono stupite, affascinate, spengono il loro canto mentre lo ascoltano. Ho lasciato il canto com'era, per due ragioni in apparenza opposte: la prima è il carattere personalissimo di una confidenza collegata a una convivenza, a un ambiente (la casa dove abito), un tempo, un paese ormai scomparso dalle carte geografiche, impregnato di una vecchia atmosfera che sarebbe impossibile mutare sia pure di una sfumatura senza trasformare l'acustica del canto; la seconda, invece, è che L'Ulisse in patria a giudicare dalle reazioni che provoca tuttora qui ad Arezzo, nella città dove abito, sembra aver conservato una specie di attualità e perfino di utilità per certuni.

 

                                                          Filippo Nibbi 
                                         

    


                                                  

 
 

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