Evviva la vita artificiale, ma solo a patto che la
straordinaria invenzione vada nelle mani giuste – È la
condizione perché la neonata specie, figlia del computer,
possa davvero migliorare il mondo – Certo la questione
etica s’impone: a chi tocca questa ardita manipolazione?
– Proviamo a interrogare la poesia, questa ripida scala
che precipita nel cielo e che forse verso l’alto discese
Ulisse, che non fu fatto a viver come bruto…
– Bebe, te lo sai cos'è il futuro?
– Sì.
– Cos'è? Me lo dici, amore?
– Una stella.
Sono
le battute iniziali tra la Bebe e la sua nonna, trasmesse a
voce la mattina del 21 maggio 2010, quando il mondo ha
appreso la notizia: "Creata la vita artificiale. Per la
scienza una nuova era". Così Craig Venter ce l'ha
fatta. Ha mantenuto la promessa fatta poco più di due anni
fa, di fabbricare in laboratorio un organismo vivente, una
specie figlia del computer che presto sarà utile all'uomo:
"Ora che abbiamo imparato, per creare un cromosoma
impiegheremo circa tre o quattro mesi. Ma vogliamo andare
oltre e passare dai batteri alle alghe"… Pensiamo
alla grande conquista e non alle possibili perversioni…
Avrebbe risolto il problema degli androidi di Blade Runner,
che morivano perché le loro cellule non avevano la capacità
di ricostruirsi da sole. E l'intera vicenda crea ancora
molta confusione nella mia testa. perché se credo che le
grandi invenzioni nelle mani di persone intelligenti, buone
e giuste, possono contribuire a migliorare il mondo, so
anche che alcune grandi invenzioni, nelle mani sbagliate,
sono state tragicamente distruttive…
–
Chi deciderà quale vita possa essere creata e quale no?
–
Questo
è il problema…
- La poesia è una ripida scala spalancata
- fila verso il cielo come un uccello in picchiata
- Fa paura salire:
- se cadi fra una parola e l'altra puoi morire
- È una scala senza parapetto, senza paracuore
- la si sale da soli accecati dal sole
- È una scala senza pareti laterali
- salita barcollando da gente senza ali
- La sosta non è prevista
- o meglio, è ammessa la sosta in movimento
- come fanno le stelle, come fa il vento
- È una scala senza casa, senza muri
- con un punto di partenza soggettivo e nessun punto di arrivo
- Polmoni abituati all'aria devono respirare luce
- e il sangue deve allungarsi nelle vene
- e non più colare ma imparare a parlare.
- A una certa altezza trovi il cerchio della luna
- una grande nave bianca con le vele
- la tua anima distesa sui campi come neve
- È l'ultimo gradino conosciuto
- poi solo vento e fiato
- l'universo nero illuminato
- Qualcuno a quel punto ancora sale
- poggiando il piede su scalini senza scale
- È l'uomo monocellulare
- l'uomo di cristallo
- che fa poesia come il mare fa il corallo.
Questo
è L'Ulisse in patria.
Il canto dell'uomo curioso più che uno sposo, amante della
scoperta, dell'invenzione, che parte da Itaca, si propaga
oltre Cefalonia, batte sul monte più alto di un'altra isola
e torna indietro carico d'altri significati. Le sirene
rimangono stupite, affascinate, spengono il loro canto
mentre lo ascoltano. Ho lasciato il canto com'era, per due
ragioni in apparenza opposte: la prima è il carattere
personalissimo di una confidenza collegata a una convivenza,
a un ambiente (la casa dove abito), un tempo, un paese ormai
scomparso dalle carte geografiche, impregnato di una vecchia
atmosfera che sarebbe impossibile mutare sia pure di una
sfumatura senza trasformare l'acustica del canto; la
seconda, invece, è che L'Ulisse
in patria a giudicare dalle reazioni che provoca tuttora
qui ad Arezzo, nella città dove abito, sembra aver
conservato una specie di attualità e perfino di utilità
per certuni.
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Filippo Nibbi
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